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L'ussaro di Genova
di Giuseppe Pallavicini
Introduzione
Avevo pochi anni, forse sei o sette, e già
sentivo mia madre nominare l’antica famiglia dei Prato. Lo faceva di solito
attardandosi a contemplare il ritratto di Agostino Prato – appeso nel salotto di
casa – dal quale emanava una certa aura inquietante. Il ritratto poi fu donato o
venduto a una nostra parente, ma ne conservo chiaramente nella memoria le
fattezze del viso. L’uomo ti guardava con profondi occhi nocciola e al colore
brunastro dei capelli e dei baffi si mescolava una forte tonalità fulva. Portava
il fiocco alla Mazzini e di questi aveva lo stesso aspetto emaciato e
palpitante.
Talvolta mia madre pronunciava il nome di Gabriele, il padre di Agostino e il
discorso allora coinvolgeva la cavalleria napoleonica. Era come il lancio del
sasso in uno stagno: le onde dentro di me si propagavano tumultuosamente verso
quel mondo perduto, quasi fiabesco.
Un po’ più grandicello, venni a sapere che l’ultimo discendente dei Prato, una
femmina di nome Anna Maria, detta Marina, era morta a ottant’anni, nel 1910,
nubile e senza figli. La vecchina, piccolissima e minuta – così la ricordava
eccezionalmente mia madre, nata nel 1907 – era la figlia di Gabriele, il
protagonista della nostra storia. Dalle memorie materne affioravano anche una
feluca e due spalline dorate che lei attribuiva a un altro antenato. Invece
esse, unitamente a due sciabole – una sottile e l’altra tozza che tante volte da
bambino avevo impugnato con orgoglioso stupore – appartenevano all’uniforme di
Gabriele quando era stato maggiore di Piazza del Regno di Sardegna.
Nella nostra narrazione non compaiono né Marina né i suoi fratelli maggiori:
Cosimo, Alberto e Agostino, ma di queste omissioni mi accollo io tutta la
responsabilità. Quando – per continuare nella genesi del romanzo – alla fine
degli anni ’50, mio zio materno si fu trasferito in casa nostra, portando con sé
un bauletto di documenti antichi, la mia curiosità si coagulò sulla figura di
quell’ussaro “francese”. E poco tempo dopo, frugando quasi furtivamente fra
quelle carte, appagai le mie attese. Scoprii con grande emozione lettere
personali, atti pubblici e stati di servizio militare riguardanti proprio lui,
Gabriele Prato! A quell’epoca, non avvezzo alle fatiche letterarie e addirittura
in difficoltà con i temi liceali, non osai concepire un discorso di lunga
durata, ma l’immagine di quell’uomo si sedimentò nella mia anima “antica”.
Oggi, che sono passati trent’anni da quella scoperta e che la mia penna è più
“affilata” mi sono chiesto perché non ricostruire le “vicende” del mio avo. E
così ho fatto e al lettore appassionato e benevolo, dirò sottovoce che alcune di
“esse” sono immaginarie, ma lui sia generoso, non indaghi oltre e lasci un velo
discreto “su la favola bella che ieri mi illuse, ch’oggi ti illude…”.
L’autore. Genova, ottobre 1986
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