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L'ussaro di Genova
di Giuseppe Pallavicini
Le prime pagine del libro
Nell’autunno del 1857, il nobiluomo
genovese Gabriele Prato viveva a Santa Margherita, ormai da nove anni. Si era
trasferito là assieme alla sua fedele amante, dopo essersi congedato dall’Armata
Sarda col grado di maggiore di prima classe. La sua casa, che dominava il molo
come un avamposto solitario, si affacciava sulla baia di Corte e chiudeva a
occidente la vista del mare.
Quel mattino, mercoledì 9 ottobre, l’ufficiale camminava lentamente sulla strada
costiera facendo risonare il suo bastone di bosso. Di tanto in tanto si
soffermava a scrutare l’orizzonte mentre lo scirocco gli scompigliava i lembi
della finanziera. Uno sbuffo di nuvole si stava sfaldando davanti al sole che
sembrava rincorrerle. I suoi sguardi spaziavano fra il cielo intorbidito e le
acque increspate dove le onde dalle venature perlacee cullavano il suo spirito
inquieto. A un tratto Carlo Burlando, suo devoto amico e amministratore, gli
mosse incontro con una busta giallognola ed esclamò:
– Da Parigi! Dal Ministero della Guerra!
Il tenente colonnello Prato – nel frattempo era stato promosso – aprì
l’involucro con dita nervose. Trovò una lettera, un attestato di onorificenza e
un minuscolo cofanetto rivestito di velluto purpureo. All’interno del cofanetto,
una medaglia di bronzo col profilo di Napoleone I, cinto di ghirlanda, emanava
un quieto splendore. Alla medaglia era legato un nastrino a righe rosse e verdi
e l’attestato recitava così:
MEDAILLE DE SAINTE-HELENE, instituée par S.M. Napoléon III
Napoléon I, A ses compagnons de gloire. Sa dernière pensée! Sainte-Hélène, 5 mai
1821
Le Grand Chancelier de l‘Ordre Impérial de la Légion d’Honneur, certifie que
Mr Prato, Gabriel, à Gênes, ayant servi durant la période de
1792 à 1815, a reçu la Médaille de Sainte-Hélène.
Duc de Plaisance
Quella testimonianza, come le onde che aveva appena osservato, invase la sua
mente in un crescendo d’immagini. Dopo quarantatré anni, la Francia si
rammentava di un suo fedele servitore. Sulle guance dell’antico ussaro,
scivolarono due gocciole invisibili, mentre i suoi pensieri naufragavano nel
vortice delle memorie…
* * *
Si rivide studente appena uscito dal liceo
dei padri Somaschi di Genova, quando, pur infervorato dalle aquile francesi, si
era sentito escluso da quelle folgoranti vittorie. Il clamore delle gloriose
battaglie di Marengo, Wagram, Austerlitz era riecheggiato in lui, suscitando
immagini di soldati festosi e di labari svettanti ma aveva preferito continuare
gli studi alla facoltà di giurisprudenza. Fra i banchi dell’università si era
legato di amicizia a un certo Marco Ferraris, un ineffabile studente piemontese
che oscillava fra la carne, i carmi e le carte. Erano le tre “c”, affermava il
compagno, che toccavano l’uomo nelle sue emozioni più profonde e immediate.
Assieme a lui aveva trascorso interminabili serate in un caffè di via del Campo
frequentato da artisti e biscazzieri e non erano state poche le volte che
rincasava senza un soldo. La figura carismatica di Marco lo suggestionava. Le
sue divagazioni poetiche l’affascinavano anche se poi si concludevano
prosaicamente in un postribolo di vico della Lepre. Dopo alcuni mesi di quella
vita dissipata, Gabriele era caduto in una fase di apatìa durante la quale i
libri di diritto gli suonavano noiosi, teorici, lui voleva una vita d’azione! In
tre anni di università aveva superato soltanto sei esami, poi nell’estate del
1812 aveva cominciato a fremere per la campagna di Russia. Marco invece
considerava Napoleone un traditore della filosofia illuministica e non
partecipava agli entusiasmi di Gabriele. In casa Prato, suo padre lo frenava
senza denigrare l’Imperatore, erano pur sempre, diceva, sudditi della Francia
alla quale la Liguria da alcuni anni apparteneva politicamente.
Nel dicembre del 1812, dopo la ritirata di
Napoleone dalla Russia, quando tutte le monarchie europee si furono coalizzate
per annientarlo, Gabriele abbandonò gli studi per arruolarsi nelle file
francesi. Gli parve che l’Imperatore costituisse il baluardo della civiltà
latina contro la barbarie slavo-germanica. Aggregò con sé anche il figlio del
suo manente, Carlo Burlando, un robusto diciottenne che si era pienamente
identificato in quell’ardimentoso patrizio.
A Torino, sede del Comando Territoriale, rivide il conte de Fornari, amico di
famiglia da cui fu ricevuto con benevolenza.
– Vi aspettavo! – esclamò l’anziano generale, stringendogli la mano con vigore.
– Avrei dovuto arruolarmi l’estate scorsa, eccellenza, e seguire l’Imperatore
nella campagna di Russia.
– Siete ancora in tempo a offrire la vostra sciabola. E questa volta si deciderà
il destino dell’Europa!
Per la sua estrazione sociale, Gabriele fu assegnato alla Compagnia della
Guardia d’Onore a cavallo del principe Camillo Borghese, cognato di Napoleone e
Governatore dei Dipartimenti d’Oltre Alpe. Ma la vita di corte a Palazzo
Chiablese, al servizio di un nobile interessato soltanto ai propri abiti pomposi
non lo allettava. Né i trasferimenti alla palazzina di caccia di Stupinigi, dove
la principessa Paolina preferiva soddisfare i suoi capricci mondani, lo
coinvolgevano molto.
In febbraio, promosso sottotenente e ansioso di combattere, chiese e ottenne
l’assegnazione al 14° reggimento ussari, l’ultima unità di cavalleria leggera
creata da Napoleone. Fino a maggio furono mesi di esercitazioni continue e di
trepide attese. Nel frattempo entrò in familiarità col suo vicecomandante di
compagnia, il tenente Alexandre Richart. Uscivano insieme a passeggiare sotto i
portici di via Po e si fermavano spesso nei caffè più eleganti della città.
– Vi sentite Italiani o Francesi voi Savoiardi? – lo stuzzicava ogni tanto
Gabriele.
– Siamo sempre stati fedeli ai nostri duchi di Savoia, poi diventati re di
Sardegna, ma tu sai che da noi si parla francese, mentre qui a Torino si parla
italiano…
Alexandre dimostrava molta considerazione per quel ragazzo più giovane di sette
anni. Una sera furono invitati a cena dal comandante della loro compagnia, il
capitano Claretti di Gàssino. Giocarono a carte. Alexandre perse una somma
equivalente a due paghe mensili. Gabriele intervenne generosamente a sostenerlo.
Pochi giorni dopo, il tenente gli restituì la somma.
– Non mi occorrono adesso…
– Ho approfittato di te… mi sono lasciato trasportare dal gioco… un tempo non
l’avrei fatto.
Un nodo amaro chiuse la gola di Gabriele, avvertiva tutta la propria impotenza
davanti all’amico che, come vela priva di sartiame, fluttuava in balìa dei
marosi.
Il 25 maggio, partirono anche il 3° e il 4° squadrone per raggiungere a Dresda
l’altra metà del reggimento installata già da un mese nella città sassone. Lo
squadrone di Gabriele, il 3°, agli ordini del tenente colonnello Weigel, fu
dislocato nel quieto villaggio di Annaberg.
All’inizio di giugno, le nazioni belligeranti firmarono un armistizio a
Pleiswitz sotto gli auspici del ministro Metternich. La guerra sembrò
allontanarsi. L’alta borghesia e la nobiltà germanica si emulavano
nell’accogliere gli ufficiali napoleonici. Gabriele fu ospitato dai Griesbach,
una ricca famiglia dedita al commercio di cereali. La primogenita Gretel, una
diciottenne formosa, dal viso florido e invitante, lo fece ardere di desiderio
fin dal primo incontro. Con le poche parole di tedesco che conosceva, mescolate
al francese, Gabriele le manifestò subito i suoi sentimenti. La sera di S. Anna,
dopo aver danzato fino alle prime luci dell’alba sull’aia di casa Griesbach, si
rifugiò nel fienile con la bella teutonica. Quando Gretel si allungò sulla
paglia mostrando il suo seno niveo, dove ricadeva una massa lucente di capelli
dorati, lui si sentì percorrere da un brivido che gli attanagliò le viscere. I
baci che prodigò su quel corpo soffice di bimbo diventarono ossessivi.
– Sono tua, Gabriele! – gemette lei.
Gli abiti di Gretel caddero al suolo come corolla di margherita sotto la sferza
della tramontana. Quando fu nuda, Gabriele, ansimante davanti a tale bellezza,
si coricò su di lei e la possedette con il furore di chi anela all’oblio della
carne. La malìa di quella giovane donna si insinuò con prepotenza nella pelle
dell’Italiano. Non ci fu sera in cui egli non subì la lusinga della soave fata
nordica che lo tuffava in un mare voluttuoso e nel contempo lo privava della
volontà. Presto l’ussaro cominciò a tormentarsi e a chiedersi se fosse giusto
amare la figlia di un popolo virtualmente ostile. Quanti crucci l’assalirono in
quelle notti in terra straniera! La sua presenza laggiù che significato aveva?
Non era più saggio mutare la tregua in una pace permanente e abbracciarsi fra
soldati nemici? Ma lui si sentiva soltanto un piccolo ingranaggio di tutto il
meccanismo azionato dalla volontà di un uomo, a cui il Fato concedeva ancora un
po’ di corsa.
Il giorno dell’Assunzione, la lotta riprese. Il 14° reggimento Ussari, tallonato
da ingenti forze austriache, riparò in Dresda e ricostituì la 10a divisione di
cavalleria, comandata dal generale Pajol. Il 26 agosto, nell’albore antelucano,
il colonnello Garavaque, attraverso la Pirnaische Thor, trascinò audacemente il
reggimento contro le agguerrite linee russe del generale Miloradovic. Pajol fu
costretto a soccorrere gli ussari con i 1500 cavalieri degli altri due
reggimenti, il 2° Cacciatori Italiani e il 7° Lanceri Polacchi. Due ore più
tardi, soltanto l’intervento di Napoleone alla testa di quattro Corpi di
fanteria, permise di riconquistare le posizioni perdute. Gabriele ricevette il
battesimo del fuoco da una feroce unità cosacca. La Fortuna lo protesse: un
colpo di sciabola frontale lo disarcionò, lacerandogli appena il dolman, ma
riuscì a rimontare in sella e a spronare i suoi uomini contro quel nemico dalle
rutilanti casacche.
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