|
OPERE |
|
ARTICOLI |
|
|
Da citare fra i più recenti prosatori
cileni è Luis Sepúlveda, (n. 1949)
autore di romanzi di impegno ecologista,
cantore appassionato della natura e
dell'umanità del "mondo alla fine
del mondo". Il suo nome è legato
soprattutto alla Patagonia, ma nei suoi
libri ha raccontato anche l'anima
rarefatta e spaziosa dell'altro Cile,
altrattanto remoto ma meno conosciuto: il
Norte Grande degli altipiani, del deserto
e dei minatori.. Anch'egli colpito dalle
torture del regime e dall'esilio,
stabilitosi in Europa non ha smesso
l'impegno attivo e ha raggiunto la
notorietà internazionale con Il
vecchio che leggeva romanzi d'amore (1989),
storia della sfida mortale tra un uomo in
apparenza inoffensivo e un
"tigrillo". Sono seguiti: Il
mondo alla fine del mondo (1992), Un
nome da torero (1993), vicenda di
spionaggio tra la Patagonia e la Germania,
la frontiera scomparsa (1994) e, nel 1996,
Storia di una gabbianella e del gatto
che le insegnò a volare, un libro per
ragazzi.
E' autore di numerosi articoli. Ne
riportiamo una breve selezione.
Il vecchio che
leggeva romanzi d'amore
|
Questo
libro, pubblicato per la prima
volta da Guanda, con la traduzione
di Ilide Carmignani, è Diviso in
otto capitoli, è un classico
romanzo di avventura, ambientato
nella foresta Amazzonica. L'autore
utilizza un linguaggio piuttosto
semplice, a volte fa anche uso di
espressioni volgari che, tuttavia,
contribuiscono a dare realismo al
racconto. Il punto di vista è
esterno.
Il protagonista è un vecchio di
nome Antonio Josè Bolivar Proaño,
colono del villaggio di El Idilio,
un villaggio nel mezzo della foresta
Amazzonica. Rimasto solo dopo la
morte di sua moglie visse a lungo
nella tribù degli indigeni Shuar,
dai quali imparò l'arte della
caccia e uno stile di vita legato al
rispetto della natura.Come suo
antagonista troviamo invece il
sindaco di El Idilio. |
Proprio perché Antonio è in grado di
comprendere i ritmi della foresta viene
scelto per andare ad uccidere la femmina
di tigrillos,che, da qualche tempo, sta
sterminando numerosi gringos a causa
dell'uccisione dei suoi
piccoli. Antonio, aiutato dal
dentista Rubicundo Loachamìn, scopre
intanto la sua passione per i libri,
specialmente per quelli d'amore. Pentitosi
per aver ucciso il tigrillos torna alla
sua povera capanna e ai suoi romanzi
d'amore. Alla storia narrata in questo
libro è strettamente legato il tema dello
scempio che oggi si sta facendo del nostro
patrimonio forestale mondiale.
Storia di una gabbianella
e del gatto che le insegnò a volare
|
Clicca per ingrandire |
Questo racconto per ragazzi ha le
caratteristiche di una favola moderna
perché fa riflettere molto su alcuni temi
vicini al nostro tempo: l’amore per la
natura e la sua salvaguardia, l'
indignazione per i danni procurati all’ambiente
dall’uomo, la solidarietà verso chi
proviene da altri Paesi e ha una lingua e
una cultura diversa, e la generosità
verso chi è in difficoltà.
E' affrontato anche il tema del passaggio
dall’adolescenza alla vita adulta.
I gatti sono un po’ come i genitori,
quando Fortunata vola, i suoi amici gatti
sono orgogliosi per averle fornito i mezzi
per conquistare l'indipendenza, anchese un
po' tristi perché lei si allontana.
La lettura è molto piacevole perché l’autore
fa parlare gli animali con espressioni
spiritose e usa molti dialoghi che
permettono di capire meglio le vicende e
di provare gli stessi sentimenti dei
personaggi. Dal romanzo è stato
ricavato un film di animazione italiano
che ha avuto molto successo.
Il mondo alla fine
del mondo
Il 16 giugno del 1988, provenienza
Cile, un inquietante messaggio approda ad
Amburgo, stampato dal telefax di
un'agenzia giornalistica
legata a Greenpeace e particolarmente
impegnata in campo ecologico. Secondo il
dispaccio, la nave officina giapponese
Nishin Maru, comandata dal capitano
Tanifuji, ha subito gravi danni in acque
magellaniche; si registra la perdita di
diciotto marinai, insieme a un numero
imprecisato di feriti. È l'inizio
dell'avventura. Il protagonista, un
giornalista cileno esule dal suo paese per
motivi politici, grazie a febbrili
ricerche e ingegnose congetture giunge
alla conclusione che il Nishin Maru,
ufficialmente demolito a Timor, stava
praticando illegalmente, e del tutto
impunito, la caccia alle balene nei mari
australi. Una giovane attivista di
Greenpeace, inoltre, lo mette in contatto
telefonico con un misterioso personaggio,
il capitano Jorge Nilssen, che di tutta la
faccenda sa senz'altro qualcosa in più ..
Raccogliendo l'invito di quell'esperto,
schivo e generoso marinaio, il nostro
ecologista tornerà a navigare sulle rotte
della sua giovinezza, fino a scoprire, in
un crescendo di suspense, la tremenda,
impensabile verità, l'esito fantastico di
una vicenda cruda e incalzante.
Chi ha letto ed amato il precedente
romanzo di Luis Sepùlveda potrà di nuovo
ascoltare, in queste pagine, il grido
indignato - ma anche il canto ammaliante -
della natura ferita, la protesta contro
una cieca follia di cui pure l'uomo rimane
vittima. Ma anche qui, come nel Vecchio
che leggeva romanzi d'amore, l'urgenza
dell'attualità assume i contorni
fantastici del mito. Non più il tigrillo,
ma cetacei, delfini ed uccelli,
altrettanto leggendari e altrettanto
braccati; non più la foresta amazzonica,
ma i mari insidiosi, le coste
frastagliate, il cielo freddo e
lattiginoso del "mondo alla fine del
mondo ". Questo lembo estremo del
pianeta (con le sue distese infinite, le
sue navi fantasma, i suoi capitani
indomabili) si trasforma simbolicamente,
nel luogo dell'apocalisse. Ma può essere,
come per il protagonista, l'universo in
cui l'uomo ritrova l'unione con le proprie
origini, l'armonia con gli elementi e,
soprattutto, un anelito indistruttibile
alla speranza.
Le rose di Atacama
|
Il viaggio, il vagabondaggio per il
mondo, è qui che si collocano le storie
non altrimenti possono essere definite -
raccolte in questo libro. Lo scrittore
narra le vicende di personaggi anonimi e
marginali incontrati per il mondo, uomini
e donne che hanno in comune l'aver fatto
della propria vita una forma di
resistenza. Un amico cileno che ha diretto
la rivista Analisis, prima barricata della
lotta contro Pinochet. Un cantante che ha
partecipato alla Primavera di Praga. Un
cameraman olandese ucciso dall'esercito
del Salvador. Uomini che non hanno mai
sperato di uscire dai margini, ma che per
una volta sono affiorati, con le loro
storie, dal buio dell'oblio. Come le rose
che, in un solo giorno dell'anno,
ricoprono il deserto di Atacama. Contenuto
Con quest'ultimo libro Luis Sepùlveda
riconferma la sua fama di grande
narratore, dotato di forte passione e di
straordinaria sensibilità per le
molteplici espressioni dell'animo umano.
Dopo Incontro d'amore in un paese di
guerra ePatagonia Express, lo scrittore
cileno torna a raccontare intense storie
di vita, raccolte nel corso degli anni in
varie regioni del mondo. Appartengono a
uomini e a donne sconosciuti, accomunati
da un'esistenza vissuta con ardore, nella
certezza delle proprie convinzioni e
spesso pericolosamente al di fuori degli
schemi. Eroi di una storia marginale, come
la definisce l'autore (e proprio Historia
marginales è il titolo originale del
libro), "una storia che non verrà
mai scritta, - dice - ma non importa,
perché ho imparato dagli asturiani che la
vita è una serie infinita di piccoli
trionfi e di grandi fallimenti". È
proprio per sottrarre all'oblio questo
patrimonio di esperienze e testimonianze
che Sepúlveda decide di mettere per
iscritto con il suo stile inconfondibile,
ricco di partecipazione, diretto e
incisivo ma anche poetico e fiabesco, le
vicende di dolore, violenza, sconfitta,
impegno politico e onestà intellettuale,
gioia, malinconia di Lucas, il Professor
Gálvez, i gemelli Duarte, Mister Simpah,
Chuchú Vidal, il tenente Lilija
Vladimirovna e le sue compagne, i
coraggiosi lapponi, gli anonimi cavatori
di marmo toscani, i fieri abitanti delle
Asturie e molti altri. Tutti finalmente e
per una volta alla ribalta. Come le rose
del deserto di Atacama che sono sempre lì
sotto la terra salata ma fioriscono
solamente una volta l'anno. E "a
mezzogiorno il sole le avrà già
calcinate".
ARTICOLI
DI LUIS SEPULVEDA
"Noi, quelli di
allora, non siamo più gli stessi"
dice un verso di Pablo Neruda, ed è vero,
dannatamente, dolorosamente e
gloriosamente vero. Noi, quelli di allora,
non siamo più gli stessi, e quando dico
noi penso a tanti che non ci sono più,
che sono morti nel corso dei primi
combattimenti, o in carcere, o in esilio,
o negli scontri armati che sono proseguiti
fino al 1989. Altri sono scomparsi in
Nicaragua, nel Salvador, in Angola, in
Mozambico, tra le file del Fronte
Polisario, sempre combattendo, perché gli
uomini e le donne che non hanno mai
dimenticato l'esempio di Salvador Allende,
del compagno Presidente, hanno portato nel
mondo la sua dignità e il suo eroismo.
Allende. Che statura ha
il coraggio? Salvador Allende era un metro
e settanta, per i cileni era bassino, un
"tappetto", ma allo stesso tempo
era dotato di una grande dignità che lo
faceva apparire più alto. Era come i
galli da combattimento: piccoli, ma pronti
a combattere sino alla fine.
Allende. Accanto alla
mia scrivania ho una foto che lo ritrae la
sera del 4 settembre 1970, la sera del
trionfo elettorale della sinistra che
aprì le porte ai sogni e alle speranze di
cui erano protagonisti soprattutto i
giovani. Quella sera parlò dalla casa
della Federazione degli Studenti Cileni,
perché sapeva che quei giovani erano -
eravamo - pronti a dare tutto per quella
rivoluzione che iniziava assieme alla
primavera.
Con toni sobri ci
parlò delle grandi sfide che avevamo
davanti, ci predisse tempi duri, ci
invitò a dimenticare la parola riposo
perché dovevamo costruire una società
migliore, più giusta e umana, più felice
e generosa. E pretese che, per quanto
potesse essere duro il compito della
rivoluzione, non smettessimo mai di essere
giovani, critici, audaci, fantasiosi,
irriverenti, perché il grande capitale
della rivoluzione cilena non era una
teoria politica, ma la volontà di
realizzare i cambiamenti che dovevano
condurci alla nostra idea di socialismo.
Concluse dicendo che da quel momento in
poi con lui dovevamo dimenticare il
protocollo. Per noi sarebbe sempre stato
il compagno Allende o, a nostra scelta, il
compagno Presidente.
Allende. La prima volta
che mi trovai al suo fianco fu nel marzo
del 1970, durante la campagna elettorale
di Unidad Popular. Facevo parte del
servizio di sicurezza che doveva
accompagnarlo a Rancagua, per parlare
davanti ai minatori del rame e ai
contadini. Ricordo che una mezz'ora prima
del discorso Allende si accorse di avere
la camicia molto sporca per colpa della
polvere, e purtroppo il suo segretario
aveva dimenticato di mettergli un cambio
in valigia. Mi offrii di andargli a
comprare una camicia bianca, e assieme a
sua figlia Beatriz, la mia cara
"Tati", ci lanciammo in cerca di
un negozio di abbigliamento. A quell'ora i
negozi di Rancagua erano chiusi, ma avemmo
fortuna e ne trovammo uno specializzato in
uniformi per camerieri. "Che taglia
ha il compagno Allende?" chiese il
commesso. Guardai Tati e lei guardò me.
"Io ho la 42, suppongo che lui avrà
due taglie meno" dissi pensando che
Allende era più basso e meno corpulento.
Uscimmo da lì con una camicia taglia 38.
Gliela portammo e dopo pochi minuti
Allende mi chiamò:
"Compagno, sa
davanti a chi devo parlare?"
"Ai minatori del
rame e ai contadini, compagno."
"Esatto. E lei
crede che potrò farlo indossando questa
camicia da prima comunione?"
Poco dopo vidi che
l'aveva messa e che ci scoppiava dentro,
ma quella sera, con una camicia stretta,
Allende pronunciò uno dei migliori
discorsi della sua campagna elettorale.
Nel giugno del 1970
facevo parte del servizio di sicurezza che
lo accompagnò nella sua terra patagonica,
perché Allende era senatore delle
province di Chiloé, Aisén e Magellano,
zone da sempre di sinistra. Il primo
Partito Socialista Cileno nacque proprio
in Patagonia, nel 1906, e quindi Allende
era come a casa.
Per passare da Puerto
Montt a Balmaceda ci imbarcammo sul
Pappagallo col singhiozzo, il leggendario
DC3 di un leggendario pilota socialista,
il capitano Esquella. Sull'aereo più che
un vago sentore di pecora c'era una puzza
da mozzare il fiato, perché nelle
settimane precedenti Esquella aveva
trasportato migliaia di ovini. Durante il
volo Allende si informò sulle razze da
lana, sul prezzo della carne e della lana,
sullo stato del mare più ricco di
crostacei, ed era l'unico a cui sembrava
non importare il tanfo. Mentre tutti
facevamo grandi smorfie e respiravamo con
la bocca, Allende si bevve qualche
bicchierino di Chivas Regal e ci offrì la
bottiglia chiedendoci se volevamo un po'
di quella medicina contro il mal d'aereo.
Atterrammo a
mezzogiorno, e mentre camminavamo sulla
pista verso l'aeroporto, mi prese
sottobraccio e mi domandò sottovoce:
"Senta, compagno, anche a lei è
venuta voglia di un po' di foraggio?"
Allende. Nell'aprile
del 1972, dopo un breve periodo nel GAP,
il Gruppo di Amici Personali incaricati
della sicurezza dei dirigenti, fui
nominato commissario di un'industria
agricola. Il "Diario Oficial",
in un decreto firmato da Allende, mi
definiva un rappresentante del compagno
Presidente e dei compagni Ministri del
Lavoro e dell'Agricoltura. Io non volevo
occuparmi di un'industria agricola, volevo
restare nel servizio di sicurezza, e lo
dissi a Salvador Allende. Quella fu
l'unica volta che rimasi solo con lui per
mezz'ora. Sapeva molte cose di me, per
esempio che ero uno scrittore, anche se
scrivevo poco, che dormivo appena tre ore,
e questo "glielo dico come medico,
compagno, non va bene", che mio padre
aveva un ristorante eppure non lo aveva
mai invitato a mangiare, "le sembra
giusto, compagno?". Infine mi parlò
della necessità della disciplina nei
processi rivoluzionari. "E poi io la
conosco, compagno, e so che se un giorno
la situazione si facesse critica e si
dovessero impugnare le armi, lei sarebbe
al mio fianco senza bisogno di
chiamarla."
L'11 settembre 1973 ero
responsabile della sicurezza dell'impianto
dell'acqua potabile di Vizcachas, che
riforniva del prezioso liquido la città
di Santiago. Al mio fianco c'erano sette
compagni esemplari: "Tuco" di
vent'anni, "Mateo" di ventitré,
"Pepe il negro" di ventuno,
"Quintana il corvo" di trenta,
"Magaly" di ventidue,
"Menassin il turco" di
venticinque, e "Carlitos Paz" di
ventotto. Io avevo ventitré anni.
Erano ormai molte notti
che non dormivamo per tenere a bada, con
il nostro misero armamento, i fascisti di
Patria y Libertad che, con la complicità
dell'esercito e della polizia, avevano
tentato varie volte di far saltare in aria
l'impianto dell'acqua potabile. Tutti i
miei compagni avevano un nome e un
cognome, ma io li ricordo con i loro
soprannomi politici, con i loro nomi di
combattimento, perché è così che si
chiamavano quando quel giorno terribile,
alle nove del mattino, dopo una breve
discussione, decidemmo di dirigerci al
centro di Santiago, al palazzo della
Moneda, per essere al fianco di Allende
mentre guidava la Battaglia del Cile.
Non ci arrivammo mai.
Durante gli scontri nel cordone
industriale Vicuña Mackenna sentimmo
l'ultimo discorso del compagno Presidente.
Accanto a lui, i compagni del GAP
sparavano all'impazzata coi loro
kalashnikov per proteggere la sua voce -
che infondeva speranza-, e gli echi del
combattimento sottolineavano le sue parole
ferme e decise. "Vi parla il compagno
Presidente, questa sarà l'ultima volta
che udirete il timbro sereno della mia
voce..."
Solo
"Magaly", "Tuco" e io
sopravvivemmo a quella giornata.
"Tuco" è morto nel 1986 nel
Salvador, combattendo a fianco del Fronte
di Liberazione Farabundo Martí. No. Noi,
quelli di allora, non siamo più gli
stessi.
Allende. Venticinque
anni dopo i miei figli guardano la sua
fotografia e mi chiedono: chi è
quell'uomo?, perché gli vuoi così tanto
bene?, e io gliene parlo, dico loro che
era un medico, un amico, un uomo buono, e
che amava il gelato al cocco, il Chivas
Regal, il vino rosso, le giacche di tweed,
le cravatte italiane, le scarpe inglesi,
le belle donne, le commedie musicali, le
empanadas, le grigliate all'aria aperta, i
cani e i gatti, i romanzi gialli, i poeti
spagnoli, i cantautori cileni, gli spazi
sterminati della Patagonia.
Ho accompagnato quell'uomo nei mille
giorni più belli e intensi della mia
vita, spiego loro, si chiama Salvador
Allende ed è morto lottando perché io
possa guardarvi in faccia serenamente,
senza vergogna, perché migliaia di cileni
possano guardare e e dir loro che, per
quanto possa essere dura la vita,
arriverà il giorno "in cui si
apriranno gli ampi viali dove cammina
l'uomo libero".
No. Noi, quelli di
allora, non siamo più gli stessi. Ma
l'esempio di Salvador Allende, del
compagno Presidente, ci fa restare saldi
sulla nostra strada.
Allende. Venticinque
anni dopo la sua figura si ingigantisce
nel ricordo, come si ingigantisce il mio
orgoglio di essere stato uno dei suoi
uomini.
¡Venceremos!, caro
compagno Salvador Allende.
Settembre 1998
Traduzione di Ilide
Carmignani.
La Repubblica,
3 marzo 2000
Mentre scrivo queste righe un Boeing
707 delle forze aeree cilene si allontana
dall'Europa con un carico di spazzatura di
ritorno al proprio paese d'origine. La
giustizia universale è stata, una volta
ancora, violata, burlata, per ragioni che
conosceremo con certezza solo quando, tra
molti anni, Jack Straw scriverà le
proprie memorie giustificando la
liberazione di un tiranno.
Una volta ancora le vittime constatano
che il diritto e la legalità stanno
sempre dalla parte dei potenti, e che
l'etica viene calpestata in nome della
logica di mercato. Nessuno che leggesse il
comunicato dei medici inglesi che hanno
visitato Pinochet crederebbe che lo stato
della sua salute mentale sia tanto critico
da poter eludere l' azione della
giustizia.
Nessuno può accettare che obbligare
Pinochet a rispondere alle accuse del
giudice Baltasar Garzon sarebbe stato un
atto di crudeltà. E ancora, nessuno può
credere nelle deboli giustificazioni del
governo spagnolo, che ha fatto tutto il
possibile per impedire alla giustizia
spagnola di giudicare un assassino,
carnefice, tra le molte vittime, anche di
cittadini spagnoli.
L'annuncio di Straw è stato la
conferma di una farsa tramata nelle
cloache del potere. Il commercio di armi,
il potere monopolizzatore di certe aziende
spagnole che hanno investito in Cile, e la
debolezza politica del governo cileno - di
quello in uscita e di quello entrante -
sono i responsabili di questa macabra
irresponsabilità capace di perdonare un
criminale e di farsi beffa delle vittime.
Resta solo da vedere se in Cile ci
sarà chi oserà affrontare il tiranno che
ritorna in gloria e maestà per dirgli:
lei è pazzo, un'equipe di medici inglesi
ha diagnosticato la sua demenza e al
senato non c'è posto per un soggetto che
non sia in possesso delle proprie facoltà
mentali.
Non accadrà. Lo dico mentre desidero
ferventemente di sbagliarmi, mentre spero
che il governo dia un segnale di decenza e
di buon senso, ma dato che conosco la
realtà cilena, so che non sarà così, e
che Pinochet manterrà la propria
immunità di senatore a vita, anzi: chi ha
attentato ai valori costituzionali verrà
dichiarato ex presidente della repubblica,
in modo che gli venga conferita maggiore
immunità, o impunità, che in questo caso
è lo stesso.
Su quel Boeing 707 delle forze aeree
cilene, un mucchio di spazzatura medita la
propria vendetta. Posso immaginare che in
questo momento i dirigenti della destra
cilena, tra i quali Joaquin Lavin, stiano
tremando perché il satrapo gli chiederà
il conto per averlo abbandonato nella
recente campagna elettorale. I militari
che, grazie alla coraggiosa azione di un
giudice cileno, Guzman, sono in prigione,
anche loro tremano. Pinochet agli arresti
in Inghilterra o in Spagna rappresentava
per loro la possibilità di lavarsi delle
colpe dichiarando di aver obbedito ai suoi
ordini quando torturavano, sequestravano,
assassinavano migliaia di cittadini.
Adesso, con il tiranno di nuovo in Cile,
le loro vite non valgono un soldo, e loro
lo sanno. I generali Arellano Stark o
Manuel Contreras, per omertà della mafia
militare, taceranno, e non diranno mai
dove si trovano i nostri desaparecidos.
Indossando abiti civili, quel mucchio
di spazzatura che è Pinochet vola verso
il Cile, e ci rimane solo da vedere chi lo
riceverà al suo arrivo, chi, in nome di
chi e di quali sporchi interessi, lo
saluterà rendendogli onore.
Povero Cile, mia patria sempre più
lontana, diventata un deposito di
immondizie.
Per gentile concessione del
"DIARIO DELLA SETTIMANA".
"Quando sono nato ero già un
fuggitivo, un latitante. Mia madre era
ancora minorenne, e mio padre, di pochi
anni più grande, era stato denunciato dal
'suocero'. Così sono stato partorito in
un albergo, durante una pausa forzata di
quella fuga d'amore con tanto di mandato
di cattura. Sarà anche per questo, che ho
sempre avuto la sensazione di non essere
di alcun posto..."
Luis Sepúlveda, cileno errante, scrittore
tradotto in almeno una quindicina di
paesi, si è da poco trasferito in una
casetta ai margini della Foresta Nera, pur
conservando la vaga residenza "tra
Amburgo e Parigi", come si legge
sulle copertine dei suoi libri. Oggi
potrebbe rientrare in Cile, che lasciò
nel 1977 per l'esilio, ma non ne sente
alcun bisogno, e se l'intervistatore di
turno gli chiede: "Quando pensa di
tornarci?", lui risponde
immancabilmente: "Perché mi volete
rispedire lì, vi ho già stufato?".
Il concetto di "patria" non ha
mai sfiorato Luis. Chissà se c'entrano i
cromosomi. Il nonno paterno, esatto
contrario del "delatore"
materno, era un anarchico andaluso
condannato a morte in Spagna per attività
sovversive. Evase dal carcere di Almería,
primi anni del secolo, e raggiunse le
Filippine, da dove passò in Ecuador, e
lì ricominciò da capo: fondò un gruppo
anarchico, ne combinò di tutti i colori,
e si buscò un'altra condanna. Rievase,
ovviamente. Dal carcere di Guayaquil
fuggì direttamente in Cile, fermandosi
nel porto di Iquique. "Era il 1918, e
laggiù c'era il meglio del movimento
libertario europeo, tutti militanti
anarchici sfuggiti alle galere e ai boia
dei rispettivi paesi di origine, quindi
mio nonno si ritrovò a cuocere nella
propria salsa... Si chiamava Gerardo
Sepúlveda Tapia, ma tutti lo conoscevano
con il nome di battaglia, il compagno
Ricardo Blanco. Stare con lui, fu per me
la miglior scuola di vita possibile. Da
Iquique si spostò a Valparaíso. Non
riusciva mai a stare per troppo tempo
nello stesso posto, e lo capisco
benissimo... Laggiù trovò l'amore della
sua vita, mia nonna Susana, colta, un po'
borghese, addirittura cattolica... Credo
che il compagno Ricardo Blanco le avesse
perdonato tali difetti soprattutto per due
motivi: era bellissima, e parlava cinque
lingue. Io sono praticamente cresciuto con
loro, e con lo zio Pepe, altro anarchico
furioso, che nel 1937 se ne partì per la
Spagna con una brigata di combattenti
internazionalisti messicani e
statunitensi. Nel frattempo mio nonno
aveva fondato un'università popolare,
finalizzata soprattutto a formare dei
buoni grafici e stampatori. E' grazie a
lui e a tío Pepe, che ho imparato ad
amare Salgari. Nel loro circolo anarchico
credo si siano tenute le più approfondite
e intelligenti letture di Salgari a cui
abbia mai assistito." I primi passi
da scrittore li ha mossi al liceo di
Santiago, dove pubblicò qualche poesia
sul giornalino dell'istituto. Ma decise
subito di mettersi in proprio, scrivendo e
ciclostilando racconti pornografici che
poi vendeva ai compagni di scuola.
"Quelli sono stati i primi soldi che
mi sono guadagnato con il mestiere di
narratore. Sono certo di aver contribuito
non poco all'equilibrio ormonale dei miei
compagni di liceo..." Di lì a poco,
si sarebbe dedicato a ben altro genere di
narrativa. Nel 1964 entrò nella Gioventù
comunista cilena, e i suoi racconti e
poesie divennero celebri nelle riunioni
sindacali, in scioperi e manifestazioni.
Gli scrittori seri lo snobbarono,
per poi attaccarlo con disprezzo. Ci
rimasero molto male quando Luis, nel 1969,
vinse il Premio Casa de Las Américas con
la raccolta di racconti Crónicas de Pedro
Nadie. "E' stato un mio amico a
metterli assieme e a mandarli a L'Avana.
Io non ci credevo, ma poi, una volta vinto
il premio... be', gli scrittori cileni
affermati decisero di odiarmi apertamente.
Tutti, meno uno: Francisco Coloane, che mi
difese pubblicamente." Luis aveva
appena vent'anni, e stimava Coloane come
il più grande narratore d'avventure che
mai avesse letto, e che lui mette al pari,
se non al di sopra, di London, Melville e
Conrad. E arrivarono gli anni della
militanza totale, che per molto tempo
avrebbe tenuto Luis lontano dalla macchina
per scrivere. Sempre nel 1969, vinse una
borsa di studio per l'università
Lomonosov di Mosca, l'ateneo della
nomenklatura. "Io seguivo i corsi di
drammaturgia, l'ambiente mi era abbastanza
insopportabile, ma ebbi modo di conoscere
il giro del migliore teatro moscovita,
più o meno clandestino, in
contrapposizione alla noiosissima
'estetica del realismo socialista'. E
frequentavo anche i disegnatori di
fumetti, mia grande passione, tutti
eccellenti, underground ed ebrei. Peccato
che, solo quattro mesi dopo, mi avrebbero
espulso per 'atteggiamenti contrari alla
morale proletaria'." Luis scuote la
testa, fingendo rammarico prima di
aggiungere, con un sorriso di candore:
"Il fatto è che... mi hanno beccato
a letto con la professoressa di
letteratura slava. Che per mia disgrazia
era moglie del decano dell'Istituto
ricerche marxiste... Scoppiò proprio un
bel casino. Espulso dall'Unione Sovietica,
torno in Cile e vengo espulso anche dalla
Gioventù comunista. Litigai pure con mio
padre, militante di ferro, e così me ne
andai di casa. Tre espulsioni nel giro di
tre settimane." Il rigido Partito
comunista cileno andava già stretto a
Luis, perché al pari di altri partiti
gemelli latinoamericani pretendeva di
applicare teoria e prassi sovietiche a
paesi immensamente diversi per cultura,
tradizioni e "filosofia di
vita". A quei tempi era già attivo
il Mir, Movimiento de Izquierda
Revolucionaria, in aperto contrasto con il
Pcc, e l'Eln, Ejército de Liberación
Nacional, a cui decise di aderire Luis.
Due anni prima il Che era morto in
Bolivia, dove però resisteva ancora
"El Chato" Peredo con un gruppo
di guerriglieri; era il fratello di
"Coco" e di "Inti", il
primo caduto con Guevara e il secondo
successivamente assassinato dalla polizia
boliviana. L'Eln cileno decise di mandare
alcuni volontari, e Luis fu tra loro.
"Eravamo in nove, al comando di
Gonzalo Arenas, che in realtà si chiamava
Agustín Carrillo ed era campione
panamericano dei pesi welter. Siamo
rimasti sulle montagne del Teoponte fino
al febbraio del 1970. Io e Sergio Leiva,
il poeta e cantautore, eravamo gli unici
due cileni sopravvissuti..." Leiva
sarebbe morto tre anni dopo, durante il
golpe di Pinochet. Riuscì a entrare
nell'ambasciata argentina, dove si erano
rifugiati alcuni dirigenti politici, per
convincerli a riorganizzare la resistenza.
Vi tornò una seconda volta, con l'intento
di raccogliere tutti i fondi che avevano
con loro, ma i militari all'esterno lo
intercettarono, e lo uccisero. "Dal
settembre del 1970 al giugno del 1971 fu
il periodo della mia vita in cui dormii di
meno. C'erano troppe cose da fare. Mi ero
appena diplomato come regista teatrale, e
con Víctor Jara allestimmo Sei personaggi
in cerca d'autore, di Pirandello. La
militanza era in qualsiasi cosa facessimo,
e nessuno si dedicava a una sola attività
in esclusiva. Per esempio, oltre al
teatro, ai programmi della radio e a
qualche racconto che scrissi, divenni
anche responsabile di una cooperativa
agricola... Ma presto cominciarono a
manifestarsi i primi sintomi di
cannibalismo. Le divisioni politiche si
acuirono, e fra una disputa e l'altra non
ci si rendeva conto che la destra si
preparava a sferrare il colpo
decisivo."
Dal 1973, Luis era entrato nella
struttura militare del Partito socialista,
diventando anche membro della guardia
personale di Allende. Il giorno del colpo
di stato stava sorvegliando un acquedotto
che si temeva potesse essere fatto saltare
con la dinamite. "A poca distanza da
me c'erano interminabili file di camion
fermi per lo sciopero degli
autotrasportatori contro Allende. Gli
autisti ricevevano fondi direttamente
dagli Stati Uniti, e avevano paralizzato
il paese. I soldati, spudoratamente in
divisa, si erano incaricati di custodire i
Tir abbandonati, assieme ai paramilitari
di Patria y Libertad, i fascisti creoli.
Dall'11 al 14 settembre mi unii ad altri
compagni, i pochi che avevano qualche
arma, e tentammo di difendere alcune
fabbriche. Ne ho visti morire a centinaia,
in quei quattro giorni, tutti chiedendosi
dove accidenti fossero le armi promesse
dai dirigenti... Il 15 mi presentai a un
appuntamento cladestino con il
responsabile della struttura militare del
partito, Arnoldo Camú, un uomo coraggioso
ma ingenuo. Mi ordinò di spostarmi a sud,
dove un generale lealista, Carlos Prats,
stava avanzando alla testa di una
divisione antigolpista. Mi misi subito in
viaggio, con mezzi di fortuna, cercando un
'esercito rivoluzionario' che non
esisteva. Il generale Prats non aveva
mosso un dito, era tutta un'invenzione del
Pcc, propagata da quegli irresponsabili
delle trasmissioni per l'America Latina di
Radio Mosca... Per colpa loro, centinaia
di militanti sono morti spostandosi verso
sud, verso il nulla, incontro ai soldati
di Pinochet. Arnoldo fu ucciso a Santiago
due giorni dopo il nostro appuntamento. Io
mi ritrovai nelle vicinanze di Temuco,
solo e praticamente disarmato, e il 5
ottobre, l'indomani del mio compleanno,
fui catturato. Mi portarono alla caserma
del reggimento Tucapel, e per sette mesi
la mia cella è stata un cubicolo largo
cinquanta centimetri e lungo un metro e
mezzo, così basso che dovevo restare
sempre sdraiato, fra la mia orina e quella
dei soldati che venivano a pisciarmi
addosso attraverso una piccola
grata." E' difficile immaginare come
una mente umana possa resistere e non
svanire nella follia, in simili
condizioni. Luis Sepúlveda è certo di
dovere il presente, e il futuro, alle sue
letture: "Ripassavo a memoria tutti i
libri di Conrad, Melville, Stevenson,
Verne, Dumas... E giocavo anche a scacchi,
tenendo gli occhi chiusi". Lo
tiravano fuori per gli interrogatori, e
ancora oggi non è facile, per Luis,
ricordare quei primi sette mesi.
"Quanti ne sono morti, di fianco a
me... Poi c'erano le finte fucilazioni. Me
ne hanno fatte due, e anche la seconda
volta che mi sono trovato davanti al
plotone, ho creduto che i fucili fossero
carichi... Penso di aver assorbito tanta
elettricità che ancora adesso potrei
ricaricare una batteria appoggiandoci le
mani sopra..." Luis sorride, tentando
di rimuovere l'orrore con l'umorismo
macabro. A un certo punto mi fissa in modo
strano, e dice: "Sai che è curioso?
Non avevo mai raccontato tutto questo,
prima. Non con i particolari, e tanto meno
a uno che lo pubblicherà da qualche
parte... Che tu sia il mio dottor Freud,
viejo pendejo?!". E ride forte,
stavolta, una risata liberatoria. Quella
del soprannome che mi ha affibbiato, e che
più o meno suonerebbe "vecchio
stronzo" (o a seconda delle
interpretazioni semantiche, "vecchio
coglione"), è un po' lunga e
complicata da raccontare, comunque, siamo
qui a parlare di lui, e come dice l'oste
di quel film, "Ma questa, è un'altra
storia...". Nel 1976 la sezione
tedesca di Amnesty International aveva
lanciato una serrata campagna per la
liberazione di Sepúlveda, suscitando un
vasto clamore che alla giunta militare
cilena fece saltare i nervi. Non era più
possibile eliminarlo in silenzio, e alla
fine decisero di liberarsi da quei
"calunniatori tedeschi"
concedendo gli arresti domiciliari. Dopo
quasi tre anni, Luis tornava a vedere il
tanto agognato oceano, con molti denti in
meno e cinquanta chili di peso. "Mio
padre gestiva un ristorante, così i
poliziotti incaricati di controllarmi
presero l'abitudine di farsi delle gran
bistecche a sbafo, concedendomi in cambio
il permesso per brevi passeggiate. Tre
mesi dopo ero già passato alla
clandestinità." Andò a Valparaíso,
per organizzare uno sbarco di armi, che si
sarebbe rivelato l'ennesima invenzione dei
dirigenti in esilio. Ma nella città
portuale riscoprì la vecchia passione, il
teatro, improvvisando rappresentazioni
clandestine contro la dittatura. Tempo un
anno, e fu ricatturato. Un giudice
militare gli lesse i capi d'imputazione:
alto tradimento, spionaggio a favore di
una potenza nemica (nientemeno che
l'Urss), offesa ai valori della nazione,
associazione illecita, detenzione di armi.
Condanna: ergastolo. "Sembra una
barzelletta, considerando i metodi spicci
della dittatura, ma nel mio caso c'era la
facoltà di appellarsi. Lo feci. Mi
diedero solo ventotto anni." Amnesty
International tornò all'attacco. E nel
frattempo, era stato emanato il famoso
decreto 504, che permetteva in alcuni casi
specifici di traformare la pena in esilio,
una legge approvata con l'unico intento di
evitare l'esplosione delle carceri,
sovraffollate oltre ogni limite
immaginabile. "Il 17 luglio del 1977
mi portarono all'aeroporto di Santiago.
Non mi permisero di abbracciare i miei,
che potei salutare da dietro una vetrata.
Fu l'ultima volta che vidi mio padre,
morì due anni dopo. prima di caricarmi
sull'aereo, i militari si accomiatarono
dandomi una discreta scarica di calci.
Avevo in tasca un visto per la Svezia,
dove mi aspettava un posto da professore
di drammaturgia presso l'università di
Uppsala. Ma non mi sentivo ancora disposto
ad allontanarmi così tanto da tutto...
Allo scalo di Buenos Aires non ripresi
nessun aereo, e rimasi in Argentina. Non
per molto, perché in quel periodo la
gente scompariva a grappoli, e certi amici
fecero una colletta per mandarmi in
Uruguay. Neanche lì, per quelli come me
tirava una buona aria, così passai in
Brasile, a San Paolo, dove lavorai a un
allestimento di Madre Coraggio di Brecht.
Alla fine, visto che neppure il governo
brasiliano mi dimostrava troppa simpatia,
decisi di tornare al mio grande amore, il
Pacifico. Attraversai il Paraguay, il nord
dell'Argentina, la Bolivia, il Perù, e
finalmente in Ecuador, a Quito." E
qui Luis conobbe un mondo che tanta
influenza avrebbe avuto nei suoi destini
di scrittore, oltre che di militante
totale ed estremo in favore di una natura
saccheggiata. Per sette mesi visse nella
selva amazzonica con gli indios shuar, di
cui ha imparato la lingua e il rispetto
per i delicati equilibri della Madre
Terra. "Sette mesi in cui ho scoperto
l'essenza della vera libertà, il
comunismo utopico dal vivo e in
diretta." Da quell'esperienza, anni
più tardi, avrebbe tratto il suo libro di
maggior successo internazionale, Il
vecchio che leggeva romanzi d'amore. Al
pari del protagonista, José Antonio
Bolívar, Luis era accettato dagli shuar,
ma non sarebbe mai potuto diventare uno di
loro, né restare per sempre nella selva.
Era l'inizio del 1979, e dal Nicaragua
arrivava un richiamo irresistibile.
"In Nicaragua le danze erano al
culmine, e la musica mi suonava bene,
nelle orecchie..." Dopo le gravi
perdite subite nell'offensiva di aprile, i
sandinisti decisero di accettare nelle
loro file alcune centinaia di esuli cileni
che avevano chiesto di unirsi alla guerra
di liberazione. "Entrai in Nicaragua
nel maggio del 1979, come membro della
brigata internazionale Simón Bolívar.
Combattevamo nel fronte sud, agli ordini
di Edén Pastora, uno che prima faceva il
cacciatore di squali, tutto coraggio e
zero in coscienza politica. Curioso che
proprio lui si facesse chiamare Comandante
Zero... Avanzammo fino alla costa
atlantica, e partecipammo alla battaglia
di Bluefields. Più della metà dei
volontari cileni rimase in quegli
acquitrini, quasi tutti senza una tomba e
neppure un nome da ricordare. Poi abbiamo
puntato sulla capitale, e noi della Simón
Bolívar siamo entrati a Managua con le
avanguardie sandiniste. Era il 19 luglio,
l'inizio di un sogno..." L'alba
sarebbe arrivata presto, a illuminare la
marea di problemi spesso insormontabili.
L'entusiasmo non poteva bastare a tutto,
in quel piccolo angolo del "cortile
di casa" che Washington aveva sempre
usato come allevamento di squali. E a
questo, si aggiunsero anche i saputelli
venuti dall'Est... "Lavoravo nella
redazione del quotidiano 'Barricada', mi
avevano dato persino la nazionalità
nicaraguense, quando a un certo punto
arrivarono dei giovincelli cileni e
argentini, educati nelle accademie della
RDT e della Bulgaria, con l'intento di
'depurare dalle ideologie fuorvianti'
quella che era stata la brigata Simón
Bolívar. Il Pc cileno mi aveva messo
nella lista nera dei 'deviazionisti
anarchico-trotzkisti'... E mi hanno
denunciato come elemento pericoloso,
fermato e interrogato. Mentre mi
accusavano di essere un 'avventuriero',
senza sapere di farmi un complimento,
entrò nella stanza il comandante Bayardo
Arce, che chiese sorpreso cosa diavolo
stesse succedendo. Gli risposi: 'Dovresti
essere tu a spiegarlo a me'. Bayardo
scatenò un putiferio, li coprì di
insulti, e ovviamente venni rilasciato
subito con tante scuse. Ma qualcosa si era
spezzato, non con i sandinisti, certo,
però non sopportavo di vedere in giro
quel branco di imbecilli che avevano
scaldato sedie mentre gli altri morivano e
adesso se ne venivano a 'insegnare' come
si costruiva il socialismo... Dopo un
triste saluto a Tomás Borge, lasciai il
Nicaragua." Più tardi Julio
Cortázar intervenne pubblicamente in
difesa di Luis Sepúlveda, con sprezzante
veemenza contro i rimestatori del Pc
cileno in esilio che continuavano a
seminare veleni. Una breve sosta in
Ecuador, e quindi Luis giunse in Europa,
ad Amburgo. "Ero stanco, e con una
gran voglia di starmene in pace, anche per
riprendere a scrivere." Due anni più
tard, un mattino, passeggiando nel porto
notò una barca che si chiamava Sirius;
era uno dei vari equipaggi di Greenpeace,
che si apprestava a salpare per una
scorribanda di "guerriglia
ecologista". Luis parlò con un
neozelandese che era a bordo, e mezz'ora
dopo riempiva la scheda di imbarco. Così
divenne uno dei più noti corrispondenti
della stampa tedesca sulle imprese di
Greenpeace. "Per quattro anni ho
attraversato praticamente tutti i mari.
Nell'estremo sud, tra la Patagonia e la
Terra del Fuoco, ostacolavamo le
baleniere, mentre nei mari nordici
sbarravamo il passo alle navi nucleari,
quasi sempre statunitensi, che
trasportavano armi nucleari o scorie
radioattive. Era un lavoro da formichine.
Con i nostri piccoli Zodiac incrociavamo
davanti alla prua costringendoli a fermare
le macchine: se una nave si arresta in
alto mare, i costi diventano
insostenibili, e piuttosto di procedere a
singhiozzo preferiscono tornare indietro,
sperando di farla franca la prossima
volta. Prima, però, ci riempivano di
immondizie, a bidonate, e ci bombardavano
con getti d'acqua: quando ci sono venti
gradi sotto zero, l'acqua è mortalmente
efficace. E se cadi in mare, bastano tre
minuti per morire congelati, in meno di
duecento secondi il cuore si ferma. Ma
abbiamo ottenuto molte vittorie, che
restano tra i migliori ricordi della mia
vita. Ricordi anche divertenti, basti
pensare che un equipaggio è formato da
persone spesso diversissime per abitudini
ed estrazione sociale. Lo spazio a bordo
è molto limitato, la cosa principale è
il tip-top, cioè tenere ogni cosa 'a
punto', nel massimo ordine, per non creare
ostacoli agli altri. Immagina un ragazzo
di buona famiglia, come ce ne sono molti
negli equipaggi di Greenpeace, che non si
è mai fatto il letto da solo né lavato i
piatti, costretto a vivere per mesi in una
cabina piccola come una cella
d'isolamento... Eppure, mai un vero
problema, difficoltà sì, e tante, ma
ogni volta risolte con la migliore
volontà collettiva. Tra i ricordi tristi,
ce n'è uno che resta sempre presente: la
morte di un compagno davanti ai nostri
occhi senza essere riusciti a fare nulla
per salvarlo. Navigavamo nel Mare Artico,
a caccia di scorie radioattive, quando le
macchine sono andate in avaria. Il
ghiaccio ha preso a ricoprirci con
rapidità impressionante, la coperta si è
trasformata in un blocco unico, e lo scafo
ha cominciato a inclinarsi. Quel ragazzo
neozelandese stava misurando la
profondità, e l'avaria lo ha colto
all'esterno, in coperta. Cercando di
rientrare è scivolato ed è caduto in
acqua. Noi abbiamo tentato subito di
soccorrerlo, ma il ghiaccio aveva già
saldato i boccaporti, neppure ci è stato
possibile rompere un vetro in tempo. E'
morto lì, a pochi metri, assiderato dopo
un'agonia durata pochi minuti, per noi
interminabili, e solo quarantott'ore più
tardi è arrivata una nave norvegese che
aveva captato l'sos..." Nel 1988 si
è concesso una pausa, e ha scritto il
libro che lo avrebbe portato in vetta alle
classifiche di mezza Europa, a cui si è
aggiunto Il mondo alla fine del mondo,
romanzo teso e dolente sullo scempio del
pianeta in nome del profitto, ambientato
in buona parte della terra che più ama,
la Patagonia. Un'ambientazione che in
parte ricorre anche in Un nome da torero,
a cui sono seguiti i racconti di viaggio
Patagonia Express, dove ricorda l'amicizia
con Bruce Chatwin. Si erano conosciuti a
un appuntamento al caffè Zurich di
Barcellona. Seduti al loro tavolo, c'erano
i fantasmi di Butch Cassidy e Sundance
Kid. Erano stati i due rapinatori di
banche a farli incontrare. Gli scrittori
avevano un progetto che li riguardava:
trovare le loro tombe - perché furono
uccisi in Patagonia e non in Bolivia -
ricostruire gli ultimi giorni di vita, e
raccontarli in un romanzo a quattro mani.
Ma il cileno errante non poteva ancora
partire, il suo nome figurava sempre nella
lista nera di Pinochet e il consolato non
gli dava il passaporto. Dopo nove anni,
finalmente Sepúlveda ottenne quello
stupido documento, ma ormai i fantasmi
erano diventati tre: Bruce aveva
intrapreso il più lungo dei suoi
innumerevoli viaggi. In quel caffè di
Barcellona, l'inglese aveva regalato al
cileno uno dei suoi preziosi taccuini
rilegati a mano. Su quei fogli, Luis
avrebbe preso gli appunti per scrivere
Patagonia Express. I premi letterari che
ha vinto, Luis non li vuole contare. Uno,
però, tiene sempre a ricordarlo, perché
rappresenta il legame profondo con un
amico fraterno che è stato assassinato.
Questa è la dedica all'inizio de Il
vecchio che leggeva romanzi d'amore:
"Mentre questo romanzo veniva letto,
a Oviedo, dai membri della giuria che
pochi giorni dopo gli avrebbe assegnato il
Premio Tigre Juan, a molte migliaia di
chilometri di distanza e di ignominia, una
banda di assassini armati - pagati da
criminali ancora peggiori, che hanno abiti
ben tagliati, unghie curate e dicono di
agire in nome del 'progresso' - uccideva
uno dei più illustri difensori
dell'Amazzonia, una delle figure più
rilevanti e coerenti del Movimento
Ecologico Universale. Questo romanzo non
potrà più arrivare tra le tue mani,
Chico Mendes, caro amico di poche parole e
molti fatti, ma il premio è anche tuo, e
di tutti coloro che continueranno il tuo
cammino, il nostro cammino collettivo in
difesa di questo mondo, l'unico che
abbiamo."
Tratto da: Pino Cacucci, Camminando.
Incontri di un viandante, Milano, 1996-
Feltrinelli Editore
http://www.escritores.cl/sepulveda/index.htm
commenti interessanti sull'autore
|