L'assedio  
(Italia 1998, 90 minuti) 
  Produzione : Fiction & Navert Film 
Rgia : Bernardo Bertolucci 
Sceneggiatura : Bernardo Bertolucci 
Fotografia : Fabio Cianchetti 
Musica : Alessio Vlad 
Montaggio : Jacopo Quadri 

Casting: 
Thandie Newton: Shanduraï 
David Thewlis: Mr Kinsky 
Claudio Santamaria: Agostino 

 

Shandurai è una giovane africana che vive a Roma studiando medicina e facendo la colf per un musicista inglese, timido e silenzioso. Le loro vite si intrecciano in un gioco di attrazioni e rifiuti,di segreti e allusioni


Film TV (09/02/99)  
Emanuela Martini 
Roma, tra rumori, suoni, colori e mercatini, come l'Africa. E l'Africa? Un mondo a parte, dove l'armonia è stata forzata in disarmonia, negli arti macilenti di bambini che si trascinano sulle stampelle o nelle carrozzelle, dalla violenza e dall'indifferenza. Ma, «Cosa sai tu dell'Africa?», come dice la protagonista nera, studentessa in medicina fuggita dal suo paese dopo l'arresto del marito, all'inglese che la ospita al primo piano del suo palazzo romano in cambio dei lavori domestici. L'Africa come un altrove che qualcuno si porta dentro, stampata nella prima, lancinante sequenza di "L'assedio", il nuovo film, bellissimo, di Bernardo Bertolucci. Un qualche altrove l'avrà anche il solitario pianista inglese, lo straniato, bravissimo David Thewlis, che compone, insegna pianoforte ma non dà concerti perché «Non sono abbastanza bravo». I due sguardi si incontrano e si confrontano in questo altrove romano (sala d'attesa? terra di nessuno? un appartamento sospeso in qualche nulla, come quello di "Ultimo tango"?), quando quello di lui comincia, appunto, un assedio, un corteggiamento estenuato ed elettrico, disseminato di piccoli doni e, via via, di una dedizione silenziosa e assoluta, autodistruttiva e, forse, distruttiva. Un "amour fou", che non può non trascinare anche l'altro nella sua follia. Ridotti i dialoghi all'osso, Bertolucci fa parlare corpi, volti, oggetti, lo scorcio di una scalinata, con connessioni di immagini che rimandano direttamente alle avanguardie (la schiuma della birra e quella del detersivo, l'inquadratura che si ribalta prima e dopo il sogno di Thandie Newton), con libere associazioni (lo sguardo di un ragazzino su un pallone, la composizione per pianoforte e aspirapolvere), con un'adesione istintiva e sensuale alla storia che sta raccontando. E ritrova una libertà compositiva, una ricchezza di "non detto" straordinarie, e la capacità di fondere una storia d'amore con una sotterranea storia di "altrove". 

Repubblica (06/02/99)  
Irene Bignardi 
A distanza di sette film e di un quarto di secolo (fa impressione dirlo di un regista che continua a sembrare giovane, ma è proprio così) Bernardo Bertolucci si lascia alle spalle i film-saga, l'esotismo, l'altrove e gli altri tempi, le produzioni miliardarie, e colpisce al cuore con un piccolo film, L'assedio, un Kammerspiel a due personaggi e poche comparse, che si svolge a Roma, oggi - anche se nel racconto di James Lasdun che lo ha ispirato, e che si può leggere nella raccolta pubblicata da Garzanti, si svolge a Londra. Un bel racconto, asciutto, austero, senza fronzoli - come sa scriverne Lasdun. E si capisce che Bertolucci sia rimasto affascinato dalle possibilità di questa storia che si svolge in sostanziale claustrofobia, un po'- fatti tutti i distinguo del tempo che passa e della assai diversa temperatura emotiva - come "Ultimo tango a Parigi", con due personaggi a confrontarsi e a sviluppare il loro rapporto in uno spazio chiuso e, in questo caso, altamente simbolico dei loro rapporti: in una stanzetta al pianterreno lei, Shandurai, la ragazza africana con un tragico passato arrivata a Roma a lavorare come cameriera e a studiare medicina, lui, Mr. Kinsky, l'inglese ricco e nevrotico, il pianista che suona solo per sé e non osa esibirsi, ai piani alti di un palazzetto cadente e bellissimo attaccato alla scalinata di Trinità dei Monti. Con un tocco di follia che è parente del "Preferirei di no" di Bartleby lo scrivano - e cioè l'attaccarsi a una frase come a una regola di vita - Mr. Kinsky, presto innamoratosi di Shandurai, quando si sente rispondere dalla ragazza che può fare solo una cosa per lei, tirare fuori suo marito dalla prigione in cui l'ha sbattuto il regime dittatoriale del suo paese, risponde coerentemente e silenziosamente alla richiesta, e comincia a spogliarsi di tutto quello che ha - paccottiglia d'epoca, opere d'arte, e alla fine, con un sacrificio autolesionista e forse liberatorio, persino il pianoforte - per ottenere questo scopo. Shandurai, che ogni giorno spolvera e pulisce la casa, registra silenziosamente la progressiva sparizione degli oggetti - ma riesce a darle un significato solo quando trova una lettera indirizzata a Kinsky dall'Africa. Silenziosamente, quando apprende che il marito è stato finalmente liberato, la sera che precede il suo arrivo, scivola nel letto di Kinsky - per amore, per gratitudine, per tener fede a una paradossale sfida. E il campanello che annuncia il tanto atteso arrivo suonerà a lungo prima di ottenere risposta. Bertolucci muove il suo duo di attori - la graziosissima, severa, nobile Thandie Newton, il nevrotico, gentile David Thewlis, molto più controllato qui, e molto più credibile, che in tutti i suoi film precedenti - sullo sfondo della vecchia casa, nei contrasti di luci e di ombre dei diversi piani, secondo una partitura fatta di molti silenzi, di molte cose non dette e di tanta musica - dai Mozart e i Grieg suonati da Kinsky (e, nella realtà, da Stefano Arnaldi) ai ritmi africani amati da Shandurai - che diventa il modo di rifiutarsi e poi di comunicare dei suoi personaggi. Il loro rapporto di poche parole e di sfide reciproche è la cosa più bella di un film pudico e intenso, che cede un po', invece, quando esce dalla casa e prende un'intonazione necessariamente più realistica - anche se continua a dimostrare che con pochi soldi e molto gusto si possono dissolvere i confini tra il cinema per la tv e il grande cinema. 

Sette (04/02/99)  
Claudio Carabba 
Il tunnel del metró ingoia e risputa passanti, come a segnare un confine pericoloso. L'altra finestra si spalanca sulla nuova città proibita, la Roma bella di Trinità dei Monti. chiusi fra queste vedute estreme, i protagonisti dell'Assedio, il racconto sentimentale di Bernardo Bertolucci, combattono le stagioni del loro amore. Lei (Thandie Newton), arrivata con un devastante dolore dall'Africa inquieta, si divide fra un lavoro da cameriera e gli studi in medicina, conservando nel cuore il suono dei tamburi lontani e il ricordo di un marito incarcerato da un regime militare. Lui (David Thewlis), il «padrone di casa», è un inglese solitario, un virtuoso del pianoforte che disdegna i concerti. A prima vista l'assediante è l'uomo e la donna l'assediata. Ma come in un «ultimo tango» il rapporto potrebbe rovesciarsi. Dopo Io ballo da sola, Bertolucci conferma di stare vivendo una sofferta fase di ripensamento. Come il suo protagonista, sembra poco interessato al mondo esteriore (e quindi approssimativo nella definizione dei personaggi di contorno e persino dei conflitti sociali) ma assai concentrato (e perciò ispirato) sui panorami interiori e sulla faticosa passione del corpo a corpo amoroso. Il prologo africano potrebbe comunque essere l'annuncio di nuovi viaggi, in altri spazi, magari in altri tempi, alla ricerca del fantasma della verità. 

L'Unità (02/03/99)  
Michele Anselmi 
È auspicabile che alla Rai qualche alto dirigente si mangi le mani per aver regalato alla concorrenza, più lungimirante e veloce nel tirare fuori i quattrini (neanche tanti rispetto agli standard televisivi), il nuovo film di Bertolucci. Forse il suo migliore tra i recenti. É un film nato per la tv che dagli originari sessanta minuti si è allargato agli ottanta odierni, ma senza stiracchiamenti, e anzi disponendosi su quella aurea misura con una grazia che rifiuta ogni estenuato estetismo. Bertolucci si conferma dunque cineasta talentoso e ispirato, nonché capace di rinnovarsi sul piano stilistico, senza timore di «citare» (Kieslowski?) all'occorrenza, ma sempre all'intento di una poetica personale che cerca la comunicazione col pubblico. Attenzione, però: «L'assedio» non è un film facile, si prende i suoi tempi e le sue libertà sulla falsariga del racconto di James Lasdun (edito da Garzanti ) che il cambio di ambientazione non tradisce minimamente. Da Londra si passa a Roma, in quel centralissimo vicolo del Bottino che quasi viene risucchiato dall'ingresso della Metropolitana: è qui che vive, murato vivo in un decadente appartamento ricevuto in eredità, tra quadri di Severini e arazzi tibetani, statuette rinascimentali e tappeti caucasici, il signor Kinsky. Pianista inglese di un certo valore, ma restio a suonare in pubblico, l'uomo ha preso a servizio l'immigrata Shandurai (sulla pagina si chiama Marietta) che vive nello scantinato e studia con profitta medicina all'università. Il titolo, metaforicamente, allude all'«assedio», gentile e discreto, che l'inglese mette in atto nei confronti della ragazza. Ma se di fronte alla prima, goffa, dichiarazione d'amore lei scappa infastidita, rivelando di essere sposata con un militante dei diritti civili imprigionato dai militari in Africa, qualcosa è destinato a cambiare nei mesi a venire allorché Kinsky comincia a spogliarsi dei propri beni - fino a svuotare la casa - con l'intento segreto di restituire la libertà al suo «rivale». Perché lo fa? Per segrete narcisismo? Per sottrarsi alla stasi creativa? Per ritrovare in una chiave zen la purezza dell'amore? Con gli anni Bertolucci sé fatto più romantico, o semplicemente più buono. E se aveva portato qualcosa di sé nel poeta agonizzante di «Io ballo da sola», un'ombra autobiografica sembra oggi sovrapporsi al profilo del pianista taciturno. E' come se «L'assedio» rovesciasse la prospettiva di «Ultimo tango»: lì lo sgretolarsi del mistero rinsecchiva la passione tra le mura dell'appartamento, qui la sensualità sboccia attraverso una conoscenza che illumina, nell'epilogo aperto, le due solitudini. Ma a rispecchiarsi nel film - bello e appassionante - è soprattutto la figura di quella ragazza cinta d'«assedio»: chi sa qualcosa sulla vita delle immigrate di colore a Roma, riconoscerà in Shandurai la fierezza indomabile, il legame con le radici africane, il timore di lasciarsi andare tipici di queste donne. E proprio nell'incontro «a distanza» tra i due personaggi, in un addensarsi di sguardi furtivi e trattenuti soprassalti, sta il fascino di questo «piccolo» film fondato su un silenzio trapuntato di musica. E che musica Mozart, Grieg e Scriabin si incontrano con Coltrane, Papa Wemba e addirittura Little Tony in una cine-partitura che suona quasi una risposta a quel punto interrogativo che Kinsky depone all'inizio su quei pentagrammi in bianco. Epperò la colonna sonora, per quanto avvolgente, non toglie allo spettatore il piacere di assaporare, sequenza dopo sequenza, la sofisticata tessitura: fatta di accelerazioni farsesche e rallentamenti emotivi, di prospettive destrutturate e squarci abbaglianti. Una scena per tutte? Il concerto al cospetto dei bambini in un crescendo quasi da «thriller». Illuminato da Fabio Cianchetti e «arredato» da Cinzia Sleiter, «L'assedio» è insomma un film concepito in stato di grazia; e all'ottimo risultato contribuiscono i due interpreti principali, che sono Thandie Newton e David Thewlis. Bravi e palpitanti, specie nella versione originale sottotitolata voluta dal regista. 

Il Manifesto (03/02/99)  
Mariuccia Ciotta 
Composizione musicale per immagini, o meglio una tela dipinta che si anima e riscrive la realtà, si proietta fuori dalla cornice e danza secondo tracciati impossibili, colori allucinogeni, ritmo nomade. L'assedio di Bernardo Bertolucci è un film che vampirizza e fa rinascere - prototipo di un'altra percezione visiva - L'ultimo tango a Parigi ("versione postmoderna", secondo il regista). La sensualità dilaga in una vicinanza obbligata tra due "aliens" (stranieri) a Roma, dentro una casa dalla scala a chiocciola. Shandurai (Thandie Newton, stupenda), ragazza africana profuga da un paese a dittatura militare che le ha imprigionato il marito, e Mr. Kinsky (David Thewlis), "signorino" inglese un po' decadente, che vive di rendita tra opere d'arte disseminate intorno a un grande pianoforte. L'ingresso della casa si apre sul vicolo del Bottino - casbah romana a ridosso della metropolitana, luogo scuro che dà nei sotterranei, animato da gente ai margini, bancarelle, selciato ingombro - ma appena saliti per la scala sinuosa si materializza una vista celestiale di lilla, scalinate... la Roma di piazza di Spagna. Ecco i due mondi, che si faranno la corte in una gara di suoni, colori, profumi, sapori e sesso. In realtà è l'Africa, l'aldilà della vecchia Europa, che sfida l'occidente degli immigrati in un'eco di bellezze non immaginate dai "signori Kinsky". Nel ricordo di Shandurai - che ha assistito all'arresto del marito - c'è la canzone potente di un Griot, il cantastorie, che dice la nostalgia dei paesaggi africani, su musica di Salif Keita, Papa Wemba, Coro Bondeko. Risponde nell'appartamento dal fascino antico il pianista inglese che esegue opere di Mozart, Beethoven, Grieg, Scriabine (al piano Stefano Arnaldi). Tempo di pianoforte, al cinema. Ma Bernardo Bertolucci trasforma la violenta competizione euro-afroamericana del "pianista sull'oceano" in un esaltante match, sprigionante il gusto per l'altro - erotismo invadente - in un crescendo sonoro di eccitazione. Shandurai assedia Mr. Kinski che assedia Shandurai, in una vertigine di sensazioni, flash e spiazzamenti spazio-temporali (montaggio mozzafiato di Jacopo Quadri). Quello che si preannunciava come un piccolo (un'ora) film per la tv, è la più sensazionale opera italiana degli ultimi anni. Scritto dalla regista-sceneggiatrice Clare People (suo il bellissimo Miss Magic con Bridget Fonda) e dal (marito) Bernardo Bertolucci, L'assedio è tratto dal racconto del giovane inglese James Lasdun (premiato al Sundance per lo script di Sunday), su cui compie notevoli variazioni di tono e di stile, tanto da trasformare un incontro multirazziale in un'avventura conradiana. L'"ultimo tango" suonato al tamburo... la passione indicibile di Marlon Brando trasferita negli occhi della ragazza, che da oggetto di desiderio si fa inquisitrice ossessiva, insinuante. Bertolucci fruga nell'inquadratura ingombra di "ostacoli" - pareti, vasi lenzuoli stesi al vento - e scopre stralci di luce, panorami inconsueti, immagini di una Roma mai vista, che gareggia con l'"ospite", l'Africa, finalmente raccontata come un magnifico invasore. La macchina a mano (più steadycam) spazza lo schermo, simulando l'immagine sgranata tv, dal mercato di piazza Vittorio con le bancarelle multicolori al buio della misteriosa dimora dove l'europeo e l'africana s'inseguono in un crescendo di sensualità. Lei studia medicina, e vive nelle dependance di casa Kinsky come domestica. Spolvera le opere d'arte del signorino: "il busto grigio di un Mercurio alato, un vaso art nouveau... un fragile e consunto frammento di un antico cavallo d'avorio...". Ma un po' alla volta ogni cosa scompare, si spoglia dei quadri, degli arazzi, delle statue... (...) 

Il Sole 24 Ore (14/02/99)  
Roberto Escobar 
O tutto o niente? Non è quasi mai saggio costringersi dentro l'angustia di questo dilemma: per quanto poco sia, qualcosa è meglio di niente. C'è tuttavia più d'una eccezione a questo criterio prudenziale. Non c'è emozione, piccola o grande, che s'accontenti d'esser misurata con il metro del qualcosa. E questo vale ancor più per la sua eventuale espressione poetica. Qui davvero il dilemma s'impone: o tutto o niente. Ne è convinto anche il Mr. Kinsky (David Thewlis) di L'assedio (Italia, 1998). Musicista abile, passa i giorni e le notti al pianoforte. Ogni tanto, nel salotto di casa, si esibisce per una piccola platea elegante e attenta: gli amici, gli amici degli amici. La sua emozione trasfigurata in ritmo e melodia vive solo questo breve "tempo pubblico". Parrebbe uno spreco di genialità, un dispendio di poesia. Nella seconda parte del film, appunto, se ne stupisce un prete africano che - per quanto inverosimile possa sembrare - con lui si sta ubriacando in un bar. Come mai non dà concerti? Così domanda a Mr. Kinsky. Dapprima, questo accenna a ragioni oscure, lasciando intendere chissà quali profondità, chissà quale tormento dello spirito. Poi, probabilmente illuminato dallo spirito che sta in bottiglia, se ne esce con un deciso e decisivo: "Forse perché non sono abbastanza bravo". A essere sinceri, queste sue parole riescono a farcelo diventare persino simpatico, nonostante fino a ora ci sia parso niente più che un tontolone di ottime maniere e d'una eleganza così elegante da potersi permettere d'esser trasandata. Lo troviamo improvvisamente sincero, tanto da farci tenerezza. Ha ragione, ha ragione da vendere: in certe cose si deve avere (e dare) tutto o niente. Da quel che ci suggeriscono i nostri orecchi, non suona affatto male, Mr. Kinsky. Le sue composizioni sono piacevoli, anch'esse eleganti e di ottime maniere. Tuttavia, restano nella misura prosastica del "qualcosa". Ecco il cuore del problema, a proposito di L'assedio: la sua poesia dichiarata, annunciata, eppure troppo spesso prosastica, qua e là prosaica. O se si preferisce: il suo scegliere una sorta di compromesso espressivo, nella supposizione che, non potendosi avere (e dare) tutto, convenga almeno avere (e dare) qualcosa. Il che certo non toglie che Bertolucci lo abbia (e lo dia) con grande eleganza. Fuori di metafora: con molta cura nella scelta delle inquadrature, con una spiccata sensibilità per gli interni, con movimenti di macchina sapienti. Insomma, con una regia abile. Notevole, a quanto ci suggeriscono gli occhi, è l'immagine d'esordio: un "volo" sul cratere d'un vulcano, in alto nel cielo d'Africa. Poi, senza esitazioni, la macchina da presa scende ben dentro la vita e l'anima d'una cultura lontana: seduto sotto un grande albero sui cui rami s'arrampicano due ragazzini, un cantastorie canta appunto una storia della quale, purtroppo, rimarremo per sempre all'oscuro. Per fortuna, l'immagine è tale da suggerire, di per sé, un'alterità evidente e coinvolgente. Meno efficace è quel che segue. In particolare: terrorizzata per l'arresto violento del marito, Shandurai (Thandie Newton) si orina addosso. E Bertolucci, ora meno poetico, ci mostra il fatto nudo e crudo. Il realismo prosastico prosaico sarà raddoppiato nella. seconda parte del film, a proposito d'un imbarazzante, inutile vomito giallastro bene in evidenza. Per il resto, la narrazione procede con una generale e forse generica eleganza. La macchina da presa attraversa una Roma estraniata e colma di africani, gira decadente tra le pareti decadenti della casa decadente che fu di Gabriele D'Annunzio, sale e scende per scale impreziosite da ineccepibili ombre alle pareti, ritrova la sua eleganza anche fra le casse da imballaggio che pian piano sostituiscono i mobili preziosi... Peccato che, quando Mr. Kinsky dice a Shandurai d'amarla e di voler andare con lei in Africa, la donna dia la risposta più prevedibile e letteraria: "Cosa sai tu dell'Africa?". Battute così sono in grado di far capitombolare chiunque da vette stilistiche eccelse giù fino alla piatta pianura dell'ovvietà di scrittura. Oltre a questo, lungo i 90 minuti di L'assedio un paio di dubbi ci tormentano. Perché ogni tanto Bertolucci rallenta e insieme fa "saltellare" le immagini? L'espediente è solo un espediente, appunto, o ha un senso espressivo, magari poetico? Se ce l'ha, pare sia ben nascosto. Per quale motivo, poi, Shandurai. s'invaghisce d'un tontolone come il Kinsky di Thewlis? Intendiamo: per quale emozione che il cinema ci comunichi poeticamente come tale, e non solo come storia e prosa? Insomma, benché abile, elegante, di ottime maniere, in questo film la regia di Bertolucci somiglia all'arte musicale del suo personaggio. Qualcuno se ne contenta. Altri sono tentati dall'estremismo saggio del tutto o niente. 

Ciak (01/03/99)  
Piera Detassis 
Di Bertolucci a volte inganna la bravura, che toglie il respiro, di metteur en scene prima ancora che di regista. Sul filo di una Roma sfinita, l'incontro tra il pianista Jason (David Thewlis, bravissimo) e la sua colf africana, Shandurai (Thandie Newton) è tradotto in decadrages, silenzi e fuori campo, salti sull'asse. E desta meraviglia che ancora si possa raccontare l'impossibilità amorosa (di razza, di cultura), solo con la forza delle immagini, senza l'appoggio forte dello script. Forse è fin troppo simbolico Thewlis che si spoglia di tutto in sintonia con la casa, per riscattare il marito di Shandurai prigioniero e catturarne la moglie. E qualcosa suona vuoto in certi dialoghi. Ma l'emozione è in ogni inquadratura, in ogni sguardo. Con Bertolucci, il cinema torna alla sua essenza originaria. 

Il Resto del Carlino (13/02/99)  
Alfredo Boccioletti 
Sono trascorsi tre anni. Liv Tyler non balla più da sola e Bernardo Bertolucci, in un soprassalto di virginali intenti, s'è liberato delle tragedie da autore ridicolo. Tre anni che sembrano trenta. Non fosse per le parole di Bertolucci, sempre intonate a quella soavità un po' dubbia che è vezzo comune a tanti registi, L'assedio verrebbe certamente interpretato come il risultato eccellente di un profondo ripensamento. Per Bertolucci è invece una fermata occasionale del suo percorso artistico: un «piccolo» film, «girato per la televisione», che. gli porrà «seri problemi» quando dovrà metter di nuovo piede sul set di un grande film. Perché - racconta - è stato troppo bello riappropriarsi della libertà del cinema a basso costo, infischiarsene del proprio passato, affrontare l'impegno alla maniera dei giovani che non hanno la cognizione della nostalgia. Meglio non ascoltarlo. Il regista quasi si scusa di aver infranto le regole del cinema per pochi imposto alle masse, di aver realizzato un film che si presta anche ad un piano di lettura non intellettualistico. Nell'Assedio, girato in pellicola, coesistono ispirazione, raffinatezza, voglia del nuovo e aureo mestiere. Il tocco decadente del regista dell'Ultimo tango a Parigi ritrova qui la giusta misura, sostituendo la sensualità alla sessualità e il romanticismo alla trasgressione. Il titolo del film si riferisce a un assedio d'amore, fatto di silenzi e sguardi furtivi, di assoluta, disperata dedizione. Kinsky (David Thewlis: l'acolista poeta di Naked) è un insegnante di pianoforte che abita al piano nobile di un palazzo a Piazza di Spagna, mentre l'oggetto dei suoi desideri, Shandurai (Thandie Newton, padre inglese e madre dello Zimbabwe) è alloggiata nell'ammezzato. La soave negretta, studentessa in medicina, fa le pulizie a piedi scalzi nelle stanze del padrone, canticchiando Papa Wemba e Salif Keita. Kinsky l'assedia con Mozart, Beethoven, Grieg, Skrjabin e Chopin. Durante i loro incontri impacciati, lungo una scala a chiocciola con corrimano rococò in ferro battuto, si proiettano le prime ombre di due solitudini all apparenza inconciliabili. Lui, goffo come un pagliaccio, si dichiara, le chiede di sposarlo: farebbe qualsiasi cosa. Lei gli chiede la libertà per suo marito, imprigionato da un dittatore africano. Così, per tenere fede a una promessa d'amore senza speranza, Kinsy si priva poco alla volta degli arredi antichi di famiglia, fino al sacrificio supremo: il pianoforte. La musica segue la spirale della passione in un gioco di contrappunti mai banale, nemmeno quando si inseriscono le note di Cuore matto. Tratto da un racconto di James Lasdun a sua volta ispirato a una novella del Boccaccio, L'assedio ha tutta l'eloquenza delle opere da camera, nonostante che i dialoghi siano ridotti all'essenziale. Mai la scrittura a quattro mani di Bertolucci e di sua moglie Clare People aveva raggiunto tanta armonia. 

Stampa (02/03/99)  
Lietta Tornabuoni 
Molto bello, intenso e denso, con due soli personaggi e pochissime parole, girato in un'unica casa romana con straordinaria maestria, tratto da un racconto dell'inglese James Lasdun, "L'assedio" di Bernardo Bertolucci che esce in Italia il prossimo venerdì comincia e finisce con due interrogativi senza risposta: all'inizio c'è un foglio di carta da musica col disegno d'un grande punto di domanda; alla fine un marito suona il campanello mentre sua moglie è amorosamente abbracciata a un musicista, e il film lascia immaginare allo spettatore se la porta verrà aperta oppure no. Il luogo dell'azione è affascinante e strano, un appartamento in verticale percorso da una scala elicoidale e affacciato sulla scalinata di Trinità dei Monti. In alto abita il pianista inglese David Thewlis, goffo, solitario, che suona, compone e dà lezioni ai bambini sul suo Steinway, che non si esibisce in pubblico perché teme di non essere abbastanza bravo o magari per nevrosi ("Franco Ferrara a ogni concerto avvertiva una terribile forza che lo schiacciava, e sveniva. Horowitz pensava che le sue dita fossero di cristallo, che a percuotere un tasto si sarebbero spezzate"). In basso abita la ragazza africana Thandie Newton, moglie di un insegnante prigioniero politico in Africa, che fa da cameriera al musicista e intanto studia medicina all'Università. Lui la guarda, la spia, le manda fiori e regali, la ama, le chiede: "Sposami. Cosa devo fare per farmi amare? Farei qualunque cosa"; "Tiri fuori mio marito dalla prigione", è l'aspra risposta. Lui non replica, non promette. Ma a poco a poco la casa si vuota di tutti i suoi arredi preziosi, si impoverisce, si denuda finché anche il pianoforte essenziale viene portato via. Il musicista sublima il suo amore sacrificando tutto quanto possiede al desiderio di lei e arriva a farsi amare; quando il marito, liberato, all'alba suona alla porta, i due sono a letto insieme. Bernardo Bertolucci afferma che si tratta soltanto d'una storia d'amore, scarta ogni altra interpretazione o metafora possibile. L'Occidente depauperato dai popoli d'altri continenti che rivendicano la propria esistenza. I bianchi di buoni sentimenti spogliati dagli africani di buoni diritti. Vicenda di tre intellettuali: un esteta europeo, un insegnante militante africano, una donna metà domestica e metà medico. Un conflitto di culture, esemplificato dal contrasto e dal reciproco condizionamento tra le musiche africane amate dalla ragazza e la musica suonata dal pianista (Mozart, Scriabine, Grieg, Beethoven). Ma ad essere importanti sono la bellezza e raffinatezza del film, la sapiente bravura del regista, la tensione nella contemplazione degli attori, il senso di prigionia e di libertà che domina la storia, le citazioni pertinenti: "Coloro che cercheranno di salvare la propria vita la perderanno, chi la donerà sarà salvato". 

Corriere della Sera (06/02/99)  
Tullio Kezich 
Pare accertato che D'Annunzio scrisse Il piacere mentre abitava al numero 8 di Vicolo Del Bottino, che parte dalla romana piazza di Spagna. Pur immutata nei centodieci anni esatti trascorsi da allora, la stradina è diventata un brulicante crocevia multirazziale da quando ospita nel fondo la stazione della metropolitana. Quel sospetto deve aver acceso la fantasia di Bernardo Bertolucci facendogli collocare proprio nel palazzetto dell'Imaginifico l'amoroso intreccio fra un musicista inglese e una cameriera del Terzo mondo che nel racconto immaginario di James Lasdun si svolge a Londra. L'assedio si attiene con fedeltà alla falsariga del precedente letterario (edito da Garzanti, tranne alcuni arricchimenti: c'è un drammatico prologo in un Paese dell'Africa dittatoriale con il brutale arresto di un insegnante democratico; e mentre nella sobria e intensa personificazione di David Thewlis il pianista è di aspetto più giovanile e gradevole, la ragazza (Thandie Newton) è diventata una studentessa di medicina. Ma regge la sottile imbastitura che finisce per stringere insieme la coppia riluttante e i tempi della contrattanza sono rispettati: scoperto che la donna di cui è innamorato ha il marito in carcere, il britannico si vende la casa pezzo per pezzo per comperare la libertà del rivale. Quando il patriota arriva all'alba in vicolo del Bottino e suona il campanello, nel racconto e nel film la situazione è cambiata e non ci è dato sapere cosa succederà. Sullo schermo regna la storia d'amore con tutti i confronti e scontri che comporta: fra il bianco e il nero, fra il ricco e il povero, fra la vita dell'artista e quella del perseguitato politico, fra la grande musica dell'Occidente e le nenie africane. Lui spia lei che spia lui, la comunicazione dai piani alti alla cantina si svolge attraverso un calapranzi, il non detto supera di gran lunga il detto. La casa fa il racconto, con quegli oggetti preziosi che cominciano a sparire, e Bertolucci reinventa la trama di Lasdun con la grazia del grande affabulatore. Questo piccolo capolavoro, destinato a restare fra le gemme di una filmografia già ricca di risultati memorabili, fonde alla sapienza stilistica il dolore, la pietà e l'incanto del reale. Non a caso la prima e unica raccolta di poesie con cui Bernardo ventenne vinse un premio aveva un titolo che si è rivelato un programma di vita: In cerca del mistero. 

Il Giorno (06/02/99)  
Silvio Danese 
Bertolucci, il ritorno. Dopo due decenni di colossal a innesto bertolucciano risuona la fascinazione d'una visione doc: l'anatomia di una storia d'amore con il linguaggio "postmoderno" di melodrammatici carrelli viscontiani, convulse steadycam kubrickiane e godardismi sparsi ma non inopportuni. Una casa appoggia a Piazza di Spagna diventa un regno audiovisivo; la passione di un pianista americano per la domestica-studentessa africana un ultimo tango mancato col sound afro di Papa Wemba. Non mancano i compiacimenti, su cui si sfogheranno i detrattori. 
 

Il Giorno (06/02/99)  
Silvio Danese 
Bertolucci, il ritorno. Dopo due decenni di colossal a innesto bertolucciano risuona la fascinazione d'una visione doc: l'anatomia di una storia d'amore con il linguaggio "postmoderno" di melodrammatici carrelli viscontiani, convulse steadycam kubrickiane e godardismi sparsi ma non inopportuni. Una casa appoggia a Piazza di Spagna diventa un regno audiovisivo; la passione di un pianista americano per la domestica-studentessa africana un ultimo tango mancato col sound afro di Papa Wemba. Non mancano i compiacimenti, su cui si sfogheranno i detrattori. 
 
 

Ecran Noir - 11 mars 1999
 
 
Histoire: 
Un vieux palais au coeur de Rome - le refuge de deux solitudes. Lui, c'est un Anglais, excentrique et réservé; elle, une jeune Africaine d'à peine vingt ans: elle ne peut oublier la dictature qu'elle a fuie, et qui lui a ravi son mari, mais elle brûle d'espoir en l'avenir. 
     
 
Sacrifice amoureux
Je veux vous épouser. 

Bernardo Bertolucci signe avec Shanduraï un film véritablement passionné. Caméra à l’épaule et avec un budget serré, il filme magnifiquement Rome et l’histoire d’amour qui s’y tient, entre un musicien anglais timide et maladroit, et une jeune femme africaine blessée par la vie.  
Shanduraï est née en Afrique, et la dictature qui s’est installée dans son pays lui a ravi son mari, emprisonné pour raisons politiques. Elle émigre alors à Rome, et suit ses études de médecine, sans jamais parvenir à oublier. Parallèlement, elle travaille comme femme de ménage chez Mr Kinsky, qui en échange l’héberge dans sa grande maison.  
Certes le film est minimaliste, et peut désorienter les admirateurs des récents opus de Bertolucci. On retrouve là plutôt la spontanéité et la simplicité de ses premiers films. Et toujours cette confrontation des cultures... Cependant cela joue à son avantage, au regard du scénario. Car ce qui importe, dans ce film, c’est la relation d’amour qui s’instaure entre les personnages, et la manière dont va se faire la rencontre. En premier lieu, le contact est inexistant : Shanduraï vit en bas de la maison, Mr Kinsky en haut. Chacun à sa place, en fonction de son statut social. Plongées et contre-plongées se succèdent dans l’escalier central en spirale, que Bertolucci utilise pour filmer l’évolution de la relation entre les personnages, par des jeux de verticalité. A mi-hauteur, Mr Kinsky déclare sa flamme à Shanduraî mais celle-ci lui révèle l’existence de son mari et par conséquent se refuse à lui.  
Outre cet escalier, la musique dispose d’un rôle primordial dans le film : c’est elle qui va unir les personnages et les rapprocher l'un de l'autre. D’abord classique, issue du piano de Mr Kinsky, elle n’atteint pas le c¦ur de Shanduraï, marquée par ses rythmes africains, plus colorés, plus vivants. Peu à peu, Shanduraï elle même inspire Mr Kinsky. Les rythmes se font alors plus rapides, plus fougueux, en devenant du jazz : Shanduraï comprenant mieux cette musique, la rencontre va être enfin possible entre ces deux êtres que tout séparait.  
Peu à peu Mr Kinsky apprivoise Shanduraï. Pour la séduire, il cherche avant tout à la rendre heureuse. Cela passe par des sacrifices inestimables, comme celui de son piano et donc de sa musique. Quand Shanduraï comprend l’ampleur de l’amour de son logeur, elle est d’abord perturbée, puis découvre qu’elle aussi, elle l’aime. Qui choisira-t-elle ? Son mari, de retour grâce au logeur, ou le logeur lui-même ? La fin du film reste une porte ouverte, à chacun d’imaginer les rêves...  
Mais est-ce bien la bonne question ? Ce qui compte finalement dans ce film, n’est-ce pas l’amour et le don de soi ? Shanduraï est avant tout une réflexion sur cette alchimie si complexe : l’ampleur du film n’est pas dans le budget ou une réalisation complexe, mais dans sa vision de l’amour, sensible et très féminine.  

France-Marie/Bertrand 
Shanduraï 
 
 

Shanduraï

 
BUZZZZZ 

Shanduraï rompt avec la somptuosité et les grands espaces des précédents films de Bernardo Bertolucci. En effet, ce film, adapté d’une nouvelle de James Lasdun, a été tourné au départ pour la télévision, avec un budget de seulement 3 millions de dollars. Au terme d’un premier montage d’une heure trente, les producteurs ont trouvé dommage de ne pas faire une sortie en salles. Présenté avec succès à Venise, puis mis sur le marché à Toronto, Shanduraï, sortira donc d’abord sur grand écran. On retrouve David Thewlis qui continue d’explorer les univers des cinéastes étrangers, après l’Himalaya de Annaud. Et surtout la perle noire Thandis Newton, révélée par Ivory (Jefferson in Paris) et extraordinaire dans Beloved. 

 
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