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I traditi di
Cefalonia
La vicenda della Divisione Acqui 1943-1944
un libro di Paolo Paoletti
Introduzione
Cefalonia è l’episodio più eclatante e,
nonostante i tanti libri e i più numerosi articoli, il meno studiato, del
contributo dei militari italiani alla lotta di liberazione nazionale. Allo
stesso tempo rientra nel lungo elenco degli orrori della seconda guerra
mondiale: lo sterminio di massa degli ebrei e delle altre minoranze etniche e
religiose o dei minorati psichici. Qui non vogliamo partecipare alla stesura di
una classifica degli orrori, perché ogni olocausto, ogni genocidio, ogni crimine
di guerra è un delitto contro l’umanità. Vogliamo qui meditare e ricordare
quello che avvenne nell’isola ionica di Cefalonia, dove nel settembre 1943 si
assisté al risorgere di un crimine che sembrava estinto: l’eliminazione fisica
dei prigionieri di guerra. Lì nell’abbagliante splendore di un pezzo di terra
incastonato nello zaffiro del mare Ionio, si ebbe la conferma che l’animale più
sanguinario restava sempre l’uomo. A Cefalonia il soldato tedesco riscoprì
l’istinto primordiale dell’eliminazione fisica del nemico sconfitto. Nel 1943 lo
sterminio sistematico e di massa dei prigionieri di guerra sembrava appartenere
al passato, alle epoche “barbariche”, o meglio delle culture precolombiane in
genere. Invece solo nell’isola ionica di Cefalonia, si dovette assistere ad uno
degli episodi più degradanti nella storia della Wehrmacht.
Ci siamo accorti che a 60 anni dai fatti, restava ancora molto da spiegare su
questa strage dai numeri a molte cifre. Soprattutto perché tanti fascicoli
custoditi presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e quello
della Marina erano stati trascurati o non attentamente vagliati. La scoperta di
questa nuova documentazione – centinaia di testimonianze e di documenti mai
utilizzati prima – ci ha obbligato ad una rilettura globale di quello che ci era
stato lasciato finora.
La ricerca archivistica non ha presentato difficoltà di sorta: agli Uffici
Storici dell’Esercito e della Marina siamo andati a ritrovare i radiogrammi da e
per il Comando Supremo e all’archivio militare di Friburgo quelli da e per il
XXII Corpo d’Armata e la 1ª divisione alpina tedesca. Già nei primissimi anni
’90 avevamo trovato in Germania alcuni documenti compromettenti per Gandin, in
particolare la sua lettera del 14 settembre al ten. col. Barge, ma, quando in
Italia tentammo di pubblicare un articolo, questo ci venne rifiutato. Lo scorso
anno abbiamo frugato ancora in quel faldone e in quelli contigui e sono usciti
fuori nuovi importanti documenti. A quel punto non restava che prendere atto di
quelle novità e riconoscere quelle dolorose verità. Ci siamo accorti di aver
corretto travisamenti o errate interpretazioni, più o meno interessati. Alla
fine siamo andati alla ricerca degli ultimi testimoni oculari.
In questi 60 anni si è scritto che Cefalonia rappresenta il simbolo del
sacrificio dei soldati italiani morti nel segno dell’ubbidienza agli ordini, ma
tra quei martiri c’è una medaglia d’oro che usurpa questi meriti e che non ha
riscattato con la morte davanti al plotone d’esecuzione tutto il male che aveva,
forse inconsciamente, causato alla sua divisione. La scelta di fedeltà e lealtà
incondizionata al governo legittimo, come nella loro tradizione secolare, è
stata ben rappresentata dall’Arma dei Carabinieri (1), dalla
Marina, dalla Guardia di Finanza e dall’Artiglieria, che furono compatte da
subito nello schierarsi contro i tedeschi, mentre il comandante del presidio,
generale Antonio Gandin, andò subito in direzione opposta, trattando con i
tedeschi, fino al giorno in cui non venne attaccato. Il generale, che era stato
interprete e ufficiale di collegamento con il Comando Supremo germanico, trattò
direttamente coi comandanti dell’isola e del Corpo d’Armata tedesco, quindi solo
dalla documentazione germanica possiamo sapere il contenuto dei colloqui
intercorsi tra i tre. Le sorprese non mancano: per tre volte il gen. Gandin
fornì al nemico informazioni diffamatorie sulla sua divisione. Quel che è peggio
è che ripeté l’accusa menzognera di insubordinazione nella sua ultima missiva
del 14 settembre. In questa lettera Gandin prese una netta distanza tra sé e i
suoi soldati, definendoli esplicitamente ribelli al suo ordine di cessione delle
armi e potenzialmente capaci di mettere in pericolo il suo comando. La cosa più
grave è che queste due falsità il gen. Gandin le ha ripetute più volte a quel
nemico, che lui evidentemente non considerava tale, perché in confidenza gli
confessava segreti, che non osava raccontare neppure al Comando Supremo
italiano! Hitler, senza alcun diritto, si erse a giustiziere di quei militari
italiani, che ai suoi occhi non solo erano “traditori”, perché il loro governo
aveva chiesto la resa al nemico anglo-americano, ma persino “ribelli”, in quanto
non avevano accettato l’ordine di resa dato dal loro generale. Così tedeschi e
austriaci della Wehrmacht non videro in quei giovani che si arrendevano dei
soldati tutelati dalle leggi internazionali dell’Aja ma dei “banditi”, dei
“franchi tiratori”, degli “ammutinati” che meritavano il codice penale di guerra
tedesco!
Anche in questo caso la retorica e le cicale del politically correct hanno fatto
un tale rumore da sovrapporsi a chi aveva timidamente cercato di far vedere che
non era tutto oro quello che luccicava. Ci riferiamo proprio alla medaglia d’oro
al valor militare data al gen. Antonio Gandin, sulla cui figura fino ad oggi si
sono stesi pietosi drappeggi etici per coprire la nuda sostanza della sua
azione: non solo non aveva ubbidito ai ripetuti ordini del legittimo governo, ma
aveva anche raccontato al nemico falsità tali da far ritenere la divisione come
un’accozzaglia di ammutinati, sobillati da alcuni ufficiali.
Non si può definire una caratteristica di questa strage il fatto che sia rimasta
impunita, perché questa è la norma. Ma semmai colpisce che quest’eccidio di
Cefalonia sia noto in Italia e in Grecia, molto meno in Germania e nel resto
d’Europa. Sono passati 60 anni dalla vera Katyn (2) della
Wehrmacht a Cefalonia, per cui è arrivato il momento di dire la verità alle
vittime, che non hanno mai chiesto vendetta ma solo la giustizia o almeno la
memoria. Crediamo che oggi la procura di Dortmund, che ha riaperto il caso nel
novembre 2001, abbia l’opportunità di rimediare in parte agli errori del passato
(l’archiviazione del procuratore Nachtweh del 1969), perché il più grosso
crimine di guerra commesso dalla Wehrmacht nella seconda guerra mondiale contro
un’unità nemica non rimanga senza un processo. Anche perché la rivista degli
alpini “Die Gebirgstruppe” (3) continua a ospitare articoli
dove si negano le dimensioni della strage e in pratica si getta fango sulle
vittime. Se qualcuno in Germania continuasse a dire “la Wehrmacht non si
tocca!”, è arrivato il momento che si ricreda. I primi e gli ultimi criminali di
guerra tedeschi in Italia, nel settembre ’43 in Basilicata e Puglia e tra il 30
aprile e il 2 maggio 1945, a Pedescala, in provincia di Vicenza, sono stati i
paracadutisti della 1ª divisione. A Cefalonia i criminali furono altre truppe
scelte, gli alpini della leggendaria “Edelweiß” e non le SS o le Waffen-SS!
Dal punto di vista storico occorre sfatare subito un mito: quello dei presidi
italiani lasciati senza ordini. In verità sulle isole della Sardegna, Corsica,
Corfù, Cefalonia e Lero gli ordini del Comando Supremo (da qui in avanti CS)
arrivarono dopo un silenzio di due giorni ma in tempo utile, cioè l’11
settembre, quando in queste isole la situazione era ancora fluida, tant’è che
tutti i comandanti dei presidi citati rimasero fedeli al re e al governo. Solo a
Cefalonia il Comando Divisione arrivò ad un accordo di massima per la cessione
delle armi, il che dimostra che le scelte delle guarnigioni non dipendevano dal
giorno o dall’ora in cui arrivavano gli ordini da Brindisi ma dal comandante che
li riceveva. Gandin fu l’unico che scelse di ignorare gli ordini e continuò, per
altri tre giorni, a trattare la resa con il nemico: da una prima intesa dell’11
passò a quella del 12 e infine all’accordo di massima della sera del 13
settembre e perfino il 14 settembre, dopo che si era visto sconfessato dalla
grande maggioranza dei suoi uomini, continuò a trattare.
Dopo decenni di polemiche, persino tra i reduci stessi, con denunce finite in
tribunale, tra chi sosteneva che era dovere combattere e chi vantava il diritto
di arrendersi, dopo un processo che nel 1957 mandò assolti 27 sopravvissuti, tra
ufficiali, sottufficiali e truppa, accusati di rivolta continuata, cospirazione
e insubordinazione ma sostanzialmente imputati di aver portato la divisione a
combattere contro i tedeschi, ancora non si è sanata la cesura tra questi due
schieramenti: chi rivendicava il dovere-diritto di impugnare le armi contro il
nemico e chi invece propugnava la resa, come unica via d’uscita da una battaglia
persa in partenza. Dopo una ventina di libri, un numero maggiore di opuscoli ed
un’infinità di articoli, nel 1998, uscì un ennesimo libro, che prometteva “la
vera storia dell’eccidio di Cefalonia”. Oggi dopo che testimoni e protagonisti
hanno raccontato la battaglia e il massacro, dopo centinaia di interventi di
innumerevoli studiosi, politici e opinionisti, che hanno sentito il bisogno di
dire la loro, è arrivato il momento di affidarsi ai documenti, di scoprire i
retroscena, le responsabilità dirette e indirette, che emergono dagli stessi.
Si è scritto che l’uomo è sempre parziale, che persino l’imparzialità è
parziale. Forse l’imparzialità è solo un’illusione ma noi cercheremo ugualmente
di essere attenti ai documenti e ai fatti, anche se siamo convinti che occorra
leggere dietro gli accadimenti. Perché il compito dello storico è anche la
ricostruzione di quello che si cela sotto le apparenze, valutare i documenti, a
volte palesemente falsificati, come quelli tedeschi.
Abbiamo pensato al titolo “traditi” perché, come abbiamo accennato, quei poveri
nostri soldati di Cefalonia furono traditi nove volte, in modo diverso e con la
gravità che ognuno riterrà giusto attribuire a tali fatti, secondo la propria
coscienza.
In primo luogo i soldati della Acqui furono traditi dagli alleati, i britannici
in particolare, che non rispettarono quelle stesse clausole armistiziali che ci
avevano imposto, come se i vincitori potessero scegliere se onorarle o meno. Il
cosiddetto Documento di Quebec del 18.8.1943, integrativo del testo
dell’armistizio corto, recitava: “Predisporre i piani perché al momento
opportuno le unità italiane nei Balcani possano marciare verso la costa dove
potranno essere trasportate in Italia dalle Nazioni Unite”. Gli alleati si erano
impegnati a rimpatriare le nostre truppe e invece non trasferirono in Italia
neppure un soldato. Mandarono a Cefalonia, come in molte isole greche missioni
militari per promettere ai nostri presidi aiuti in uomini e mezzi, che ebbero
luogo solo in alcuni casi. Dunque i soldati della Acqui furono traditi dagli
unici che potevano salvare le nostre guarnigioni. Massacrati a 230 miglia da
Brindisi, a 10 ore di navigazione dalle nostre coste. Dunque se a Cefalonia
avvenne quell’orrido macello, i responsabili non stavano solo lì, a Berlino e
Brindisi, ma anche a Malta, al Cairo, Algeri, Londra e Washington. Come spesso
accade, ci furono forse più responsabilità politiche che militari.
In secondo luogo furono traditi dal loro comandante, il gen Gandin, che nella
lettera ai tedeschi del 14 accusò i suoi soldati di ribellione. Furono queste
false accuse riferite al gen. Lanz e al col. Barge, poi messe per iscritto da
Gandin – non a caso nascoste agli italiani per decenni – a contribuire alla
condanna a morte di alcune migliaia di nostri soldati. Razionalmente non
riusciamo a trovare un’altra spiegazione all’orrenda infamia commessa da Hitler
solo a Cefalonia. Le confidenze fatte ai tedeschi da Gandin e il fatto che
l’eccidio di massa dei prigionieri di guerra si concretizzi solo a Cefalonia,
sono la riprova che quella fu una decisione presa a seguito delle parole del
nostro generale e non della resistenza opposta dalla divisione. Questo
ovviamente non attenua minimamente il crimine di Hitler ma offre una risposta
logica ad una domanda che i più hanno evitato di porsi: perché solo a Cefalonia?
Purtroppo è un fatto che Gandin non solo non obbedì ai ripetuti ordini del
governo, non reagendo alle intimidazioni di resa, trattando con i tedeschi, che
sapeva di dover considerare nemici, ma alla fine confessò ai tedeschi quello che
avrebbe dovuto dire solo al CS: che i soldati si ribellavano al suo ordine. Se
c’era stata disubbidienza e ribellione ai suoi ordini solo gli organi competenti
italiani ne dovevano essere informati, non Hitler!
In terzo luogo i martiri furono “traditi” dal Comando Supremo, che non pretese
dagli Alleati l’applicazione del documento di Quebec, per quanto la situazione
fosse stata subito giudicata “grave”. Debole con i forti, spietato con gli
indifesi. Nella sua logica tutta improntata al sacrificio delle truppe, quando
da Cefalonia giunse prima la richiesta di evacuazione, poi quella di aiuti
militari, il Comando Supremo rispose “immolatevi”, che la patria non
dimenticherà il vostro sacrificio. Il grottesco fu che gli aerei e i soccorsi
arrivarono su Cefalonia, quando ormai la guarnigione era stata già annientata.
In quarto luogo bisogna dire che i partigiani greci, prima premettero per la
lotta, poi quando ricevettero le armi e le munizioni dagli italiani, si
defilarono dalla battaglia contro i tedeschi: persero tra i 5 e i 9 uomini in
una settimana di battaglia. In contrasto con la cobelligeranza dei partigiani
corfioti e la generosità della popolazione cefallonita che dopo il massacro fu
sempre a fianco dei nostri soldati.
In quinto luogo i martiri furono traditi dai generali del Ministero della
Difesa, a Roma, dispensatori di medaglie “politiche”. Un’altra beffa per le
vittime della Acqui: i generali di via XX settembre si dimenticarono della
promessa fatta ai morituri dal gen. Ambrosio: “ogni vostro sacrificio sarà
ricompensato”. Nel 1948 quando il Ministero della Difesa italiano fu chiamato a
dare un riconoscimento al valore di 6-9 migliaia di caduti, dispensò solo 15
medaglie d’oro al V.M., mentre ne distribuì 35 per i 335 fucilati delle Fosse
Ardeatine. I soldati della Acqui furono meno eroici dei cittadini rastrellati in
via delle Quattro Fontane o dei prigionieri politici portati via dal luogo di
tortura di via Tasso? Oppure i fucilati dalle SS avevano un peso specifico
superiore? Se era tutto sangue versato per la stessa patria, perché tanta
disparità di riconoscimenti? Nessuno ci ha ancora spiegato come è potuto
accadere che nel 1948 si onorasse con la stessa medaglia d’oro al V.M. la
memoria di due ufficiali che si erano comportati in maniera opposta, come il
generale Gandin e il colonnello Lusignani: il primo si accordò per la resa dopo
6 giorni di trattative e poi fu costretto a combattere solo perché la sua
divisione venne attaccata, mentre il secondo, suo subordinato, si schierò subito
contro i tedeschi e contrastò l’inevitabile reazione nemica.
In sesto luogo le vittime di Cefalonia furono tradite dai giudici militari
americani che al processo di Norimberga condannarono il gen. Hubert Lanz a soli
12 anni di carcere e poi gliene fecero scontare solo 5.
In settimo luogo furono traditi anche dal procuratore generale di Stato di
Dortmund Nachtweh, che optò per l’archiviazione dopo aver ascoltato 231 testi,
di cui due soli greci e due italiani: l’autore di un romanzo su Cefalonia,
Marcello Venturi (4) e il cappellano militare don Ghilardini.
Alla magistratura tedesca chiediamo che ci dica quali furono i molti
responsabili e gli ancor di più esecutori materiali. Poi ci farebbe piacere
anche sapere chi furono quei pochi soldati che spararono per aria per non
sentirsi sulla coscienza di aver ucciso dei prigionieri di guerra.
In ottavo luogo furono traditi dai ministri della Difesa Paolo Emilio Taviani e
Gaetano Martino e dal Procuratore Generale Militare di Roma che insabbiarono il
fascicolo su Cefalonia, impedendo il processo contro i criminali di guerra
tedeschi. Uno dei tanti casi rimasti senza seguito anche dopo il passaggio della
pratica alla Procura Militare di Roma.
In nono luogo non si può dimenticare la Repubblica italiana che si ricordò di
rendere omaggio al sacrificio della Acqui solo nel 1980, con la prima visita del
Presidente Sandro Pertini a Cefalonia e successivamente con il Presidente Carlo
Azeglio Ciampi, che vi si recò il 1° marzo 2001.
Questi sono i “traditori” dei martiri della divisione Acqui. Se poi avesse
ragione chi sostiene che l’unica cosa saggia da fare in quelle circostanze era
quella di cedere le armi, allora i caduti della Acqui furono traditi da
ufficiali ribelli, assolti poi dal Tribunale Militare Territoriale di Roma.
Dunque in ogni caso traditi.
Martiri decorati o mai riconosciuti, eroi vilipesi o semplicemente ignorati. Dei
12.500 militari della divisione Acqui, a fine guerra ne erano caduti 10.500, più
o meno quante sarebbero state le vittime di tutte le rappresaglie naziste contro
la popolazione civile italiana tra il settembre 1943 e il maggio 1945. Questo
solo dato è sufficiente a farci misurare il reale sacrificio dei 600.000 soldati
sorpresi dall’armistizio all’estero. Ciò nonostante, a 60 anni dai fatti,
bisogna ancora ripetere che l’epopea della “Acqui”, che pur segnò la prima
pagina della Resistenza italiana, continua a non fare notizia. Nonostante
l’attenzione dedicata dai media alle visite dei Presidenti della Repubblica
Pertini e Ciampi, i morti della Acqui risultano penalizzati rispetto ai
partigiani caduti sul suolo italiano. Come non ricordare le parole di Montanelli
che parlava di due Resistenze, “una quotata in Borsa come tale, perché avallata
dai partiti politici, l’altra esclusa dal listino dei titoli, perché quelli a
cui s’intestava (la Patria e la Nazione) erano considerati scaduti” (5).
Solo nel 1998 il Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante (6)
ammetteva che “per molti anni la straordinaria impresa militare e civile della
Acqui è rimasta ai margini della nostra memoria collettiva”.
Ai martiri di Cefalonia si sono eretti monumenti e dedicate vie e piazze in
tutta Italia, perché gli uomini dell’Acqui provenivano non solo dal Piemonte ma
vi erano 67 toscani (7), siciliani, trentini, molti veneti (8),
calabresi. Al di là del nome Acqui la divisione accoglieva i figli di tutta
Italia e solo meno di un decimo ha rivisto la patria. Noi non vorremmo che nel
2003 si bruciasse la pietà verso questi martiri innalzando altri monumenti,
facendo altra retorica o parlando solo dei numeri, enormi, incredibili. Su
Cefalonia, dal 1946 ad oggi, si sono riempite migliaia di pagine, senza mai
notare che l’ordine di Hitler di non fare prigionieri venne eseguito in toto
solo da alcuni comandanti, mentre altri si attennero ad una prima direttiva che
imponeva di passare per le armi solo gli ufficiali. Si è anche dimenticato di
ricordare il caso di un ufficiale italiano che fu aiutato a fuggire dal
comandante e dal vicecomandante di una compagnia di alpini austriaci e di un
ufficiale tedesco che ottenne la grazia per gli ultimi morituri. Ma perché
quella strage assumesse dimensioni uniche nella storia dell’ultimo secolo fu
sufficiente l’ubbidienza all’ordine criminale di Hitler di alcune decine di
ufficiali, la maggioranza, e un numero ben maggiore di sottufficiali e soldati.
Per cui le eccezioni confermano la regola.
Oggi la declassificazione dei documenti dei servizi segreti inglesi ci ha
permesso di fare un ulteriore passo in avanti nella ricerca. E queste carte
dello Special Operations Executive rendono merito ai nostri soldati più che ai
generali dello stato maggiore e dei ministeri. O se si preferisce rende più
grandi certi eroi e ne ridimensiona altri. Ma soprattutto ci dice chi fu vero
eroe, anche se non ebbe mai un riconoscimento. Come è evidente, non si tratta di
dettagli ma di sostanza.
Alla fine del 1953 il presidente tedesco Theodor Heuss depose una corona di
fiori sul sacrario delle Fosse Ardeatine, nel 2002 il Presidente Rau si è recato
a Marzabotto implicitamente chiedendo perdono ai parenti delle vittime della
strage. Purtroppo nel 2003 il rappresentante della nazione tedesca non si
recherà a Cefalonia insieme al Presidente italiano e a quello greco, per
ricordare le vittime dell’odio nazista – perché la memoria è una fiammella che
va sempre alimentata – e per celebrare nella pace l’unificazione europea.
Un’occasione perduta per le istituzioni.
Noi, con questo libro, non pretendiamo di aver trovato la verità assoluta sulla
strage: ci siamo limitati ad indagare su alcuni aspetti nascosti, a violare
certi silenzi, a dare la nostra lettura della vicenda, cercando di spiegare gli
ennesimi ritardi della storiografia.
Tutto il materiale documentario utilizzato per questo libro è conservato presso
l‘Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (USSME), l’Ufficio Storico
della Marina Militare (USMM), il Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo, il
Public Record Office di Londra e i National Archives at College Park, vicino a
Washington. Ovviamente tra la documentazione italiana abbiamo privilegiato le
relazioni fatte a caldo dai reduci nel 1944-1945 e non quelle posteriori. Si
vedrà così cosa raccontarono i superstiti della Acqui davanti al servizio
segreto SIM/CSDIC e quello che invece hanno poi scritto alcuni di loro, come don
Formato, don Ghilardini, Apollonio e Pampaloni, nei decenni successivi nei loro
libri.
Note
1 I Carabinieri caduti a Cefalonia ebbero
due medaglie d’oro (ten. Alfredo Sandulli e s. ten. Orazio Petruccelli), dieci
medaglie d’argento e 6 di bronzo, tutte alla memoria.
2 Katyn è una foresta dove l’NKVD, i servizi segreti di
Stalin, fecero fucilare più di 10.000 ufficiali polacchi, attribuendo poi la
responsabilità dell’eccidio alla Wehrmacht. L’Unione Sovietica ammise
ufficialmente le proprie responsabilità solo nel 1989.
3 Ci riferiamo in particolare agli articoli apparsi su
“Die Geburgstruppe”, n.3 del giugno 2001 a cura di Gerhart Klamert, n.5/6 del
dicembre 2001 a cura di Gerd R. Meyer e dell’aprile 2002 del d r. Werner Funke.
4 Marcello Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia,
Feltrinelli, Milano, 1963
5 Indro Montanelli, “Corsera”, 6.3.2001.
6 55° Anniversario della resistenza della divisione Acqui
a Cefalonia, Camera dei Deputati, Roma, 1998, p.1.
7 Nell’opuscolo “La battaglia della Acqui”, pubblicato
dal Comune di Firenze, nel 1973, si elencano i nomi dei fiorentini caduti.
8 In Mario Altarui, Treviso nella Resistenza, Treviso,
1975, p.34.
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