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I traditi di
Cefalonia
La vicenda della Divisione Acqui 1943-1944
un libro di Paolo Paoletti
Prefazione
di Luigi Lotti
Da quasi vent’anni Paolo Paoletti si
dedica allo studio di momenti o problemi della Seconda Guerra Mondilale. Il suo
meritorio impegno si è di fatto articolato in due fasi: nella prima, sino a metà
degli anni ’90, si è rivolto prevalentemente ad aspetti del passaggio del fronte
a Firenze nell’agosto del 1944; nella seconda invece si è orientato alla
ricostruzione sistematica e rigorosa degli eccidi compiuti dai tedeschi in
Italia, anche e soprattutto sulla base della documentazione americana,
britannica e tedesca fino ad allora inedita.
I relativi volumi sulla strage del Padule di Fucecchio, su quelle di Sant’Anna
di Stazzema, di Pietransieri, di Pedescala e Settecà, su quella di San Miniato,
hanno avuto una vasta eco per la messa in discussione di “verità” presunte, per
l’individuazione delle responsabilità degli autori: facendo cadere idee
consolidate ma erronee come la responsabilità di Reder per Sant’Anna di Stazzema
provocando un seppur tardivo procedimento verso i veri responsabili, o come la
convinzione erronea della provenienza germanica anziché americana della bomba di
cannone che provocò la strage nella chiesa di San Miniato.
Con quest’ultimo studio Paolo Paoletti ha affrontato una nuova tematica, che
muove anch’essa dal criminale eccidio di migliaia di ufficiali, sottufficiali e
soldati italiani perpetrato per ordine personale di Hitler a Cefalonia, ancora
una volta con un rigoroso esame delle fonti e una problematica ricostruzione dei
fatti. Ma accentra anche l’attenzione sul comportamento del comandante della
divisione Acqui, generale Gandin, sulla base di nuovi documenti inediti che
consentono di ripercorrere passo passo il suo travagliato iter, dallo
sbigottimento seguito all’armistizio, ai tentativi di accordo con i comandi
germanici, alla resistenza e alla fucilazione. L’autore ne trae valutazioni
molto aspre e polemiche, forse eccessive, se si compara la situazione di
Cefalonia con quanto avvenne in tutti gli altri territori occupati dalle truppe
italiane e nello stesso territorio nazionale.
Cefalonia è in realtà un caso a sé nel collasso generale dell’esercito italiano
alla proclamazione dell’armistizio, che ha alla base la mancanza di ordini
perentori e immediati (ben altro che l’affermazione radiofonica di Badoglio di
sospensione delle attività contro gli anglo-americani e di reazione ad attacchi
da qualsiasi altra provenienza); l’abbandono della sede di comando da parte
dello Stato Maggiore, e il suo riemergere a Brindisi due giorni dopo, giusto in
tempo per ordinare la resistenza solo a Cefalonia, dato che nel frattempo tutto
si era dissolto altrove, in Grecia, nei Balcani, nella Francia meridionale,
nella stessa penisola italiana, a cominciare da tutti i comandi elevati e
intermedi, compresi i superiori diretti del generale Gandin. Sì che Cefalonia
diventa il solo punto di resistenza, ma simbolica, essendo impossibile portarle
aiuto e impedire la sconfitta. Cui i tedeschi vi aggiunsero il massacro.
Cefalonia è emblematica del collasso italiano: la sorpresa dell’armistizio,
ancorché auspicato, la disposizione di Badoglio di reagire ad attacchi tedeschi
ma non di attaccarli, talora la difficoltà psicologica di considerare
improvvisamente nemici gli alleati fino a poche ore prima soprattutto la mancata
predisposizione operativa per le truppe all’estero e in Italia, il silenzio del
Comando Supremo dopo la proclamazione dell’armistizio e cioè la mancanza della
sola iniziativa che avrebbe potuto, forse, ovviare a questo groviglio di
problemi, con l’emanazione di ordini precisi repentini e palesi.
In assenza ciascuno rispose al proprio stato d’animo e alla propria coscienza:
che prevalentemente spinsero ad abbandonare tutto e a tornare a casa, e solo in
taluni casi a resistere subito o a riorganizzare la resistenza dopo. Con la
conseguenza che i tedeschi occuparono il territorio italiano senza veri problemi
e all’estero catturarono e inviarono in campo di concentramento in Germania
650000 militari italiani.
Anche a Cefalonia c’era tutto questo, ma la differenza fondamentale era che
tutti si trovavano in un’isola dalla quale nessuno poteva uscire. Così ci fu il
generale Gandin, che aveva esperienze operative con i comandi superiori
germanici ed era insignito di un’onorificenza tedesca, e che ovviamente cercò
l’accordo con i comandi tedeschi nell’isola al fine di salvaguardare la
divisione e poterla trasferire altrove, sia pure disarmata, evitando
combattimenti sicuramente distruttivi; così ci furono ufficiali subalterni a
taluni reparti determinati a resistere, per fedeltà al giuramento o per scelte
politiche e magari per la convinzione di poter prevalere sui pochi reparti
militari tedeschi nell’isola (ma sostenuti dall’aviazione e dalle truppe in
Grecia); così vi erano reparti per niente inclini al combattimento. Una
divisione non più concorde, non più ligia agli ordini del comandante, le cui
scelte di accordo furono paralizzate, fino a quando gli ordini tardivi dello
Stato Maggiore la spinsero a identificarsi con la linea della resistenza sino
alla sconfitta e allo sterminio.
Una tragedia immane, che Paolo Paletti ricostruisce in questo volume nella sua
complessità, e che era nata fondamentalmente dal fatto che la divisione,
trovandosi in un’isola, non aveva alternative al dilemma fra una resa
incondizionata sempre respinta, un accordo di resa concordato o una resistenza
senza speranza. Una molteplicità di circostanze portò a quest’ultima soluzione,
caso pressoché unico nell’umiliante e totale sfacelo dell’esercito italiano,
facendo sì che il primo avvio della partecipazione italiana alla guerra contro
la Germania avvenisse in una lontana isola greca.
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