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 teatro

 
 Su
Dopo aver attinto i suoi temi nella storia e nel folclore del paese, con Fernando Debesa (n. 1921), Elizado Rojas (n. 1927), Luis Alberto Heiremans (1928-1964) e Alejandro Sieveking (n. 1934), il teatro si è rivolto a una rappresentazione drammatica legata sempre più alla realtà sociale e spesso di denuncia con Sergio Vodanovic (n. 1927), Egon Wolff (n. 1926), autore di Los invasores (1963), Jorge Díaz (n. 1930), Isadora Aguirre (n. 1919), le cui ultime opere rivelano una netta influenza brechtiana (Los papaleros, 1963) e Victor Torres (n. 1935). Dopo il colpo di Stato, l'attività teatrale, che era stata eccezionale sotto Allende (più di 600 compagnie di dilettanti), è stata costretta a proseguire nella clandestinità o in esilio.

 

CILE: LA DEMOCRAZIA HA UN DEBITO CON IL TEATRO

di Juan Barattini (*)

Per parlare del teatro cileno è opportuno tornare indietro con la memoria, ed ampliare lo sguardo a tutta l'America Latina. Ciascun Paese ha una storia, relativamente omogenea, di sviluppo culturale, segnata dalle colonie e dalla cultura spagnola, ma il teatro fiorisce con l'indipendenza e la nascita delle Repubbliche, anche perché si interrompe un isolamento che ha sempre segnato questi Paesi. Il teatro d'arte ha una presenza diversificata in Sud America: se in Argentina è caratterizzato dall'immigrazione italiana, dalle famiglie capocomicali e di guitti; se in Brasile c'è una fiorente vita teatrale legata alla lingua portoghese; il Cile, senz'altro il Paese più lontano dal contesto europeo, riconosce il carattere meticcio della propria cultura. Fenomeni locali, persino precolombiani, si uniscono alla presenza della Conquista e della cultura europea. E la vita teatrale è stata vivace dal 1818, anno d'indipendenza della Repubblica, fino alla crisi mondiale degli anni Trenta, che ebbe forti ripercussioni in un paese dall'economia aperta come il nostro. La Depressione, unita alla diffusione del cinema sonoro, fa calare enormemente il surplus dedicato ad un teatro sempre più "digestivo", molto di consumo. Il rinnovamento si deve all'Università e agli studenti che rifiutano modelli vecchi e superati. Se in Europa agli inizi di questo secolo ci fu un grande movimento di rottura, in Cile dovemmo attendere fino al 1939/40: con il governo di fronte popolare - forse l'unico al mondo - si creano strutture pubbliche, sul modello del Welfare State, per lo sviluppo culturale. All'interno dell'Università Statale si inseriscono il Conservatorio, l'Accademia di Danza, il Teatro Nazionale, la prima Accademia di Teatro, l'Orchestra Sinfonica, il Balletto Nazionale. Va chiarito che questo teatro universitario è paragonabile, per struttura, a quello degli Stabili europei, con un gruppo fisso di attori scritturati ed un repertorio. Tutto ciò produce un fenomeno di sviluppo continuo, durato fino agli anni Settanta: i centri universitari consacrano artisti professionisti e allestimenti di livello, rivolti prevalentemente al ceto medio, fruitore e al tempo stesso produttore di teatro. Negli anni Settanta c'è una tendenza vera e propria alla rottura con i modelli estetici e sociali istituzionalizzati, e la ricerca si rivolge con maggiore sistematicità alla massa, non più solo al popolo della capitale ma anche di altre città, come Valparaiso o Conception. Nel 1973 il golpe militare porta alla dittatura e ad un regime che durerà sedici anni. Si chiudono i teatri e le strutture pubbliche, si sospendono i finanziamenti: il peso del potere di Pinochet si fa sentire. Il teatro pubblico reagisce come può, cercando di mantenere un repertorio: si ricorda il tentativo di una compagnia itinerante, finanziata dal Ministero della Pubblica Istruzione, che mise in scena Romeo e Giulietta approfondendo il tema dell'esilio ed entrando rapidamente in rottura con il potere politico. Quando tornai in Cile, nel 1986, dopo l'esilio, mi stupii per la vitalità della società civile: durante la dittatura, gli attori, anche grazie all'appoggio estero, hanno avuto la capacità di creare unità produttive autonome, private, che in qualche modo sono sopravvissute. Il rapporto tra queste unità e il potere è molto delicato: la polizia politica arrivò ad incendiare teatri, a sospendere spettacoli, a minacciare di morte gli artisti. Poi, però, scelse una repressione più morbida: a seguito di uno studio sociologico, decise, infatti, che nei confronti di un settore minoritario come la prosa, di scarsa incidenza nel Paese, sarebbe stata controproducente una repressione forte e dichiarata perché avrebbe avuto una vasta e pericolosa eco interna ed internazionale. La drammaturgia, in quel momento, era basata sul teatro-cronaca: il teatro diventa allora uno spazio di semi-libertà, di riflessione, di incontro tra oppositori al regime, e molto importante è l'attività del Sindacato Attori. Successivamente si inizia a riflettere anche sul linguaggio, sulla ricerca di metafore che superassero cronaca e denuncia. Oggi il teatro si muove in forme più libere: si segnalano tentativi di teatro d'immagine, di teatro del silenzio, in forme di ricerca accumunate da un estremo rigore. Il teatro cileno ha dunque sempre riflesso la società in cui si muoveva: dapprima prodotto dei ceti medi, poi espressione libera, di resistenza e denuncia, della società civile che rischia in prima persona. Infine oggi, con i giovani universitari che cercano di recuperare la memoria negata, il ritorno dall'esilio, il confronto con la democrazia e con il resto del mondo. E lo Stato democratico risponde incoraggiando e sostenendo il teatro con iniziative importanti: la creazione del Fondo Nazionale delle Arti, l'istituzione di una rassegna-vetrina estiva per nuovi artisti e drammaturghi, l'assegnazione di premi, il finanziamento di progetti di produzione, così che il teatro possa liberarsi dalla sudditanza al mercato. Il regime democratico ha un debito con il teatro cileno, che ha saputo lottare e resistere: certo, ora non è un paradiso, ma queste ultime misure libere hanno permesso un rinnovamento drammaturgico e nuove leve di artisti, vitali ed appassionati.

(*) Juan Barattini, docente universitario e storico del teatro, è attualmente Addetto Culturale dell'Ambasciata cilena a Roma.


 

Alejandro Jodorowsky

Mentre sul piano teatrale "Il gioco che tutti giochiamo" è a tutt'oggi uno degli spettacoli più rappresentati dell'America latina, già da diversi anni a questa parte i romanzi e le raccolte poetiche di Jodorowsky costituiscono un indiscutibile successo e una indiscutibile novità (Teresa si arrabbiò con Dio / Di ciò di cui non si può parlare, La scala degli Angeli), i lungometraggi che ha diretto tra il sessanta e il settanta sono diventati oggetto di culto (El topo, La montagna sacra, Il paese incantato, Santa Sangre ...), e nell'ambito del fumetto d'autore, a partire dall'ormai mitica collaborazione con Moebius per la saga dell'Incal, le sceneggiature e i soggetti di Jodorowsky costituiscono un mondo che Les Humanoides Associés stanno esportando dalla Francia in tutti i contenenti (La casta dei tecnopadri con Jimenez; La folle du Sacré Coeur con Moebius, ecc.).
Sul versante "Terapeutico" (e per certi versi anche teatrale) è ormai leggendaria l'esperienza del cabaret mystique, che Jodorowsky conduce a Parigi ormai da quasi quindici anni (una conferenza e una lettura di tarocchi settimanale, del tutto gratuita, che vede via via ingrandirsi le fila del pubblico che vi partecipa, fino a dover in molti casi chiudere addirittura i battenti) e della Psicomagia, un'arte di curare che combina l'arte, appunto, con l'intento terapeutico.
Non si contano inoltre le collaborazioni "eccellenti" da Peter Gabriel a Marcel Marceau, dai Pink Floyd (coinvolti per la musica di Dune, il mitico ultimo film di Jodorowsky, prodotto e mai realizzato ...) ad alcuni tra i maggiori esponenti dell'avanguardia storica (Breton, Eluard, Dalì, Bellmer, Bunuel, ecc.).

Opera Panica segna il ritorno al teatro, dopo circa trent'anni, di uno dei più grandi maestri del Novecento: Alejandro Jodorowsky, indimenticato pioniere dell'avanguardia teatrale cilena, messicana ed europea sin dalla fine degli anni Quaranta, fondatore e animatore con Fernando Arrabal e Roland Topor - negli anni Sessanta - di quello straordinario fenomeno artistico, letterario e teatrale che è stato il Panico.