L'uomo che parla alla torretta
Lettere dalla striscia di Gaza
 

un libro di Federica Cecchini


Introduzione


“È Gaza, sei mesi”. Ricordo che quando chiamai mia madre lei concluse la telefonata dicendomi “buon giorno” come se l’avessi svegliata improvvisamente dal suo sonno e lei con una voce non sua, ma presa a prestito per quel momento, stesse ancora cercando di capire se stava sognando o se si era già svegliata.
 
Nemmeno io sono stata molto in me per qualche momento.
 
Per uno strano gioco del destino, la telefonata coincideva con un altro evento che stava sviluppandosi nella mia vita, cosa che mi destabilizzava doppiamente e che fa sì che io conservi da allora un ricordo particolarmente nitido voluminoso di quella giornata, per quello che ha portato alla mia vita.
 
“Gaza” è una parola che evoca una realtà particolare per noi che viviamo “qui”. Andare a Gaza non è la stessa cosa che andare a Butembo per esempio, che evoca qualcosa solo nella mente di pochi, a meno che uno non ci viva, non ci muoia, o non ci vada insieme a 300 pazzi che vorrebbero la pace nel mondo. Anche in Congo le persone muoiono a migliaia, a milioni. Da quando sono nata, in Africa si muore di fame, di morbillo, di diarrea, di machete.
 
Ma Gaza è diversa. E andarci in prima missione con Medici Senza Frontiere, uno dei sogni della mia vita, per me ha significato molte cose, non tutte ancora ben decifrate, e forse alcune non del tutto decifrabili.
 
Questa è la raccolta delle lettere che ho scritto settimanalmente a chi stava “qui”. Ho dato seguito al mio appuntamento con la lettera settimanale con precisione salvifica e dato che non sono riuscita a scrivere molto altro a me, su di me e su quello che mi stava succedendo, questo è ciò che rimarrà sulla carta dei miei mesi di missione. Il venerdì mattina, primo giorno del fine settimana musulmano, quando i miei colleghi ancora dormivano e il muezzin mi cantava nelle orecchie già da qualche ora, mi alzavo silenziosamente, accendevo il computer, ci litigavo, spesso per colpa mia, come si fa quando si litiga con le persone e trascorrevo qualche ora a raccontare.
 
Ho raccontato quello che ho visto e ascoltato, ho raccontato i muri che nascono e quelli che crollano, il rumore degli spari e la chiamata alla preghiera. Ho raccontato le palme vecchie come i nonni, che spariscono in un battito di ciglia e forse non ho raccontato le fragole che nascono sotto lo sguardo vigile del carro armato sulla collina.
 
Ho sempre cercato di mantenere l’equidistanza dalle parti in lotta. Ho scoperto recentemente che questo concetto, per chi crede nella forza della nonviolenza, si sta trasformando in “equivicinanza”, il che fa di esso un ideale ancora più alto e impegnativo da raggiungere. Ho provato a mantenermi imparziale a molti livelli: quello professionale, quello di volontaria per un’associazione seria come Medici Senza Frontiere, che si garantisce un accesso alle vittime dei conflitti grazie al suo mantenersi politicamente neutrale, e quello umano. Ammetto di non esserci riuscita sempre, non come avrei desiderato. Ammetto di aver visto solo un lato del conflitto, lavorando da una parte del filo spinato e di aver vissuto maggiormente i dolori e gli strazi di chi si trovava “di qua”. Ammetto perciò di essere scivolata a volte in considerazioni più o meno velatamente rabbiose, incredule, stupefatte nei confronti di chi stava “di là”. Mi hanno rassicurata che questo è umano ed io ne prendo atto, anche se non mi basta. La guerra è una cosa schifosa, da qualsiasi parte la si guardi e la si viva. Se si tolgono le bandiere e se si permette a Dio di fare il suo mestiere come sa fare da solo, senza coinvolgerlo in massacri di vario genere, se si guardano gli occhi dei bambini “di qua” e “di là” dal filo spinato, se si ascoltano i singhiozzi delle madri e dei padri sparsi per il globo che piangono la morte dei piccoli innocenti, non importa più se stai lavorando nella striscia di Gaza o a Gerusalemme est o a Butembo o a Sarajevo: la guerra uccide. E la morte è uguale dappertutto, per chiunque.
 
Ecco, l’equivicinanza.
 
Io faccio un mestiere come un altro, amo il mio lavoro perché ci credo o ci credo perché lo amo, non so dirlo esattamente, lo faccio con la passione che mi contraddistingue e solitamente non avverto il bisogno di etichette, non credo nelle verità assolute, mi distanzio da schematismi che imprigionano.
 
Lavoro da qualche anno ormai e da moltissimi anni io conservavo dentro di me l’immagine di un poster su cui campeggiava il viso un bambino africano, malato, per cui in Svizzera si facevano campagne di raccolta fondi. A quel bambino io credo di aver promesso, da bambina qual ero pure io, di andare dove stava lui per fare qualcosa insieme, perché io non lo volevo più vedere nel poster l’anno dopo, ancora malato, lui e le sue pustole sul viso. Ho serbato e coltivato questo sogno, che è poi divenuto un progetto, ho varcato i confini che separavano il nostro “qui” dalle ultime “guerre umanitarie” svolte a un passo da casa e ho iniziato a dare la mia mano a bambini scaraventati in caserme maleodoranti e campi profughi. E poi mi sono sentita pronta a farlo per dei periodi più lunghi, forse anche per questo msf mi ha presa.
 
Forse mi ha presa a mi ha mandata a Gaza, perché io amo il mio lavoro e ci credo e amo i bambini con le manine strette alla mia nei campi profughi in Bosnia o in Sicilia e amo i bambini che cantano e ballano quando arriviamo a Butembo di sera tardi e amo i bambini che corrono davanti al muro del pianto e amo quelli i cui padri, per ottenere il permesso di mandarli a scuola, parlano con la torretta.
 

Coldrerio, 23 settembre 2003
 


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