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 Luis Sepulveda

   
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OPERE

IL VECCHIO CHE LEGGEVA ROMANZI D'AMORE
STORIA DI UNA GABBIANELLA E DEL GATTO CHE LE INSEGNO A VOLARE
IL MONDO ALLA FINE DEL MONDO
LE ROSE DI ACATAMA

ARTICOLI

VENTICINQUE ANNI DOPO
IL TIRANNO E L'OMERTA
IL CILENO ERRANTE

 

 

 

 

 

 

 

 

Da citare fra i più recenti prosatori cileni è Luis Sepúlveda, (n. 1949) autore di romanzi di impegno ecologista, cantore appassionato della natura e dell'umanità del "mondo alla fine del mondo". Il suo nome è legato soprattutto alla Patagonia, ma nei suoi libri ha raccontato anche l'anima rarefatta e spaziosa dell'altro Cile, altrattanto remoto ma meno conosciuto: il Norte Grande degli altipiani, del deserto e dei minatori.. Anch'egli colpito dalle torture del regime e dall'esilio, stabilitosi in Europa non ha smesso l'impegno attivo e ha raggiunto la notorietà internazionale con Il vecchio che leggeva romanzi d'amore (1989), storia della sfida mortale tra un uomo in apparenza inoffensivo e un "tigrillo". Sono seguiti: Il mondo alla fine del mondo (1992), Un nome da torero (1993), vicenda di spionaggio tra la Patagonia e la Germania, la frontiera scomparsa (1994) e, nel 1996, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, un libro per ragazzi.

E' autore di numerosi articoli. Ne riportiamo una breve selezione.

 

Il vecchio che leggeva romanzi d'amore

Questo  libro,  pubblicato per la prima volta da Guanda, con la traduzione di Ilide Carmignani, è Diviso in otto capitoli, è un classico romanzo di avventura, ambientato nella foresta Amazzonica. L'autore utilizza un linguaggio piuttosto semplice, a volte fa anche uso di espressioni volgari che, tuttavia, contribuiscono a dare realismo al racconto. Il punto di vista è esterno.
Il protagonista è un vecchio di nome Antonio Josè Bolivar Proaño, colono del villaggio di El Idilio, un villaggio nel mezzo della foresta Amazzonica. Rimasto solo dopo la morte di sua moglie visse a lungo nella tribù degli indigeni Shuar, dai quali imparò l'arte della caccia e uno stile di vita legato al rispetto della natura.Come suo antagonista troviamo invece il sindaco di El Idilio.

Proprio perché Antonio è in grado di comprendere i ritmi della foresta viene scelto per andare ad uccidere la femmina di tigrillos,che, da qualche tempo, sta sterminando numerosi gringos a causa dell'uccisione dei suoi piccoli.   Antonio, aiutato dal dentista Rubicundo Loachamìn, scopre intanto la sua passione per i libri, specialmente per quelli d'amore. Pentitosi per aver ucciso il tigrillos torna alla sua povera capanna e ai suoi romanzi d'amore. Alla storia narrata in questo libro è strettamente legato il tema dello scempio che oggi si sta facendo del nostro patrimonio forestale mondiale.


Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare

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Questo racconto per ragazzi ha le caratteristiche di una favola moderna perché fa riflettere molto su alcuni temi vicini al nostro tempo: l’amore per la natura e la sua salvaguardia, l' indignazione per i danni procurati all’ambiente dall’uomo, la solidarietà verso chi proviene da altri Paesi e ha una lingua e una cultura diversa, e la generosità verso chi è in difficoltà.
E' affrontato anche il tema del passaggio dall’adolescenza alla vita adulta.
I gatti sono un po’ come i genitori, quando Fortunata vola, i suoi amici gatti sono orgogliosi per averle fornito i mezzi per conquistare l'indipendenza, anchese un po' tristi perché lei si allontana.
La lettura è molto piacevole perché l’autore fa parlare gli animali con espressioni spiritose e usa molti dialoghi che permettono di capire meglio le vicende e di provare gli stessi sentimenti dei personaggi.  Dal romanzo è stato ricavato un film di animazione italiano che ha avuto molto successo.


Il mondo alla fine del mondo

Il 16 giugno del 1988, provenienza Cile, un inquietante messaggio approda ad Amburgo, stampato dal telefax di un'agenzia giornalistica
legata a Greenpeace e particolarmente impegnata in campo ecologico. Secondo il dispaccio, la nave officina giapponese Nishin Maru, comandata dal capitano Tanifuji, ha subito gravi danni in acque magellaniche; si registra la perdita di diciotto marinai, insieme a un numero imprecisato di feriti. È l'inizio dell'avventura. Il protagonista, un giornalista cileno esule dal suo paese per motivi politici, grazie a febbrili ricerche e ingegnose congetture giunge alla conclusione che il Nishin Maru, ufficialmente demolito a Timor, stava praticando illegalmente, e del tutto impunito, la caccia alle balene nei mari australi. Una giovane attivista di Greenpeace, inoltre, lo mette in contatto telefonico con un misterioso personaggio, il capitano Jorge Nilssen, che di tutta la faccenda sa senz'altro qualcosa in più .. Raccogliendo l'invito di quell'esperto, schivo e generoso marinaio, il nostro ecologista tornerà a navigare sulle rotte della sua giovinezza, fino a scoprire, in un crescendo di suspense, la tremenda, impensabile verità, l'esito fantastico di una vicenda cruda e incalzante.
Chi ha letto ed amato il precedente romanzo di Luis Sepùlveda potrà di nuovo ascoltare, in queste pagine, il grido indignato - ma anche il canto ammaliante - della natura ferita, la protesta contro una cieca follia di cui pure l'uomo rimane vittima. Ma anche qui, come nel Vecchio che leggeva romanzi d'amore, l'urgenza dell'attualità assume i contorni fantastici del mito. Non più il tigrillo, ma cetacei, delfini ed uccelli, altrettanto leggendari e altrettanto braccati; non più la foresta amazzonica, ma i mari insidiosi, le coste frastagliate, il cielo freddo e lattiginoso del "mondo alla fine del mondo ". Questo lembo estremo del pianeta (con le sue distese infinite, le sue navi fantasma, i suoi capitani indomabili) si trasforma simbolicamente, nel luogo dell'apocalisse. Ma può essere, come per il protagonista, l'universo in cui l'uomo ritrova l'unione con le proprie origini, l'armonia con gli elementi e, soprattutto, un anelito indistruttibile alla speranza.


Le rose di Atacama

Il viaggio, il vagabondaggio per il mondo, è qui che si collocano le storie non altrimenti possono essere definite - raccolte in questo libro. Lo scrittore narra le vicende di personaggi anonimi e marginali incontrati per il mondo, uomini e donne che hanno in comune l'aver fatto della propria vita una forma di resistenza. Un amico cileno che ha diretto la rivista Analisis, prima barricata della lotta contro Pinochet. Un cantante che ha partecipato alla Primavera di Praga. Un cameraman olandese ucciso dall'esercito del Salvador. Uomini che non hanno mai sperato di uscire dai margini, ma che per una volta sono affiorati, con le loro storie, dal buio dell'oblio. Come le rose che, in un solo giorno dell'anno, ricoprono il deserto di Atacama. Contenuto Con quest'ultimo libro Luis Sepùlveda riconferma la sua fama di grande narratore, dotato di forte passione e di straordinaria sensibilità per le molteplici espressioni dell'animo umano. Dopo Incontro d'amore in un paese di guerra ePatagonia Express, lo scrittore cileno torna a raccontare intense storie di vita, raccolte nel corso degli anni in varie regioni del mondo. Appartengono a uomini e a donne sconosciuti, accomunati da un'esistenza vissuta con ardore, nella certezza delle proprie convinzioni e spesso pericolosamente al di fuori degli schemi. Eroi di una storia marginale, come la definisce l'autore (e proprio Historia marginales è il titolo originale del libro), "una storia che non verrà mai scritta, - dice - ma non importa, perché ho imparato dagli asturiani che la vita è una serie infinita di piccoli trionfi e di grandi fallimenti". È proprio per sottrarre all'oblio questo patrimonio di esperienze e testimonianze che Sepúlveda decide di mettere per iscritto con il suo stile inconfondibile, ricco di partecipazione, diretto e incisivo ma anche poetico e fiabesco, le vicende di dolore, violenza, sconfitta, impegno politico e onestà intellettuale, gioia, malinconia di Lucas, il Professor Gálvez, i gemelli Duarte, Mister Simpah, Chuchú Vidal, il tenente Lilija Vladimirovna e le sue compagne, i coraggiosi lapponi, gli anonimi cavatori di marmo toscani, i fieri abitanti delle Asturie e molti altri. Tutti finalmente e per una volta alla ribalta. Come le rose del deserto di Atacama che sono sempre lì sotto la terra salata ma fioriscono solamente una volta l'anno. E "a mezzogiorno il sole le avrà già calcinate".


ARTICOLI DI LUIS SEPULVEDA

VENTICINQUE ANNI DOPO

"Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi" dice un verso di Pablo Neruda, ed è vero, dannatamente, dolorosamente e gloriosamente vero. Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi, e quando dico noi penso a tanti che non ci sono più, che sono morti nel corso dei primi combattimenti, o in carcere, o in esilio, o negli scontri armati che sono proseguiti fino al 1989. Altri sono scomparsi in Nicaragua, nel Salvador, in Angola, in Mozambico, tra le file del Fronte Polisario, sempre combattendo, perché gli uomini e le donne che non hanno mai dimenticato l'esempio di Salvador Allende, del compagno Presidente, hanno portato nel mondo la sua dignità e il suo eroismo.

Allende. Che statura ha il coraggio? Salvador Allende era un metro e settanta, per i cileni era bassino, un "tappetto", ma allo stesso tempo era dotato di una grande dignità che lo faceva apparire più alto. Era come i galli da combattimento: piccoli, ma pronti a combattere sino alla fine.

Allende. Accanto alla mia scrivania ho una foto che lo ritrae la sera del 4 settembre 1970, la sera del trionfo elettorale della sinistra che aprì le porte ai sogni e alle speranze di cui erano protagonisti soprattutto i giovani. Quella sera parlò dalla casa della Federazione degli Studenti Cileni, perché sapeva che quei giovani erano - eravamo - pronti a dare tutto per quella rivoluzione che iniziava assieme alla primavera.

Con toni sobri ci parlò delle grandi sfide che avevamo davanti, ci predisse tempi duri, ci invitò a dimenticare la parola riposo perché dovevamo costruire una società migliore, più giusta e umana, più felice e generosa. E pretese che, per quanto potesse essere duro il compito della rivoluzione, non smettessimo mai di essere giovani, critici, audaci, fantasiosi, irriverenti, perché il grande capitale della rivoluzione cilena non era una teoria politica, ma la volontà di realizzare i cambiamenti che dovevano condurci alla nostra idea di socialismo. Concluse dicendo che da quel momento in poi con lui dovevamo dimenticare il protocollo. Per noi sarebbe sempre stato il compagno Allende o, a nostra scelta, il compagno Presidente.

Allende. La prima volta che mi trovai al suo fianco fu nel marzo del 1970, durante la campagna elettorale di Unidad Popular. Facevo parte del servizio di sicurezza che doveva accompagnarlo a Rancagua, per parlare davanti ai minatori del rame e ai contadini. Ricordo che una mezz'ora prima del discorso Allende si accorse di avere la camicia molto sporca per colpa della polvere, e purtroppo il suo segretario aveva dimenticato di mettergli un cambio in valigia. Mi offrii di andargli a comprare una camicia bianca, e assieme a sua figlia Beatriz, la mia cara "Tati", ci lanciammo in cerca di un negozio di abbigliamento. A quell'ora i negozi di Rancagua erano chiusi, ma avemmo fortuna e ne trovammo uno specializzato in uniformi per camerieri. "Che taglia ha il compagno Allende?" chiese il commesso. Guardai Tati e lei guardò me. "Io ho la 42, suppongo che lui avrà due taglie meno" dissi pensando che Allende era più basso e meno corpulento. Uscimmo da lì con una camicia taglia 38. Gliela portammo e dopo pochi minuti Allende mi chiamò:

"Compagno, sa davanti a chi devo parlare?"

"Ai minatori del rame e ai contadini, compagno."

"Esatto. E lei crede che potrò farlo indossando questa camicia da prima comunione?"

Poco dopo vidi che l'aveva messa e che ci scoppiava dentro, ma quella sera, con una camicia stretta, Allende pronunciò uno dei migliori discorsi della sua campagna elettorale.

Nel giugno del 1970 facevo parte del servizio di sicurezza che lo accompagnò nella sua terra patagonica, perché Allende era senatore delle province di Chiloé, Aisén e Magellano, zone da sempre di sinistra. Il primo Partito Socialista Cileno nacque proprio in Patagonia, nel 1906, e quindi Allende era come a casa.

Per passare da Puerto Montt a Balmaceda ci imbarcammo sul Pappagallo col singhiozzo, il leggendario DC3 di un leggendario pilota socialista, il capitano Esquella. Sull'aereo più che un vago sentore di pecora c'era una puzza da mozzare il fiato, perché nelle settimane precedenti Esquella aveva trasportato migliaia di ovini. Durante il volo Allende si informò sulle razze da lana, sul prezzo della carne e della lana, sullo stato del mare più ricco di crostacei, ed era l'unico a cui sembrava non importare il tanfo. Mentre tutti facevamo grandi smorfie e respiravamo con la bocca, Allende si bevve qualche bicchierino di Chivas Regal e ci offrì la bottiglia chiedendoci se volevamo un po' di quella medicina contro il mal d'aereo.

Atterrammo a mezzogiorno, e mentre camminavamo sulla pista verso l'aeroporto, mi prese sottobraccio e mi domandò sottovoce: "Senta, compagno, anche a lei è venuta voglia di un po' di foraggio?"

Allende. Nell'aprile del 1972, dopo un breve periodo nel GAP, il Gruppo di Amici Personali incaricati della sicurezza dei dirigenti, fui nominato commissario di un'industria agricola. Il "Diario Oficial", in un decreto firmato da Allende, mi definiva un rappresentante del compagno Presidente e dei compagni Ministri del Lavoro e dell'Agricoltura. Io non volevo occuparmi di un'industria agricola, volevo restare nel servizio di sicurezza, e lo dissi a Salvador Allende. Quella fu l'unica volta che rimasi solo con lui per mezz'ora. Sapeva molte cose di me, per esempio che ero uno scrittore, anche se scrivevo poco, che dormivo appena tre ore, e questo "glielo dico come medico, compagno, non va bene", che mio padre aveva un ristorante eppure non lo aveva mai invitato a mangiare, "le sembra giusto, compagno?". Infine mi parlò della necessità della disciplina nei processi rivoluzionari. "E poi io la conosco, compagno, e so che se un giorno la situazione si facesse critica e si dovessero impugnare le armi, lei sarebbe al mio fianco senza bisogno di chiamarla."

L'11 settembre 1973 ero responsabile della sicurezza dell'impianto dell'acqua potabile di Vizcachas, che riforniva del prezioso liquido la città di Santiago. Al mio fianco c'erano sette compagni esemplari: "Tuco" di vent'anni, "Mateo" di ventitré, "Pepe il negro" di ventuno, "Quintana il corvo" di trenta, "Magaly" di ventidue, "Menassin il turco" di venticinque, e "Carlitos Paz" di ventotto. Io avevo ventitré anni.

Erano ormai molte notti che non dormivamo per tenere a bada, con il nostro misero armamento, i fascisti di Patria y Libertad che, con la complicità dell'esercito e della polizia, avevano tentato varie volte di far saltare in aria l'impianto dell'acqua potabile. Tutti i miei compagni avevano un nome e un cognome, ma io li ricordo con i loro soprannomi politici, con i loro nomi di combattimento, perché è così che si chiamavano quando quel giorno terribile, alle nove del mattino, dopo una breve discussione, decidemmo di dirigerci al centro di Santiago, al palazzo della Moneda, per essere al fianco di Allende mentre guidava la Battaglia del Cile.

Non ci arrivammo mai. Durante gli scontri nel cordone industriale Vicuña Mackenna sentimmo l'ultimo discorso del compagno Presidente. Accanto a lui, i compagni del GAP sparavano all'impazzata coi loro kalashnikov per proteggere la sua voce - che infondeva speranza-, e gli echi del combattimento sottolineavano le sue parole ferme e decise. "Vi parla il compagno Presidente, questa sarà l'ultima volta che udirete il timbro sereno della mia voce..."

Solo "Magaly", "Tuco" e io sopravvivemmo a quella giornata. "Tuco" è morto nel 1986 nel Salvador, combattendo a fianco del Fronte di Liberazione Farabundo Martí. No. Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi.

Allende. Venticinque anni dopo i miei figli guardano la sua fotografia e mi chiedono: chi è quell'uomo?, perché gli vuoi così tanto bene?, e io gliene parlo, dico loro che era un medico, un amico, un uomo buono, e che amava il gelato al cocco, il Chivas Regal, il vino rosso, le giacche di tweed, le cravatte italiane, le scarpe inglesi, le belle donne, le commedie musicali, le empanadas, le grigliate all'aria aperta, i cani e i gatti, i romanzi gialli, i poeti spagnoli, i cantautori cileni, gli spazi sterminati della Patagonia.

Ho accompagnato quell'uomo nei mille giorni più belli e intensi della mia vita, spiego loro, si chiama Salvador Allende ed è morto lottando perché io possa guardarvi in faccia serenamente, senza vergogna, perché migliaia di cileni possano guardare e e dir loro che, per quanto possa essere dura la vita, arriverà il giorno "in cui si apriranno gli ampi viali dove cammina l'uomo libero".

No. Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi. Ma l'esempio di Salvador Allende, del compagno Presidente, ci fa restare saldi sulla nostra strada.

Allende. Venticinque anni dopo la sua figura si ingigantisce nel ricordo, come si ingigantisce il mio orgoglio di essere stato uno dei suoi uomini.

¡Venceremos!, caro compagno Salvador Allende.

Settembre 1998

Traduzione di Ilide Carmignani.


 

La Repubblica, 3 marzo 2000

Il tiranno e l'omertà

Mentre scrivo queste righe un Boeing 707 delle forze aeree cilene si allontana dall'Europa con un carico di spazzatura di ritorno al proprio paese d'origine. La giustizia universale è stata, una volta ancora, violata, burlata, per ragioni che conosceremo con certezza solo quando, tra molti anni, Jack Straw scriverà le proprie memorie giustificando la liberazione di un tiranno.

Una volta ancora le vittime constatano che il diritto e la legalità stanno sempre dalla parte dei potenti, e che l'etica viene calpestata in nome della logica di mercato. Nessuno che leggesse il comunicato dei medici inglesi che hanno visitato Pinochet crederebbe che lo stato della sua salute mentale sia tanto critico da poter eludere l' azione della giustizia.

Nessuno può accettare che obbligare Pinochet a rispondere alle accuse del giudice Baltasar Garzon sarebbe stato un atto di crudeltà. E ancora, nessuno può credere nelle deboli giustificazioni del governo spagnolo, che ha fatto tutto il possibile per impedire alla giustizia spagnola di giudicare un assassino, carnefice, tra le molte vittime, anche di cittadini spagnoli.

L'annuncio di Straw è stato la conferma di una farsa tramata nelle cloache del potere. Il commercio di armi, il potere monopolizzatore di certe aziende spagnole che hanno investito in Cile, e la debolezza politica del governo cileno - di quello in uscita e di quello entrante - sono i responsabili di questa macabra irresponsabilità capace di perdonare un criminale e di farsi beffa delle vittime.

Resta solo da vedere se in Cile ci sarà chi oserà affrontare il tiranno che ritorna in gloria e maestà per dirgli: lei è pazzo, un'equipe di medici inglesi ha diagnosticato la sua demenza e al senato non c'è posto per un soggetto che non sia in possesso delle proprie facoltà mentali.

Non accadrà. Lo dico mentre desidero ferventemente di sbagliarmi, mentre spero che il governo dia un segnale di decenza e di buon senso, ma dato che conosco la realtà cilena, so che non sarà così, e che Pinochet manterrà la propria immunità di senatore a vita, anzi: chi ha attentato ai valori costituzionali verrà dichiarato ex presidente della repubblica, in modo che gli venga conferita maggiore immunità, o impunità, che in questo caso è lo stesso.

Su quel Boeing 707 delle forze aeree cilene, un mucchio di spazzatura medita la propria vendetta. Posso immaginare che in questo momento i dirigenti della destra cilena, tra i quali Joaquin Lavin, stiano tremando perché il satrapo gli chiederà il conto per averlo abbandonato nella recente campagna elettorale. I militari che, grazie alla coraggiosa azione di un giudice cileno, Guzman, sono in prigione, anche loro tremano. Pinochet agli arresti in Inghilterra o in Spagna rappresentava per loro la possibilità di lavarsi delle colpe dichiarando di aver obbedito ai suoi ordini quando torturavano, sequestravano, assassinavano migliaia di cittadini. Adesso, con il tiranno di nuovo in Cile, le loro vite non valgono un soldo, e loro lo sanno. I generali Arellano Stark o Manuel Contreras, per omertà della mafia militare, taceranno, e non diranno mai dove si trovano i nostri desaparecidos.

Indossando abiti civili, quel mucchio di spazzatura che è Pinochet vola verso il Cile, e ci rimane solo da vedere chi lo riceverà al suo arrivo, chi, in nome di chi e di quali sporchi interessi, lo saluterà rendendogli onore.

Povero Cile, mia patria sempre più lontana, diventata un deposito di immondizie.

Per gentile concessione del "DIARIO DELLA SETTIMANA".


Il cileno errante

"Quando sono nato ero già un fuggitivo, un latitante. Mia madre era ancora minorenne, e mio padre, di pochi anni più grande, era stato denunciato dal 'suocero'. Così sono stato partorito in un albergo, durante una pausa forzata di quella fuga d'amore con tanto di mandato di cattura. Sarà anche per questo, che ho sempre avuto la sensazione di non essere di alcun posto..."

Luis Sepúlveda, cileno errante, scrittore tradotto in almeno una quindicina di paesi, si è da poco trasferito in una casetta ai margini della Foresta Nera, pur conservando la vaga residenza "tra Amburgo e Parigi", come si legge sulle copertine dei suoi libri. Oggi potrebbe rientrare in Cile, che lasciò nel 1977 per l'esilio, ma non ne sente alcun bisogno, e se l'intervistatore di turno gli chiede: "Quando pensa di tornarci?", lui risponde immancabilmente: "Perché mi volete rispedire lì, vi ho già stufato?". Il concetto di "patria" non ha mai sfiorato Luis. Chissà se c'entrano i cromosomi. Il nonno paterno, esatto contrario del "delatore" materno, era un anarchico andaluso condannato a morte in Spagna per attività sovversive. Evase dal carcere di Almería, primi anni del secolo, e raggiunse le Filippine, da dove passò in Ecuador, e lì ricominciò da capo: fondò un gruppo anarchico, ne combinò di tutti i colori, e si buscò un'altra condanna. Rievase, ovviamente. Dal carcere di Guayaquil fuggì direttamente in Cile, fermandosi nel porto di Iquique. "Era il 1918, e laggiù c'era il meglio del movimento libertario europeo, tutti militanti anarchici sfuggiti alle galere e ai boia dei rispettivi paesi di origine, quindi mio nonno si ritrovò a cuocere nella propria salsa... Si chiamava Gerardo Sepúlveda Tapia, ma tutti lo conoscevano con il nome di battaglia, il compagno Ricardo Blanco. Stare con lui, fu per me la miglior scuola di vita possibile. Da Iquique si spostò a Valparaíso. Non riusciva mai a stare per troppo tempo nello stesso posto, e lo capisco benissimo... Laggiù trovò l'amore della sua vita, mia nonna Susana, colta, un po' borghese, addirittura cattolica... Credo che il compagno Ricardo Blanco le avesse perdonato tali difetti soprattutto per due motivi: era bellissima, e parlava cinque lingue. Io sono praticamente cresciuto con loro, e con lo zio Pepe, altro anarchico furioso, che nel 1937 se ne partì per la Spagna con una brigata di combattenti internazionalisti messicani e statunitensi. Nel frattempo mio nonno aveva fondato un'università popolare, finalizzata soprattutto a formare dei buoni grafici e stampatori. E' grazie a lui e a tío Pepe, che ho imparato ad amare Salgari. Nel loro circolo anarchico credo si siano tenute le più approfondite e intelligenti letture di Salgari a cui abbia mai assistito." I primi passi da scrittore li ha mossi al liceo di Santiago, dove pubblicò qualche poesia sul giornalino dell'istituto. Ma decise subito di mettersi in proprio, scrivendo e ciclostilando racconti pornografici che poi vendeva ai compagni di scuola. "Quelli sono stati i primi soldi che mi sono guadagnato con il mestiere di narratore. Sono certo di aver contribuito non poco all'equilibrio ormonale dei miei compagni di liceo..." Di lì a poco, si sarebbe dedicato a ben altro genere di narrativa. Nel 1964 entrò nella Gioventù comunista cilena, e i suoi racconti e poesie divennero celebri nelle riunioni sindacali, in scioperi e manifestazioni. Gli scrittori seri  lo snobbarono, per poi attaccarlo con disprezzo. Ci rimasero molto male quando Luis, nel 1969, vinse il Premio Casa de Las Américas con la raccolta di racconti Crónicas de Pedro Nadie. "E' stato un mio amico a metterli assieme e a mandarli a L'Avana. Io non ci credevo, ma poi, una volta vinto il premio... be', gli scrittori cileni affermati decisero di odiarmi apertamente. Tutti, meno uno: Francisco Coloane, che mi difese pubblicamente." Luis aveva appena vent'anni, e stimava Coloane come il più grande narratore d'avventure che mai avesse letto, e che lui mette al pari, se non al di sopra, di London, Melville e Conrad. E arrivarono gli anni della militanza totale, che per molto tempo avrebbe tenuto Luis lontano dalla macchina per scrivere. Sempre nel 1969, vinse una borsa di studio per l'università Lomonosov di Mosca, l'ateneo della nomenklatura. "Io seguivo i corsi di drammaturgia, l'ambiente mi era abbastanza insopportabile, ma ebbi modo di conoscere il giro del migliore teatro moscovita, più o meno clandestino, in contrapposizione alla noiosissima 'estetica del realismo socialista'. E frequentavo anche i disegnatori di fumetti, mia grande passione, tutti eccellenti, underground ed ebrei. Peccato che, solo quattro mesi dopo, mi avrebbero espulso per 'atteggiamenti contrari alla morale proletaria'." Luis scuote la testa, fingendo rammarico prima di aggiungere, con un sorriso di candore: "Il fatto è che... mi hanno beccato a letto con la professoressa di letteratura slava. Che per mia disgrazia era moglie del decano dell'Istituto ricerche marxiste... Scoppiò proprio un bel casino. Espulso dall'Unione Sovietica, torno in Cile e vengo espulso anche dalla Gioventù comunista. Litigai pure con mio padre, militante di ferro, e così me ne andai di casa. Tre espulsioni nel giro di tre settimane." Il rigido Partito comunista cileno andava già stretto a Luis, perché al pari di altri partiti gemelli latinoamericani pretendeva di applicare teoria e prassi sovietiche a paesi immensamente diversi per cultura, tradizioni e "filosofia di vita". A quei tempi era già attivo il Mir, Movimiento de Izquierda Revolucionaria, in aperto contrasto con il Pcc, e l'Eln, Ejército de Liberación Nacional, a cui decise di aderire Luis. Due anni prima  il Che era morto in Bolivia, dove però resisteva ancora "El Chato" Peredo con un gruppo di guerriglieri; era il fratello di "Coco" e di "Inti", il primo caduto con Guevara e il secondo successivamente assassinato dalla polizia boliviana. L'Eln cileno decise di mandare alcuni volontari, e Luis fu tra loro. "Eravamo in nove, al comando di Gonzalo Arenas, che in realtà si chiamava Agustín Carrillo ed era campione panamericano dei pesi welter. Siamo rimasti sulle montagne del Teoponte fino al febbraio del 1970. Io e Sergio Leiva, il poeta e cantautore, eravamo gli unici due cileni sopravvissuti..." Leiva sarebbe morto tre anni dopo, durante il golpe di Pinochet. Riuscì a entrare nell'ambasciata argentina, dove si erano rifugiati alcuni dirigenti politici, per convincerli a riorganizzare la resistenza. Vi tornò una seconda volta, con l'intento di raccogliere tutti i fondi che avevano con loro, ma i militari all'esterno lo intercettarono, e lo uccisero. "Dal settembre del 1970 al giugno del 1971 fu il periodo della mia vita in cui dormii di meno. C'erano troppe cose da fare. Mi ero appena diplomato come regista teatrale, e con Víctor Jara allestimmo Sei personaggi in cerca d'autore, di Pirandello. La militanza era in qualsiasi cosa facessimo, e nessuno si dedicava a una sola attività in esclusiva. Per esempio, oltre al teatro, ai programmi della radio e a qualche racconto che scrissi, divenni anche responsabile di una cooperativa agricola... Ma presto cominciarono a manifestarsi i primi sintomi di cannibalismo. Le divisioni politiche si acuirono, e fra una disputa e l'altra non ci si rendeva conto che la destra si preparava a sferrare il colpo decisivo."

 

Dal 1973, Luis era entrato nella struttura militare del Partito socialista, diventando anche membro della guardia personale di Allende. Il giorno del colpo di stato stava sorvegliando un acquedotto che si temeva potesse essere fatto saltare con la dinamite. "A poca distanza da me c'erano interminabili file di camion fermi per lo sciopero degli autotrasportatori contro Allende. Gli autisti ricevevano fondi direttamente dagli Stati Uniti, e avevano paralizzato il paese. I soldati, spudoratamente in divisa, si erano incaricati di custodire i Tir abbandonati, assieme ai paramilitari di Patria y Libertad, i fascisti creoli. Dall'11 al 14 settembre mi unii ad altri compagni, i pochi che avevano qualche arma, e tentammo di difendere alcune fabbriche. Ne ho visti morire a centinaia, in quei quattro giorni, tutti chiedendosi dove accidenti fossero le armi promesse dai dirigenti... Il 15 mi presentai a un appuntamento cladestino con il responsabile della struttura militare del partito, Arnoldo Camú, un uomo coraggioso ma ingenuo. Mi ordinò di spostarmi a sud, dove un generale lealista, Carlos Prats, stava avanzando alla testa di una divisione antigolpista. Mi misi subito in viaggio, con mezzi di fortuna, cercando un 'esercito rivoluzionario' che non esisteva. Il generale Prats non aveva mosso un dito, era tutta un'invenzione del Pcc, propagata da quegli irresponsabili delle trasmissioni per l'America Latina di Radio Mosca... Per colpa loro, centinaia di militanti sono morti spostandosi verso sud, verso il nulla, incontro ai soldati di Pinochet. Arnoldo fu ucciso a Santiago due giorni dopo il nostro appuntamento. Io mi ritrovai nelle vicinanze di Temuco, solo e praticamente disarmato, e il 5 ottobre, l'indomani del mio compleanno, fui catturato. Mi portarono alla caserma del reggimento Tucapel, e per sette mesi la mia cella è stata un cubicolo largo cinquanta centimetri e lungo un metro e mezzo, così basso che dovevo restare sempre sdraiato, fra la mia orina e quella dei soldati che venivano a pisciarmi addosso attraverso una piccola grata." E' difficile immaginare come una mente umana possa resistere e non svanire nella follia, in simili condizioni. Luis Sepúlveda è certo di dovere il presente, e il futuro, alle sue letture: "Ripassavo a memoria tutti i libri di Conrad, Melville, Stevenson, Verne, Dumas... E giocavo anche a scacchi, tenendo gli occhi chiusi". Lo tiravano fuori per gli interrogatori, e ancora oggi non è facile, per Luis, ricordare quei primi sette mesi. "Quanti ne sono morti, di fianco a me... Poi c'erano le finte fucilazioni. Me ne hanno fatte due, e anche la seconda volta che mi sono trovato davanti al plotone, ho creduto che i fucili fossero carichi... Penso di aver assorbito tanta elettricità che ancora adesso potrei ricaricare una batteria appoggiandoci le mani sopra..." Luis sorride, tentando di rimuovere l'orrore con l'umorismo macabro. A un certo punto mi fissa in modo strano, e dice: "Sai che è curioso? Non avevo mai raccontato tutto questo, prima. Non con i particolari, e tanto meno a uno che lo pubblicherà da qualche parte... Che tu sia il mio dottor Freud, viejo pendejo?!". E ride forte, stavolta, una risata liberatoria. Quella del soprannome che mi ha affibbiato, e che più o meno suonerebbe "vecchio stronzo" (o a seconda delle interpretazioni semantiche, "vecchio coglione"), è un po' lunga e complicata da raccontare, comunque, siamo qui a parlare di lui, e come dice l'oste di quel film, "Ma questa, è un'altra storia...". Nel 1976 la sezione tedesca di Amnesty International aveva lanciato una serrata campagna per la liberazione di Sepúlveda, suscitando un vasto clamore che alla giunta militare cilena fece saltare i nervi. Non era più possibile eliminarlo in silenzio, e alla fine decisero di liberarsi da quei "calunniatori tedeschi" concedendo gli arresti domiciliari. Dopo quasi tre anni, Luis tornava a vedere il tanto agognato oceano, con molti denti in meno e cinquanta chili di peso. "Mio padre gestiva un ristorante, così i poliziotti incaricati di controllarmi presero l'abitudine di farsi delle gran bistecche a sbafo, concedendomi in cambio il permesso per brevi passeggiate. Tre mesi dopo ero già passato alla clandestinità." Andò a Valparaíso, per organizzare uno sbarco di armi, che si sarebbe rivelato l'ennesima invenzione dei dirigenti in esilio. Ma nella città portuale riscoprì la vecchia passione, il teatro, improvvisando rappresentazioni clandestine contro la dittatura. Tempo un anno, e fu ricatturato. Un giudice militare gli lesse i capi d'imputazione: alto tradimento, spionaggio a favore di una potenza nemica (nientemeno che l'Urss), offesa ai valori della nazione, associazione illecita, detenzione di armi. Condanna: ergastolo. "Sembra una barzelletta, considerando i metodi spicci della dittatura, ma nel mio caso c'era la facoltà di appellarsi. Lo feci. Mi diedero solo ventotto anni." Amnesty International tornò all'attacco. E nel frattempo, era stato emanato il famoso decreto 504, che permetteva in alcuni casi specifici di traformare la pena in esilio, una legge approvata con l'unico intento di evitare l'esplosione delle carceri, sovraffollate oltre ogni limite immaginabile. "Il 17 luglio del 1977 mi portarono all'aeroporto di Santiago. Non mi permisero di abbracciare i miei, che potei salutare da dietro una vetrata. Fu l'ultima volta che vidi mio padre, morì due anni dopo. prima di caricarmi sull'aereo, i militari si accomiatarono dandomi una discreta scarica di calci. Avevo in tasca un visto per la Svezia, dove mi aspettava un posto da professore di drammaturgia presso l'università di Uppsala. Ma non mi sentivo ancora disposto ad allontanarmi così tanto da tutto... Allo scalo di Buenos Aires non ripresi nessun aereo, e rimasi in Argentina. Non per molto, perché in quel periodo la gente scompariva a grappoli, e certi amici fecero una colletta per mandarmi in Uruguay. Neanche lì, per quelli come me tirava una buona aria, così passai in Brasile, a San Paolo, dove lavorai a un allestimento di Madre Coraggio di Brecht. Alla fine, visto che neppure il governo brasiliano mi dimostrava troppa simpatia, decisi di tornare al mio grande amore, il Pacifico. Attraversai il Paraguay, il nord dell'Argentina, la Bolivia, il Perù, e finalmente in Ecuador, a Quito." E qui Luis conobbe un mondo che tanta influenza avrebbe avuto nei suoi destini di scrittore, oltre che di militante totale ed estremo in favore di una natura saccheggiata. Per sette mesi visse nella selva amazzonica con gli indios shuar, di cui ha imparato la lingua e il rispetto per i delicati equilibri della Madre Terra. "Sette mesi in cui ho scoperto l'essenza della vera libertà, il comunismo utopico dal vivo e in diretta." Da quell'esperienza, anni più tardi, avrebbe tratto il suo libro di maggior successo internazionale, Il vecchio che leggeva romanzi d'amore. Al pari del protagonista, José Antonio Bolívar, Luis era accettato dagli shuar, ma non sarebbe mai potuto diventare uno di loro, né restare per sempre nella selva. Era l'inizio del 1979, e dal Nicaragua arrivava un richiamo irresistibile. "In Nicaragua le danze erano al culmine, e la musica mi suonava bene, nelle orecchie..." Dopo le gravi perdite subite nell'offensiva di aprile, i sandinisti decisero di accettare nelle loro file alcune centinaia di esuli cileni che avevano chiesto di unirsi alla guerra di liberazione. "Entrai in Nicaragua nel maggio del 1979, come membro della brigata internazionale Simón Bolívar. Combattevamo nel fronte sud, agli ordini di Edén Pastora, uno che prima faceva il cacciatore di squali, tutto coraggio e zero in coscienza politica. Curioso che proprio lui si facesse chiamare Comandante Zero... Avanzammo fino alla costa atlantica, e partecipammo alla battaglia di Bluefields. Più della metà dei volontari cileni rimase in quegli acquitrini, quasi tutti senza una tomba e neppure un nome da ricordare. Poi abbiamo puntato sulla capitale, e noi della Simón Bolívar siamo entrati a Managua con le avanguardie sandiniste. Era il 19 luglio, l'inizio di un sogno..." L'alba sarebbe arrivata presto, a illuminare la marea di problemi spesso insormontabili. L'entusiasmo non poteva bastare a tutto, in quel piccolo angolo del "cortile di casa" che Washington aveva sempre usato come allevamento di squali. E a questo, si aggiunsero anche i saputelli venuti dall'Est... "Lavoravo nella redazione del quotidiano 'Barricada', mi avevano dato persino la nazionalità nicaraguense, quando a un certo punto arrivarono dei giovincelli cileni e argentini, educati nelle accademie della RDT e della Bulgaria, con l'intento di 'depurare dalle ideologie fuorvianti' quella che era stata la brigata Simón Bolívar. Il Pc cileno mi aveva messo nella lista nera dei 'deviazionisti anarchico-trotzkisti'... E mi hanno denunciato come elemento pericoloso, fermato e interrogato. Mentre mi accusavano di essere un 'avventuriero', senza sapere di farmi un complimento, entrò nella stanza il comandante Bayardo Arce, che chiese sorpreso cosa diavolo stesse succedendo. Gli risposi: 'Dovresti essere tu a spiegarlo a me'. Bayardo scatenò un putiferio, li coprì di insulti, e ovviamente venni rilasciato subito con tante scuse. Ma qualcosa si era spezzato, non con i sandinisti, certo, però non sopportavo di vedere in giro quel branco di imbecilli che avevano scaldato sedie mentre gli altri morivano e adesso se ne venivano a 'insegnare' come si costruiva il socialismo... Dopo un triste saluto a Tomás Borge, lasciai il Nicaragua." Più tardi Julio Cortázar intervenne pubblicamente in difesa di Luis Sepúlveda, con sprezzante veemenza contro i rimestatori del Pc cileno in esilio che continuavano a seminare veleni. Una breve sosta in Ecuador, e quindi Luis giunse in Europa, ad Amburgo. "Ero stanco, e con una gran voglia di starmene in pace, anche per riprendere a scrivere." Due anni più tard, un mattino, passeggiando nel porto notò una barca che si chiamava Sirius; era uno dei vari equipaggi di Greenpeace, che si apprestava a salpare per una scorribanda di "guerriglia ecologista". Luis parlò con un neozelandese che era a bordo, e mezz'ora dopo riempiva la scheda di imbarco. Così divenne uno dei più noti corrispondenti della stampa tedesca sulle imprese di Greenpeace. "Per quattro anni ho attraversato praticamente tutti i mari. Nell'estremo sud, tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, ostacolavamo le baleniere, mentre nei mari nordici sbarravamo il passo alle navi nucleari, quasi sempre statunitensi, che trasportavano armi nucleari o scorie radioattive. Era un lavoro da formichine. Con i nostri piccoli Zodiac incrociavamo davanti alla prua costringendoli a fermare le macchine: se una nave si arresta in alto mare, i costi diventano insostenibili, e piuttosto di procedere a singhiozzo preferiscono tornare indietro, sperando di farla franca la prossima volta. Prima, però, ci riempivano di immondizie, a bidonate, e ci bombardavano con getti d'acqua: quando ci sono venti gradi sotto zero, l'acqua è mortalmente efficace. E se cadi in mare, bastano tre minuti per morire congelati, in meno di duecento secondi il cuore si ferma. Ma abbiamo ottenuto molte vittorie, che restano tra i migliori ricordi della mia vita. Ricordi anche divertenti, basti pensare che un equipaggio è formato da persone spesso diversissime per abitudini ed estrazione sociale. Lo spazio a bordo è molto limitato, la cosa principale è il tip-top, cioè tenere ogni cosa 'a punto', nel massimo ordine, per non creare ostacoli agli altri. Immagina un ragazzo di buona famiglia, come ce ne sono molti negli equipaggi di Greenpeace, che non si è mai fatto il letto da solo né lavato i piatti, costretto a vivere per mesi in una cabina piccola come una cella d'isolamento... Eppure, mai un vero problema, difficoltà sì, e tante, ma ogni volta risolte con la migliore volontà collettiva. Tra i ricordi tristi, ce n'è uno che resta sempre presente: la morte di un compagno davanti ai nostri occhi senza essere riusciti a fare nulla per salvarlo. Navigavamo nel Mare Artico, a caccia di scorie radioattive, quando le macchine sono andate in avaria. Il ghiaccio ha preso a ricoprirci con rapidità impressionante, la coperta si è trasformata in un blocco unico, e lo scafo ha cominciato a inclinarsi. Quel ragazzo neozelandese stava misurando la profondità, e l'avaria lo ha colto all'esterno, in coperta. Cercando di rientrare è scivolato ed è caduto in acqua. Noi abbiamo tentato subito di soccorrerlo, ma il ghiaccio aveva già saldato i boccaporti, neppure ci è stato possibile rompere un vetro in tempo. E' morto lì, a pochi metri, assiderato dopo un'agonia durata pochi minuti, per noi interminabili, e solo quarantott'ore più tardi è arrivata una nave norvegese che aveva captato l'sos..." Nel 1988 si è concesso una pausa, e ha scritto il libro che lo avrebbe portato in vetta alle classifiche di mezza Europa, a cui si è aggiunto Il mondo alla fine del mondo, romanzo teso e dolente sullo scempio del pianeta in nome del profitto, ambientato in buona parte della terra che più ama, la Patagonia. Un'ambientazione che in parte ricorre anche in Un nome da torero, a cui sono seguiti i racconti di viaggio Patagonia Express, dove ricorda l'amicizia con Bruce Chatwin. Si erano conosciuti a un appuntamento al caffè Zurich di Barcellona. Seduti al loro tavolo, c'erano i fantasmi di Butch Cassidy e Sundance Kid. Erano stati i due rapinatori di banche a farli incontrare. Gli scrittori avevano un progetto che li riguardava: trovare le loro tombe - perché furono uccisi in Patagonia e non in Bolivia - ricostruire gli ultimi giorni di vita, e raccontarli in un romanzo a quattro mani. Ma il cileno errante non poteva ancora partire, il suo nome figurava sempre nella lista nera di Pinochet e il consolato non gli dava il passaporto. Dopo nove anni, finalmente Sepúlveda ottenne quello stupido documento, ma ormai i fantasmi erano diventati tre: Bruce aveva intrapreso il più lungo dei suoi innumerevoli viaggi. In quel caffè di Barcellona, l'inglese aveva regalato al cileno uno dei suoi preziosi taccuini rilegati a mano. Su quei fogli, Luis avrebbe preso gli appunti per scrivere Patagonia Express. I premi letterari che ha vinto, Luis non li vuole contare. Uno, però, tiene sempre a ricordarlo, perché rappresenta il legame profondo con un amico fraterno che è stato assassinato. Questa è la dedica all'inizio de Il vecchio che leggeva romanzi d'amore:
"Mentre questo romanzo veniva letto, a Oviedo, dai membri della giuria che pochi giorni dopo gli avrebbe assegnato il Premio Tigre Juan, a molte migliaia di chilometri di distanza e di ignominia, una banda di assassini armati - pagati da criminali ancora peggiori, che hanno abiti ben tagliati, unghie curate e dicono di agire in nome del 'progresso' - uccideva uno dei più illustri difensori dell'Amazzonia, una delle figure più rilevanti e coerenti del Movimento Ecologico Universale. Questo romanzo non potrà più arrivare tra le tue mani, Chico Mendes, caro amico di poche parole e molti fatti, ma il premio è anche tuo, e di tutti coloro che continueranno il tuo cammino, il nostro cammino collettivo in difesa di questo mondo, l'unico che abbiamo."

Tratto da: Pino Cacucci, Camminando. Incontri di un viandante, Milano, 1996- Feltrinelli Editore

 

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