|
Zona Gialla
Le prospettive dei forum sociali italiani
Alcuni estratti dalle interviste di
Checchino Antonini a Casarini, Lucchesi, Bernocchi
dall'intervista a Casarini:
Antonini: Casarini, partiamo da quello che avete chiamato "laboratorio Carlini", ossia da
quell'esperienza particolare che si sviluppò nei giorni del Genoa Social Forum. C'è
chi vi ha definito come la "sintesi dell'antagonismo" accettabile, in simbiosi
consapevole con il centrosinistra e con le ricadute amministrative locali".
Casarini: Non so se questa è la definizione giusta di quel tipo di esperienza perché, come
tutte le esperienze di laboratorio - noi non abbiamo definito né centro né organismo
ma abbiamo definito laboratorio quell'esperienza di aggregazione politica e sociale sulla pratica
e sugli obiettivi che si è determinata al Carlini - è un'esperienza in divenire,
è un esperimento continuo, è una cosa per definizione che non è esatta, che
non ha i contorni esatti. Certamente dentro alla volontà della costituzione temporanea di
questo spazio, di questo luogo di sperimentazione politica che è stato il Carlini, c'era un
grande catalizzatore, per restare nei termini del laboratorio, che era questo asse del conflitto nel
consenso. È un catalizzatore che noi abbiamo imparato a conoscere all'interno dell'esperienza
zapatista, è quel meccanismo per cui l'essere antagonista o produrre elementi di conflitto
non deve mai dividersi dalla necessità di parlare con tanti altri, dalla necessità di
farsi comprendere, di farsi appoggiare, anche da chi non pratica quel tipo di conflitto. Il
laboratorio Carlini aveva due grandi elementi. Primo, produrre realmente all'interno della dimensione
di Genova, elementi di conflitto vero, produrre azioni politico-sociali in quelle giornate che non
fossero solo virtuali o di testimonianza. Dall'altro lato aveva la necessità di legare a questo
tipo di percorso - al percorso della materialità e della necessità del conflitto e delle
azioni anche di disobbedienza concrete - la necessità di comunicare, di farsi comprendere, di
lanciare dei messaggi codificabili anche da chi non pratica questo tipo di percorso, da chi non
condivide al limite la radicalità che naturalmente si esprime attraverso la condivisione o la
pratica della disobbedienza concreta. E questo mi sembra il tratto distintivo. Con questo tipo di
catalizzatore si sono aggregate migliaia di persone che naturalmente provengono da esperienze diverse
tra loro, anche individuali, e che si sono sperimentate quei giorni. Questa, direi, è la
sintesi della dimensione del Carlini che sapeva benissimo di non poter battere in termini militari
chi aveva di fronte, che non poteva battere in termini di potenza di fuoco, tra virgolette, coloro che
gestivano il controllo sociale in quei giorni a Genova. Ma sapeva benissimo che poteva batterli
all'interno di questo binomio: conflitto e consenso. Ed è su questo che ha cercato di
posizionarsi.
dall'intervista a Lucchesi:
Antonini: Secondo te, "nonviolenza" significa necessariamente rispetto della legalità?
Lucchesi: "Nonviolenza" significa tentativo - portato anche all'estremo - di far capire le proprie
ragioni. Quindi il problema della legalità è, da questo punto di vista, estremamente
discutibile. Cioè: la nonviolenza ha come proprio principio basilare il tentativo di far
comprendere le proprie ragioni e di comunicarle al numero maggiore di persone. Per far questo, a volte
è necessario violare la legalità, che non significa naturalmente usare atteggiamenti
violenti né nei confronti delle cose né delle persone. Quando si parla di violare la
legalità si parla di violazione di norme, non di violenza strutturale. La violazione della
legalità non è una cosa di per sé negativa, purché riesca a comunicare
quello che si vuole comunicare, purtroppo l'esperienza ci dimostra che le cose sono estremamente
difficili da realizzare, perché una cosa è violare una norma semplicemente per rendere
evidente il fatto che la stessa norma è ingiusta, altra cosa è rischiare di degenerare
nella violenza fisica strutturale, che poi rende impossibile che passi il proprio messaggio e,
addirittura, lo travisa. In termini "genovesi", la violazione della zona rossa del G8 non
è un atto che può essere catalogato come violento di per sé, poteva essere la
violazione di una norma assolutamente ingiusta, il problema è che in quella situazione, di fatto,
si è poi tradotto in episodi di violenza che non hanno per niente aiutato la comunicazione del
messaggio che noi volevamo trasmettere. Qui il confine è estremamente difficile da valutare
nelle situazioni concrete, torno a ripetere però che la violazione delle norme può anche
essere legittima purché riesca a trasmettere un messaggio che, la trasformerebbe in
qualcos'altro.
dall'intevista
a Bernocchi:
Antonini: Dopo Genova - si è scritto e detto - nulla sarà come prima. Rincorrere i vertici
sarà forse impossibile. C'è da fare il passaggio dalla "resistenza" al
progetto e tutte le campagne su cui stanno lavorando i gruppi di lavoro. Bernocchi, da dove si
comincia?
Bernocchi: La premessa è capire quali sono le svolte profonde che hanno fatto esplodere l'evento
internazionale e poi nello specifico a livello nazionale. Ora, è sempre difficile individuare
le molle che fanno esplodere l'evento perché si ha a che fare con una serie di concause
intrecciate che, solo a posteriori, riesci a valutare. Non so se si può vedere questo movimento
a partire dalla rivolta zapatista, però è certo che il movimento appare in tutta la sua
evidenza a Seattle dove emergono cose che, naturalmente, c'erano già prima. Poi continua la sua
esperienza contestando vertici mondiali in varie date; si comincia a organizzare e a delineare ancora
meglio a Porto Alegre (2001) e poi dà vita alla manifestazione di Genova che, sì, è
il momento più alto dal punto di vista organizzativo e qualitativo. Io individuerei almeno tre
concause, che sono intrecciate, che spiegano e giustificano in qualche misura questa guerra, che abbiamo
chiamato una guerra sociale, economica e militare. Innanzitutto, ciò non avrebbe avuto senso nel
periodo dell'equilibrio bipolare, in cui il mondo era apparentemente diviso tra socialismo reale e
capitalismo a dominanza statunitense; nel momento in cui crolla quell'equilibrio il capitalismo promette
di estendere ricchezza e benessere a tutto il mondo. In realtà succede esattamente il contrario.
Non solo non si estende la ricchezza, ma, anzi, si polarizza ancora di più, e addirittura anche
nei paesi ricchi i diritti dei lavoratori dipendenti, dei senza proprietà e dei senza potere,
vengono drasticamente ridimensionati. Quello che succede, in realtà, è che il capitalismo
dimostra di non potere estendere la propria forza, che ha nelle roccaforti in tutto il mondo, e non
riesce a portare la ricchezza dappertutto, ma anzi si impelaga in situazioni in cui i mercati che
dovrebbero allargarsi e normalizzarsi rimangono invece ristretti a un quarto del mondo, o poco più,
mentre gli altri tre quarti non comprano né vendono alcunché.
Torna alla pagina dei libri
Torna alla pagina principale
|
|