Ripensare la polizia
ci siamo scoperti diversi da
come pensavamo di essere
 

un libro di
Marcello Zinola


Prefazione

di Nando Dalla Chiesa


Le forze dell’ordine e la loro formazione. Le forze dell’ordine e la legalità democratica. Le forze dell’ordine e la sinistra. Sono questi i problemi affrontati da Marcello Zinola muovendo dai fatti di Genova del luglio 2001. Problemi cruciali che attraversano in lungo e in largo il dibattito sullo Stato di diritto, sulla sicurezza, sull’uso della forza nei sistemi democratici. E che, tanto più per un giornalista del “Secolo XIX”, non potevano non trovare in Genova il grande evento paradigmatico, il caso empirico da passare al setaccio, da cui trarre inquietudini e indicazioni. Il metodo che l’Autore segue nella stesura del suo libro-documento si rivela in questo caso di estrema efficacia. Una ricostruzione dei fatti, tagliata secondo le esigenze ricognitive più immediate. E poi interviste ai protagonisti degli eventi, compreso il comandante del celebre reparto mobile romano che fece irruzione alla Diaz, ai rappresentanti sindacali delle forze di polizia, a uno studioso specializzatosi da tempo nella sociologia della sicurezza. Si mescolano così nelle pagine culture e punti di vista, aperture alla riflessione e chiusure corporative, ammissioni di verità e pregiudizi ideologici, anche di segno opposto. E ne esce un quadro che pone al lettore una molteplicità di spunti e di problemi. In ogni caso uno spaccato che consegna, a chi voglia responsabilmente guidare il Paese, il tema della formazione delle forze dell’ordine in tutta la sua densità e consistenza: tema cruciale di ogni progetto di governo, prova del nove della serietà e profondità delle culture riformatrici.
Genova 2001 è stato in questo dibattito un doloroso spartiacque. E lo è stato per il concorso di diversi fattori che sarebbe ben difficile ripetere in qualsiasi prova di laboratorio. L’appuntamento dei Grandi della terra mentre le intelligence raccolgono (e l’11 settembre dimostrerà come non fossero esagerazioni) le prime informative su possibili eclatanti attentati antiamericani; la fresca formazione del primo governo con la partecipazione (e con tanto di vicepresidenza del Consiglio) del partito post-fascista; l’avallo dei precedenti governi dell’Ulivo alle maniere forti nella repressione dei disordini di piazza o di stadio; la assoluta desuetudine (a partire dalla fine degli anni settanta) delle forze dell’ordine a una gestione professionale e sistematica dell’ordine pubblico; l’uso da parte dei movimenti no global più radicali degli eventi internazionali come formidabile vetrina mediatica, con conseguente ricerca dell’evento mediatico per definizione, quello bellico del conflitto di piazza; la crescita straordinaria – ben oltre le aree cosiddette antagonistiche – di un variegato movimento di opinione, forte soprattutto in Italia, per la pace e per nuovi rapporti tra Nord e Sud del mondo; una corsa dei media (che ben si coglie nel libro) a creare la drammatizzazione preventiva dell’evento fino a produrre il clima psicologico ideale per il compimento del dramma, che trova il suo punto più alto nella morte di Carlo Giuliani.
Stanno lì, in quella combinazione storica, le radici di quanto si è visto, contraddittoriamente, a Genova. Da un lato uno dei più duri assalti alle forze dell’ordine da parte di migliaia di manifestanti (e su questo ha ragione, tra gli intervistati, chi invita a non limitarsi a guardare solo ai black bloc); dall’altro la più strabiliante repressione mai vista dopo gli anni cinquanta nei confronti di una manifestazione di piazza. Anzi, per essere precisi, una repressione senza precedenti nemmeno negli anni cinquanta per quel che riguarda il trattamento massicciamente riservato a fasce di popolazione assolutamente pacifica e inerme e i comportamenti “in sede separata” tipo Diaz o Bolzaneto. Colpisce, a distanza di due anni, che su un versante e sull’altro vi sia ancora chi tende a rimuovere, a negare, a giustificare. Ed è una tendenza che si coglie anche nel libro, che per questo diventa affresco di realtà più pungente. Eppure i limiti della democrazia italiana sono anche derivati, storicamente, dalle prudenze, dalle reticenze, dalle rimozioni degli errori compiuti, anche i più nobilmente motivati. Perché in fondo non c’è democrazia vitale e forte, non c’è buona democrazia, senza il riconoscimento degli errori.
Ovviamente gli uomini delle istituzioni (e chi scrive si considera tale per cultura e tale è comunque per la funzione parlamentare che svolge) da un lato sono indotti a difendere gli altri uomini delle istituzioni, condividendone le finalità e i compiti – appunto – “istituzionali”. Dall’altro sono proprio per questo più colpiti, o dovrebbero essere più colpiti, dai comportamenti devianti di chi è chiamato a rappresentare lo Stato. Per questo il vasto scenario delle devianze genovesi pone ad alcuni di loro lo scomodo interrogativo di come, dal ’96 al 2001, avesse operato il governo dell’Ulivo per sradicare dalle forze dell’ordine ogni orientamento all’abuso e all’arbitrio, o comunque per scoraggiarlo. La risposta sta nel deficit (bifronte) di cultura riformatrice che l’Ulivo stesso ha in quell’esperienza manifestato. Poiché da un lato esso ha portato nel governo la storica sottovalutazione della sinistra per il tema della sicurezza, vista per decenni come categoria mentale di uno Stato repressivo e antipopolare. Dall’altro ha cercato di rimediarvi dando pienamente corso, nel concreto esercizio del potere, a un antico approccio politicista, da realpolitik. L’approccio, per intendersi, sviluppato nella costruzione delle alleanze sociali: rapporti di vertice con l’industria e con le banche, rapporti di vertice con l’informazione, rapporti di vertice con le forze dell’ordine. Attenzione spasmodica verso le richieste volte a fare dall’Arma dei Carabinieri la quarta Forza armata, disattenzione verso bisogni e formazione delle centinaia di migliaia di persone impegnate sul fronte della sicurezza. In tutti e due i vizi (tendenza a restare la sinistra del dopoguerra, tendenza a fare come la destra) si è dunque radicata l’incapacità di costruire per gli operatori della sicurezza un orizzonte culturale più solido e avanzato. Anche per questo Genova si è potuta presentare come la continuazione esponenziale e intollerabile di quanto già era accaduto, in misura ben più contenuta, durante la manifestazione no global di Napoli nella primavera precedente.
Insomma, a ridosso del Duemila si è consumato quasi un passaggio carsico sotto la pelle della società italiana. Come se, soprattutto di fronte alla spinta delle ideologie anti-immigratorie e ad alcune conflittualità sociali (considerate marginali), avesse inconsciamente acquisito cittadinanza un modello “anarchico” e al tempo stesso autoritario di gestione della forza a opera dello Stato. Come se, soprattutto per responsabilità politiche, si fossero gettate le basi per disperdere quell’enorme capitale di fiducia che le forze dell’ordine avevano conquistato a duri prezzi anche a sinistra. La lotta contro il terrorismo, la lotta contro la mafia e la criminalità organizzata, con i sacrifici conseguenti, avevano infatti progressivamente attribuito agli uomini in divisa un ruolo assai più di “protezione” che di “repressione”. E a questo, in definitiva, erano dovuti gli stessi ripetuti successi di serial televisivi incentrati sulle figure di commissari o marescialli. Dissento in proposito con alcuni accenti della lucida intervista del sociologo Salvatore Palidda riportata più avanti. Non mi pare, cioè, che gli eccessi e gli abusi di Genova trovino la propria origine in abitudini contratte anche nelle fasi emergenziali (terrorismo, mafia). In quei periodi – anni ottanta e novanta – il rapporto con il popolo fu infatti di rispetto reciproco, al di là di alcune sindromi da sceriffo ben presenti alla memoria di chi scrive. Bastonare il popolo pacifico è stato dunque un salto qualitativo, che non può spiegarsi con quella “licenza di trascendere” che purtroppo e contraddittoriamente viene sempre riconosciuta, specie nei momenti caldi, ai tutori della legalità.
Doveva accadere necessariamente quel che è accaduto a Genova? Nonostante la combinazione storica di cui abbiamo parlato spingesse indubbiamente in tale direzione, la risposta è no. Giustamente Zinola, che mette nel libro lo spirito di osservazione del giornalista esperto di cose di giustizia e di sicurezza, fa e propone più volte il paragone con quanto è accaduto nel novembre del 2002 a Firenze. Dove certo non vi era alcun appuntamento dei Grandi della terra con annessa zona rossa. Ma dove già aleggiavano i venti aspri della guerra, con un clima mediatico nuovamente impazzito, e con un milione di manifestanti in arrivo da tutta Europa. Lì, anche per effetto dello shock di Genova, vi sono stati una maggiore maturità da parte dei manifestanti e un altro, ben diverso approccio da parte del ministero dell’Interno, nel frattempo preso in carica da altro ministro.
Il luglio di Genova, cioè, è storicamente e sociologicamente “comprensibile”, ma era solo uno degli esiti possibili in quel crogiuolo di tensioni e di elementi. Chi pensa che al di là di tutto vi siano sempre, nella storia, anche le responsabilità dei soggetti che vi operano e delle loro culture, è costretto a prendere atto, amaramente, che molti in quei mesi e in quei giorni non sono stati all’altezza delle loro responsabilità. Il primo passo perché questo non accada più è evitare di trincerarsi dietro le versioni più accomodanti, magari temendo che ogni ammissione offra sponde ai nemici del dialogo. Non è così. Il fatto è che non solo le forze di polizia, quella volta, si sono scoperte diverse da come pensavano di essere, secondo la bella citazione autobiografica che apre il libro. Nel bene e nel male è capitato a tutti. Genova come trauma, ma anche Genova come rivelazione.


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