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LA VITA

 

P r e l u d i o

di Grazia Deledda

 

Circondato da boscaglie di querce, liete di fonti e ruscelli e di chiassose famiglie di ghiandaie dalle ali spruzzate di azzurro, vigilato dal castello dei nobili Mar­chesi padroni del bel feudo, era, ed è ancora in parte, il paese di Laconi, nel Sarcidano di Sardegna. In una povera casupola di agricoltori, nacque a Laconi, il 18 dicembre 1701, Francesco Ignazio Vincenzo Peis, che fu poi il miracoloso Fra Ignazio cappuccino venerato anco­ra adesso, e sempre più, in tutta l’Isola, che conserva inattaccabile, nel cuore delle sue donne forti, ed anche degli uomini semplici e retti, il profondo culto degli insegna­menti di Cristo.

E non solo uomini dallo spirito semplice, ma gio­vani e colti, studiosi e geniali pensano oggi a Fra Ignazio, e ne seguono orma per orma ii corso della lunga vita; e non per passione di critica, di ricerche e ricostruzioni storiche, ma per amore al fatto in se stesso, alla figura straordinaria, all’esempio luminoso del fraticello beato.

Uno di questi è Remo Branca, sardo la cui cultura é grande come la sua modestia, e l’arte pan alla sua fede.

Egli ha pubblicato in questi giorni (questo scritto apparve nella terza pagina del  Corriere della Sera del 10 giugno 1933 per un libretto che preconizzò questo volume) un suo esile libro che è lieve e grazioso come un volumetto di versi, e racchiude, invero, tutta La poesia di un’epoca, ed è semplicemente La storia diremo cosi ro­manzata, di Fra Ignazio da Laconi. Libro raro che ci ha sollevato sinceramente il cuore, rinnovandolo nelle sue più segrete radici, come una pianta ristorata da un’ac­qua benefica, l’antica fede tramandataci dai nostri avi di Sardegna.

Ecco uno scorcio del quadro che Remo Branca fa della Sardegna di Fra Ignazio: ~ La mancanza di co­municazioni con quel che segue, l’avversione al cormmercio ed al mare, carestie,pestilenze e malaria, completavano il triste quadro sociale della slegata vita sarda agli inizi del Settecento. Però in mezzo a tanta mi­seria morale, non mancava il conforto delle dottrine cristiane e l’esempio della pratica cattolica: fin dal secolo XIII l’Isola contava tre Arcivescovi e quindici Vescovi; e pur riconoscendo come il clero divenne più tardi opu­lento e non sempre conscio dei suoi doveri, dobbiamo ri­conoscere numerosissimi esempi di sacerdoti e di laici morti in odore di santità, lasciando larga e benefica, ere­dità di fede. Ancor oggi, in piena rinascita spirituale cri­stiana, si vedono sopravvivere tracce di antiche e super­stiziose tradizioni, e di volgari pregiudizi che offendono La bellezza cristiana; ma si tratta di una mentalità che, creatasi per l’ignoranza e l’ isolamento, ormai va definitivamente scomparendo. Mai però l’Isola conobbe eresie. Nel generale dissesto economico e sociale, alla stessa ma­niera, non tutto era disastro e miseria: dimenticate in mezzo ai boschi non era difficile trovare isolette di pace e di benessere materiale: la dove la terra era più generosa e le sorgenti ricche di polle estive. Tale è ancor oggi il Sarcidano, territorio di colli digradanti, in cui, sotto la sommità occidentale, chiamata Marabentu, Si adagia il paese di Laconi, patria benedetta del venerabile Fra Ignazio.  

Rievocata e resa ancor viva e palpitante dall’arte e dalla convinzione del Branca, seguiamo anche noi la figura di Vincenzo Peis, dapprima bambino nell’umile casa dei suoi genitori che un p0’ di sangue di santità ce l’ave­vano pur loro, li buon Mattia agricoltore e la Madre Anna Maria Sanna, che era davvero, senza iperboli, l’an­gelo del foco1are, che faceva il pane in casa, tesseva i vestiti per la sua famiglia, allevava i figli nell’amor di Dio.

    Un altro di questi figli, Maria Giuseppa Agnese, fu anch’essa suora nell’Ordine di Santa Chiara, e mon in odore di santità. A qualcuno di questi figli fu certamen­te data una istruzione poiché Giacinto Peis pare eserci­tasse l’arte del flebotomo nel paese di Samugheo: chi non frequento scuole fu Vincenzo poiché egli non sapeva scri­vere, e non conosceva altro che il dialetto sardo. Fra Ignazio, afferma il suo biografo, non ha scritto un rigo, perché era analfabeta, non ha lasciato una dottrina per­ché non era un filosofo, non ha fondato nessun ordine perché non era un uomo di geniali e coraggiose inizia­tive. Un povero frate questuante era Fra Ignazio, il ser­vo di tutti, l’ultimo degli uomini: eppure egli fu l’uomo più ricordato e venerato del Settecento sardo. Gia da bambino nella sua dolce Laconi, i compagni gli si strin­gevano attorno per imparare da lui l’Avemaria, lo se­guivano in chiesa, erano per suo esempio e suggestione, buoni e obbedienti in casa. Ma erano pur bambini, e ama­vano i giuochi della strada e le scorribande negli orti intorno al paesetto; Vincenzo no, Vincenzo non perde tempo per salvare la sua anima e segue la sua strada che é quella della chiesa di Laconi. E' qui, per la gioia del lettori, è bene riprodurre la chiara e poetica prosa del biografo.  "Fuori c’era la luna, e appena allora suonava nel gran silenzio la Messa dell’alba. I camini fumavano, e dalle porte socchiuse pioveva sull’acciottolato ma stri­scia di chiarore; e veniva fuori l’odore di pane fresco e caldo. Cominciava appena la mattiniera faccenda del villaggio, che già il piccolo Vincenzo con l’anima quieta e tutta aperta, saliva alla parrocchia. Qualche passo chio­dato o qualche scivolar di cavallo sul ciottoli risonava in quel labirinto, imbiancato qua e la dalla luna. La chie­sa era ancora chiusa; il sagrestano incontrava il ragazzo inginocchiato sui gradini, mentre in faccia al portone, a l’orizzonte, un barlume rosa profilava i monti".

    Non meno pittoresche ed evidenti, via via per il delizioso volumetto, sono le molte pagine col quadro del paesaggi, degli interni del convento dove Fra Ignazio passò il noviziato; e gli scorci di Cagliari, la cittâ riful­gente, per il fraticello, come un paradiso terrestre, o me­glio come una nuova Gerusalemme, e che per molti e molti anni ricambiô con passione l’amore infinito che egli portava a uomini e cose della cui caritá e bellezza si nu­triva. I suoi miracoli cominciarono presto.

Ecco che Mattia, il padre lavoratore, che insegna a Vincenzo, prima di ogni altra scienza, a lavorare La ter­ra, deve andare con altri suoi aiutanti, per La semina del fagiuoli. Anna Maria Sanna è però preoccupata: La provvista del pane sta per finire; e quello che avanza non basterà per tante buone bocche affamate dal lavoro. " Non importa, — dice il piccolo Vincenzo —; vedrete che basterà" : e riempie La bisaccia del pane e del for­maggio che può trovare in casa. E all’ora del pasto il pane non finisce mai di uscire dalla bisaccia, tanto che gli uomini, lieti dell’appetito e dell’aria primaverile dei freschi poggi di Laconi, non solo se ne saziano, ma non riescono a mangiarlo tutto.

    Eppure, non ostante la fama che già lo precedeva, pallido e scarno Vincenzo, ridotto così dalle sue privazioni  corporali, si presenta, nel convento Magggiore di Sa­nt’Antonio a Cagliari al severo padre Francesco Maria ­provinciale dei frati cappuccini, e domanda di essere accolto fra i novizi, come aspirante a frate laico, si  vede respinto inesorabilmente. Ma una raccomandazione ­del Marchese di Laconi, che passava una buona parte dell'anno nell'elegante città  e qualche mese estivo nella frescura del suo feudo, amico del cappuccini di Cagliari cambia le cose: Vincenzo é accolto e la sua  vita portentosa comincia.

    Ha passato appena venti anni e vive con la stessa purità di cuore della fanciullezza. Non è un santo é un povero frate laico; fa il dispensiere, il cuciniere, il tessitore; è sopra tutto mandato alla  "cerca". Fu anche mortificato e maltrattato, da chi ancora non lo conosceva, ed egli se ne rallegrava: e ancora nei giorni della sua maggior gloria, quando anche le grandi dame e i potenti signori chiedevano il suo aiuto, un giorno, nella fastosa e spagnolesca Cagliari, un viandante lo investì con ingiurie  e insinuazioni. Fu per Fra Ignazio un giorno di beati­tudine: poiché egli si riteneva l’ultimo degli uomini e non capiva la potenza sovrumana che lo sping­eva al bene, che nelle ore di preghiera, lo sollevava ma­cia terra, che gli faceva operare miracoli. Ciechi, infermimi infelici, si sollevavano e rivedevano, al suo passaggio la luce del cielo: i sassi si mutavano in pane, ardevano lampade senza olio, i superbi ritrovavano la gioia dell’umiltà:  tutta forza della sua volontà di beneficare il  prossimo

     Eppure non fu santificato: anzi la sua semplice bea­tificazione fu contrastata; e pare che i dacumenti com­provanti i suoi miracoli venissero distrutti, per gelosia, da un Superiore dei Cappuccini, di quel tempo, il quale ambiva la gloria di ordire egli il processo per la santifi­cazione del Frate Ignazio, mentre di questo processo erano stati incaricati dal Vicario generale del Capitolo di Cagliari, don Pietro Sisterne de Oblites, due religiosi Car­melitani.

La venerazione e il culto per il nostro fraticello non sono per questo meno profondi e duraturi, nelle popo­lazioni di Sardegna. Vecchi patriarchi, donne il cui spi­rito di sacrificio è una vera passione, signori e, come si vede da queste righe, studiosi e artisti lo eleggono per "loro" santo poiché si sentono vicini a lui, suoi discen­denti e discepoli. Una caratteristica effige di Fra Ignazio ce lo presenta già vecchio, già forse cieco; col Rosario, il bastone, la barba ispida, il viso bruno camuso: non ha nulla del serafico: è perô l’antico pastore sardo, nella cui bisaccia si nasconde un tesoro di sapienza e di bontà.

Sul colle della Vergine di Bonaria, ad oriente di Cagliari, dice il biografo, molte tombe illustri sono di­menticate, e davanti alla lapide di Domenico Alberto Azu­ni non c’è un fiore. Sulla modestissima tomba di Fra Ignazio da Laconi, nella chiesetta cappuccina, si stende un tappeto di fiori, che la fede del popolo rinnova ogni giorno. Bello, fra tutti, è il fiore di questo libretto La cui lettura ci ricorda il viaggio di Fra Ignazio al suo pae­sello per il fidanzamento di una sua sorellina: lungo era il viaggio, fra dolci colline, ma anche Ira interminabili sentieri; e pure fra Luigi, dato per compagno a Fra Ignazio, non si accorse del tragitto; poiché immerso in un sogno che gli permetteva, non di camminare fra i sassi ma di volare.

 

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Brevi note biografiche

 

 

Il    Santerello

 

S. Ignazio nacque in Làconi dai coniugi Mattia Peis Cadello e Anna Maria Sanna Casu il 7 dicembre 1701, e fu battezzato il 18 coi nomi di Francesco, Ignazio, Vincenzo. Era il secondo di 9 figli.

I genitori cercarono di educarlo nel Santo timor di Dio, e fin dalla più tenera età vi scorsero i segni di una benevolenza speciale del Signore. Il padre  non si saziava di contemplarlo, e, spesso, quando la mamma lo teneva in grembo, si poneva in piedi  avanti a lei, con le braccia conserte, quasi statico, a considerare la precoce bontà del suo figliuolo.

Crebbe fin dalla più tenera età così dedito al bene e alla virtù che lo chiamavano il Santarello. Le mamme lo additavano ai loro figliuoli come esempio da imitare per la sua compostezza, obbedienza e devozione; e Dio fin dalla più tenera età l’adornò col dono dei miracoli e delle profezie, moltiplicando più d’una volta il pane e predicendo ai suoi coetanei, chi di loro sarebbe andato prima in paradiso. Stette nella casa paterna, fra il lavoro dei campi e la pratica della mortificazione e delle altre cristiane virtù, fino all’età di 20 anni; età in cui si decise di abbracciare la vita religiosa nell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, a cui Dio da vario tempo lo chiamava.  

Le grandi decisioni incontrarono sempre difficoltà. Vincenzo (così si chiamava al secolo fra Ignazio) nella sua famiglia è felice. E povero, ma di una povertà cui nulla manca: ha una casetta e un campicello e il necessario alla vita, ma più di tutti ha la pace della sua coscienza e l’amore dei suoi can che lo ritengono un angelo del cielo in mezzo a loro.

Tuttavia questo fiore cosI vago ed olezzante di virtù non è sbocciato per stare in mezzo al mondo: Dio lo vuole per sé nel giardino ubertoso della religione: e dà a! pio giovanetto il gran dono della vocazione religiosa. Una santa ispirazione agita continuamente il suo cuore: rendersi Frate Cappuccino. Palesa ai suoi cari questa divina chiamata, ed essi, mentre non lo contraddicono, cercano di trattenerlo con mule pretesti. Dio perô vuol riportare vittoria, ed una infermità riduce in fin di vita il po­vero Vincenzo. In questo stato promette a Dio che, se gli ridarà Ia salute, si farà religioso; e il giovane guarisce, ma non riesce a decidersi, a dare uno strappo al mondo e nascondersi in un chiostro; e ripiglia le sue ordinarie occupazioni. Va in campagna e si dedica alla coltivazione del campo. Un giorno perô, mentre torna da campagna sopra un cavallo, la bestia, che per lo innanzi era Stata Sempre docile e mansueta, in un istante imbizzarrisce e si dà a precipitosa fuga. Ogni sforzo è inutile per frenarlo e la via è scoscesa e il luogo pericoloso. Nel pericolo Vincenzo si rammenta della sua vocazione e promette a Dio che, se lo libera, immancabilmente si farà religioso. Fatta la promessa, come per incanto, il cavallo si ferma, e Vincenzo giunge sano e salvo a casa sua.

Dopo questo nuovo prodigio rompe ogni indugio e Vincenzo si decide ad entrare in religione, ad assecondare la chiamata di Dio. Anche i parenti non lo trattengono più: ormai anch’essi sono persuasi che Dio lo vuole e il 3 novembre del 1721, fra gli amplessi dei suoi e le lacrime della mamma, Vincenzo, assieme at babbo, intraprende il lungo cammino per Cagliari, la quale dista da Làconi circa 68 chilometri.

Giunti a Cagliari, si presentano al convento di Buoncammino, ma non tutto andò a seconda: il Provinciale, Padre Francesco Maria da Cagliari, vedendolo piuttosto debole, rifiutô di riceverlo.   Grande fu il dolore di Vincenzo, ma anche questa difficoltà, con la preghiera e l’aiuto del Marchese di Làconi, fu superata.

Ottenuta l’obbedienza, si portô difilato in S. Benedetto, convento del noviziato, e licenziatosi dal padre, il giorno 10 novembre del 1721 vestì le sacre lane col nome di Fra Ignazio. Il suo noviziato non fu privo di contrasti; il de demonio fece gli ultimi sforzi per allontanare quest’anima prediletta dalla santa vocazione. I mi sei mesi passarono bene, e la sua anima godeva una calma e una pace paradisiaca. Il P. Luigi da Nureci, maestro dei novizi, religioso Santo ed illuminato nelle vie di Dio, l’aveva pienamente compreso; ma non fu cosI del P. Giuseppe da Iglesias, eletto maestro nel capitolo del 15 maggio 1722.

Le prove furono cosi aspre e rigorose, che un giorno, pieno d’ambascia, non riuscendo, per debolezza, a salire le scale con una pesante brocca d’acqua, si rivolse, per aiuto, alla Madonna, la quale misteriosamente parlandogli da una statuetta posta in una nicchia in cima alle scale, benigna mente lo conforto.

Finito il santo noviziato, il 10 novembre del 1722 fu ammesso alla solenne professione religiosa. Fra Ignazio è provetto nelle virtù, ma ancora non è compreso: ben altre prove ci vogliono per persuadere i religiosi che egli è un’anima tutta di Dio. Incomincia l’aspro cammino. Da S. Benedetto fu destinato di famiglia nel convento di Iglesias con l’ufficio di dispensiere e di cercatore della campagna La sua virtù cominciô ad irradiare con pro prodigi. Una sera ripescO miracolosamente le chiavi delta dispensa, cadutegli nel pozzo.

Dopo qualche anno da Iglesias fu trasferito a Cagliari con l’ufficio di lanino. In questo ufficio fu una vera fiaccola sotto il tavolo. Sempre da un canto, umile, silenzioso, tutto dedito al lavoro. In questo tempo la sua perfezione interiore fu prodigiosa: egli pose i fondamenti della vera virtù. Mentre progrediva nella virtù, nessun progresso faceva nel mestiere, quindi, dopo alcuni anni, fu tolto, come non atto a quell’ufficio.

  I superiori apprezzavano grandemente la virtù di S. Ignazio, e toltolo dal lanificio, lo posero a capo dei cercatori per la questua in città. il che av venne nell’anno 1741. Delicatissimo e di grande importanza era questo ufficio, e per il Santo cominciô una vita di apostoto. Egli non faceva solenni discorsi, ma insegnava a grandi e piccoli, a dotti ed ignoranti, con sem- plicità di parola, le vie del Signore, ma la sua po­tentissima predica era quella del buon esempio.

Bastava guardarlo quel fraticello, mingherlino, alquanto curvo, con la barbetta rada e il viso palli do, vestito ruvidamente e coi piedi scalzi: bastava guardarlo con l’andatura modesta, gli occhi bassi e ha corona del rosario sempre in mano, per sentirsi compreso di venerazione e di amore. Era un Angelo che passava per consolare e confortare tutti: e tutti correvano a lui per chiedere consiglio ed aiuto. Questo apostolato non venne mai meno e, per 40 anni, su e giù per le erte vie della città e per le  ripide scale dei palazzi e delle case di Cagliari, non fece altro che edificare tutti, confortare tutti e tutti ricondurre sulla via del bene.

Dio faceva trionfare la sua virtù per mezzo di strepitosi miracoli. Prima quello di Suor M. Grazia Corte, monaca Cappuccina. Nell’anno 1760 a 20 anni di età Maria Grazia entrô in Monastero, ma la prima notte che s’alzò per andare al mattutino, rimase completamente cieca. Il male si mostrô ribelle ad ogni rimedio, e da tre mesi non ci vedeva più. La madre della poverina si rivolse alle preghiere del Santo e l’intercessione fu così efficace che all’istante guari.

Né meno strepitoso fu quello dell’olio nella bisaccia. Era giunta da Bosa una nave carica di olio. Fra Ignazio vi andò a chiedere l’elemosina, ma non aveva la fiasca; e quando il padrone chiese il recipiente, Fra Ignazio presentò la bisaccia aprendone la bocca. Il padrone fra l’ironico e lo stizzito, vi gettò l’olio, sicuro che sarebbe andato tutto perduto; invece, con sua sorpresa, neppure una goccia ne trapelava, e il Santo tra l’ammirazione del popolo allegramente lo portò tutto in convento.

Una donna s’era data alla vita di peccato, e per la sua cattiva condotta, non erano pochi coloro che abbandonavano la via della virtù. Il Santo la esortava a lasciare il peccato, ma essa faceva la sorda. Un giorno gli disse che si era data a! vizio, perché non aveva da mangiare. Ebbene, soggiunse, tutto pieno di zelo il Santo, lasciate il peccato, ed io penserò, con l’aiuto di Dio, al vostro necessario. Gli empi net vederlo entrare in quella casa, ne mormoravano, ma Dio giustificô l’innocenza di lui, dando prodigiosamente ha loquela ad un neonato che dal ha chiesa di S. Anna si riconduceva a casa, dopo il Battesimo.  

Sant’Ignazio possedeva in grado eroico tutte le virtù. La sua fede era incrollabile. Sarebbe stato pronto a qualunque martirio, a spargere fino all’ultima goccia tutto il suo sangue per confessare ha fede di Cristo.

Come ha fede, era salda la speranza. Tutto egli aspettava da Dio, né mai esitô di fronte alle prove più dure della vita. Tipico il fatto che, in un anno di carestia, in un giorno che mancava il pane necessario alla famiglia religiosa, egli, piuttosto che disperare, ebbe tanta fiducia in Dio, da ottenere di convertire le pietre in pane. E la speranza non fallì: le pietre messe nella bisaccia si convertirono in pane caldo e fumante, e la comunità religiosa, per quel giorno, ebbe il necessario sostentamento.

Ma ha virtù regina, quella che animava tutto ii suo essere, tutta la sua vita, era la carità. L’amore verso Dio e a tutto ciò che si riferiva a Dio: ecco il sospiro ardente del suo cuore, la molla possente, la leva che lo innalzava e sosteneva in tutte le sue virtuose operazioni.

Dio era sempre nel suo pensiero, sempre nel suo cuore, sempre nelle sue parole, sempre in tutto il suo operare. Quando si svegliava il suo primo so-spiro era Dio, a Dio pensava quando camminava, a Dio quando operava, a Dio quando mangiava: egli era sempre con Dio, a lui dedicava tutte le sue operazioni, per lui operava e per lui solo; e quando la notte, stanco e sfinito, si gettava a terra o sopra una tavola per prendere un po’ di riposo, il suo ultimo sospiro era rivolto a Dio.

Ma Gesù, il Dio fatto uomo per noi, era oggetto speciale del suo amore e della sua imitazione. Patire per Gesù: ecco il suo programma; amare Gesù: ecco Ia sua vita. Quante lacrime ha versato sopra la dura passione di Gesù! Quante volte, yinto dal fervore, ha straziato il suo corpo con duri flagelli, squarciando le carni e imbrattando i flagelli e le pareti di sangue!

Ma Gesù non é lontano da noi: egli per noi si è nascosto sotto le specie sacramentali. E Fra Ignazio sentiva questa reale presenza di Gesù. Ed eccolo il avanti a! sacro altare a sospirane, a trovare le sue delizie e il suo paradiso, a subirne le dolci estasi d’amore, a pregare per tutti, ma specialmente per le anime purganti e per La conversione dei peccatori. 

Delizia inenarrabile del suo cuore era assistere a! santo sacrificio della Messa, e gioia suprema era ricevere Gesü. Quanti sospiri, quanti aneliti, quante lacrime!... Non era più di questo mondo, l’ani ma era rapita come in una dolce estasi di paradiso. Cercava di comunicarsi ogni giorno ed era tutto in tento a conservare col suo diletto la più santa unione.  

Dopo Gesù, il suo tenero affetto era rivolto a Maria. Quanto amore per la gran Madre di Dio!  

Egli se l’era eletta per madre, ed a !ei ricorreva con fiducia e confidenza filiale. Avanti at suo altare pregava ogni giorno. Prima di uscire di casa e quando rientrava le domandava, in ginocchio, la santa Benedizione, recitava continuamente il santo Rosanio e altre devote preghiere; si preparava con straordinarie mortificazioni alle sue solennità; in tutti inculcava la devozione alla Madre Celeste, e a quanti ricorrevano a lui per aiuto, li esortava a rivolgersi a Maria.  

Con Dio, amava tutti i Santi, ma in modo particolare il P. S. Francesco, fondatone dell’Ordine e S.  Felice, primo santo della Riforma Cappuccina. L’amore di Dio gli ispirava un grande orrore al peccato, capitale nemico di Dio. Mai Si legge che commettesse volontariamente alcuna colpa, ben ché leggera. Del peccato, in sé e negli altri ne aveva un vero spavento, e sarebbe stato pronto a soffrire qualunque pena, a morire, a mille volte morire, piuttosto di offendere volontariamente Dio.

L’amore verso Dio era net suo cuore una fiaccola ardente che bruciava, consumava, distruggeva tutto ciò che non era di Dio; e tutte le creature, piuttosto che formare inciampo, gli erano scala per sollevarsi al creatore.

 

 

Fiamma benefica

 

Quella stessa carità che lo faceva ardere d’amo re verso Dio, lo consumava di amore verso il prossimo. Tutti gli uomini riguardava come fratelli, e per tutti in mule modi si prodigava per aiutarli in tutti i loro bisogni spirituali e corporali. Innumere- voli sono le anime confortate, i peccatori convertiti, gli afflitti sollevati.

Da vicino e da lontano, tutti correvano a lui: il convento era mèta di pellegrinaggi ed egli, non solo con mezzi naturali, ma spesso con prodigi e mira coli, tutti confortava. Il suo amore era cosI ardente e disinteressato che, qualche volta, prendeva sopra di sé i dolori altrui.

Tutte le sventure trovavano compassionevole eco net cuore del Santo, ed egli, per tutti si commuoveva a pietà, ma il dolore che più scuoteva il   suo cuore era quello della madre, e di fronte alla maternità afflitta era cosi misericordioso che era pronto a tutti i sacrifici, anche a soffrire per solle varla.  

Il 4 giugno del 1775, la Marchesa Donna Francesca Zapata sperimentò questa eroica carità del Santo. Il Marchese, spaventato della difficoltà del parto, ho mandô a chiamane verso le ore 3 del mattino. Giunto in casa ii Santo pregò di far celebrare la Messa nel!a Cappella di famiglia. Finita ha quale, la Marchesa dava felicemente alta luce il suo figliuolo Raffaele. Dopo di ciò se ne ritornò in convento, lodando il Signore di aver confortato una povera madre.

    Uno dei suoi più can amori erano i bambini. Li accoglieva sempre con affettuosa bontà, e prodigava ad essi le piü affettuose attenzioni. Quando non aveva altro, regalava loro frutta secche e pezzetti di pane fresco che cavava dalla sua manica prodigiosa. Li istruiva nelle verità della fede e li ammoniva ad essere obbedienti e buoni. I piccini gli erano sempre intorno ed egli godeva della loro ingenua confidenza e gaia spensieratezza. 

A molti di essi ridiede la salute, alcuni risuscitò da morte. CosI fece con la piccola che abitava in via Martini. Capitò in casa quando era già morta, e accostatosi al suo lettuccio, la risuscitò.

 

Dalla breve "BIOGRAFIA di Sant'Ignazio"  del P. Giorgio da Riano - Cappuccino.