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Una vita partigiana

di Manlio Brigaglia

     Questo diario di Giovanni Cuccù, nome di battaglia "Ivo", venne pubblicato per la prima volta nel 1991, a quasi cinquant'anni dagli avveni menti di cui parla.     In realtà era uscito anche in sloveno nel 1979, ma in una edizione che aveva trascurato, come Cuccù stesso racconta nelle pagine che seguono,  documenti e fotografìe. Questi documenti - omessi anche nella prima versione italiana - sono presenti invece in questa nuova edizione, che Cuccù  ha voluto proprio anche per corroborare il suo racconto con le testimonianze di molti dei suoi compagni di lotta d'un tempo, che ora si leggono in appendice. 

    Le date non traggano in inganno. Questo, ne ci sarebbe bisogno di dirlo, è un libro attualissimo.    Non c'è nulla come quello che accade in Jugoslavia ormai dal 1991 che aiuti a capire meglio il significato di molte delle vicende che vi vengono raccontate, e più ancora il generale clima politico e civile in cui esse si svolsero.   

    La Resistenza jugoslava è stata, fra le diverse Resistenze europee, una delle più drammatiche. Prima di tutto perché, dall'invasione tedesca del'Unione Sovietica (inizio estate 1941) sino alla fine della guerra, essa ha investito l'intero territorio del vecchio regno di Jugoslavia, anche se in alcune regioni la guerriglia è stata più intensa e di più lunga stabilità, sino ad assumere i caratteri di una vera e propria guerra combattuta fra due eserciti contrapposti.

    Ma anche questa definizione non rende compiutamente l'immagine di una guerra di resistenza al nazi-fascismo che è stata in realtà, come in nessun altro luogo d'Europa, anche una guerra civile e, più ancora, una guerra inter-etnica.    

    La precarietà dell'assetto conferito a una serie di realtà "nazionali" unificate sotto il nome di Jugoslavia alla fine della prima guerra mondiale si legge già distintamente nella storia di questa Resistenza: al di là di quelle divisioni politiche che attraversarono ogni resistenza europea - arrivando a lacerazioni profonde e spesso anche feroci, di cui adesso si comincia a scrivere sempre più compiutamente la storia - quella jugoslava portò in sé i ger mi di quella "incomunicabilità" fra regione e regione, etnia ed etnia, reli gione e religione, di cui la divisione politica fu soltanto una delle espressioni (e sia pure, nel momento della guerra, la più evidente e caratterizzata).    

    Quello che è accaduto e sta ancora accadendo, dunque, aiuta a capire  meglio questo libro. Aiuta aleggere fra le righe anche quello che "Ivo"  non si sofferma a raccontare - le dissensioni di tipo politico ed etnico in terne alla resistenza, ma anche il generale clima di diffidenza e di sospetti in cui essa si svolse, con una popolazione divisa, sì, sul discrimine della collaborazione o della resistenza al nazifascismo, ma anche attraversata dalle divisioni (e dalle confusioni) fra i diversi gruppi politici ed etnici che, pure iscritti sotto l'unica insegna della resistenza, vi parteciparono   però con intenzioni e intensità e obiettivi finali fortemente differenziati:   solo l'egemonia del Partito comunista jugoslavo e l'impulso dato alla lotta di liberazione, nell'ultima parte della guerra, dalle forze di Tito riuscirono prima ad unificare il movimento di resistenza e poi ad imporre alla repubblica federativa jugoslava quella unità sovranazionale che ora è andata così rapidamente (e tragicamente) in pezzi.     

    "Ivo" non sottilizza, nel suo racconto, su differenziazioni che pure dovette avvertire nel concreto dell'esperienza resistenziale: centici, belogardisti e domobrani tornano spesso, nel suo racconto, confusi sotto la stessa sigla di condanna che tocca ad ogni forza collaborazionista.

    In realtà, i cetnici (da cetna = banda, era l'antico nome dei guerriglieri anti-ottomani dell'Ottocento) operarono sull'intero territorio jugoslavo, passando sotto l'accorta regia del loro "fondatore" Draza Mihajlovic - da un'ambigua opposizione all'occupazione nazista (in nome della continuità della monarchia jugoslava) a forme sempre più aperte di collaborazionismo ("Ivo", che partecipa alla resistenza fin dalla fine del 1942, li conosce soltanto ormai nella veste di feroci alleati delle forze d'occupazione italiane e tedesche). I domobrani (= "difensori della patria") sono invece formazioni politico-militari nate soprattutto (se non esclusivamente) in Croazia, a fianco degli ustascia di Ante Favelle, su posizioni fortemente nazionaliste-croate. Quelli che "Ivo" chiama - secondo l'accezione dialettale dei luoghi in cui combattè - belogardisti sono i delagardisti (=• "guardie bianche"), che operarono quasi esclusivamente in Slovenia come "esercito" al servizio di gruppi agrari e reazionari connotati (politicamente) anche dalla comune appartenenza alla religione cattolica: di qui l'appoggio della Chiesa locale, che vedeva in essi uno dei possibili baluardi contro la dilagante espansione dell'ideologia comunista.    

    Nel libro-diario di "Ivo" numerose figure di sacerdoti appaiono, in diversi momenti della lotta, impegnati direttamente nell'azione collaborazionista, spesso in veste di veri e propri combattenti a fianco dei nazisti, da cui ripetono anche i macabri rituali della ferocia. Tutte le guerre interetniche tendono a trasformarsi in Crociate: la guerra civile jugoslava fu, soprattutto nelle regioni settentrionali a più alto tasso di cattolicesimo, anche questo. "Ivo" procede con la determinazione che è propria dei grandi momenti di confrontazione storica: da una parte i portatori della verità (l'esercito partigiano comunista, assertore dell'indipendenza della Jugoslavia e della liberazione delle classi subalterne dalle condizioni semifeudali in cui erano stare tenute sino a quel momento), dall'altra gli oppressori, facilmente identifìcabili: le forze d'occupazione italiane e tedesche e tutti i collaborazionisti locali.    

    "Ivo", naturalmente, non si muove ad occhi chiusi: avverte le dissensioni all'interno delle formazioni in cui si trova a combattere, vive - e talvolta anche subisce - il clima di sospetto in cui ognuno di quelli che partecipano a questa lotta sanguinosa è costretto a muoversi.   Ma supera tutto con questa sua (contadina) capacità di semplificare, di andare al nocciolo delle cose, in qualche misura anche con l'elementarità di un'educa zione politica che si sviluppa nel corso della guerra e che apparirà matura soltanto alla sua conclusione.    

    Da questo punto di vista, il racconto che egli fa della "sua" guerra, pure fittamente e minuziosamente ricostruito,  come lui stesso dice nei capitoli finali, tanto su una memoria che agli stes si compagni di lotta doveva apparire prodigiosa quanto sulle brevi annotazioni di pagine scritte sul campo stesso degli avvenimenti registrati, è in  realtà condotto tutto da un punto di vista che non è quello dell' "Ivo"  1942-45 quanto quello del "reduce", il partigiano decorato dalla Repubblica jugoslava Giovanni Cuccù, classe 1914, che, tornato a Samassi, a di stanza di alcuni decenni (anche se sappiamo che questo "diario" fu in realtà iniziato poco tempo dopo il ritorno in patria) rivive e ricostruisce quegli eventi in un'ottica che potremmo chiamare "storica": Cuccù sa che cosa "è successo dopo", sa "come sono andati a finire" i vasti movimenti nel cui corso vivo e magmatico si trovò a vivere la propria esperienza.     

    La storia di questa formazione politica (che è anche formazione civile e morale) costituisce di per sé uno dei filoni lungo i quali si può praticare la lettura di questo libro. Comincia fin dall'infanzia: in questa nuova - edizione, anzi, viene ripercorsa con rinnovata attenzione quella che si po trebbe chiamare "l'educazione di un pastore", se non fosse che al giova ne Cuccù resta, di quella vita agra, un gusto intatto della natura -l'osser vazione-contemplazione delle stelle torna all'inizio e alla fine del libro co me un emozionante leit motiv -, che finirà poi per fargli sentire quasi co me un'altra patria la Bela Krajina, la regione in cui vivrà gran parte dei suoi anni di lotta partigiana.   

    Il termine di "ribelle" con cui più diffusamente in Europa furono chia- mati i partigiani s'attaglia a Cuccù fin dalla sua giovinezza: una ribellione istintiva (non ci sono ne maestri ne modelli politici o ideologici, alla sua origine, almeno nel racconto di "Ivo") che lo porta tanto a rifiutare il fascismo - o, meglio, l'appartenenza ad un'organizzazione nella quale il comando, la gerarchla prendono concretamente corpo in singoli personaggi dei quali il giovane Cuccù rigetta l'arroganza e la violenza - quanto a criticare e anche contestare apertamente l'organizzazione della vita militare, quando diventerà soldato.         Il fascismo come assenza di autonomia, compressione della libertà di pensare e di dire quello che si vuole diventa ad un certo punto un tutt'uno con la disciplina militare: l'esercizio della violenza irrazionale è, agli occhi di Cuccù, identico nell'organizzazione (fascista) della vita civile quanto nell'organizzazione (ferreamente gerarchica) della vita militare.

    L'amore per la libertà, in Cuccù, non è qualcosa che imparerà nella vita partigiana, ma un "valore" etico col cui carico già si presenta al momento stesso in cui inizia la sua avventura: prima con i fascisti di Samassi o di Cagliari, poi con gli ufficiali che incontrerà nel servizio di leva o al fronte jugoslavo.    Un percorso simile dovettero compiere tanti altri suoi compagni "sbattuti" come lui fra i bunker, le stazioni e i baraccamenti di plaghe sperdute della Croazia o della Slovenia.    

    Ma è un fatto che in Cuccù questo processo matura più rapidamente: solo man mano che procede la guerra (quella speciale guerra di agguati e di feroci repressioni che fu l'occupazione della Jugoslavia) e si fanno chiare le ragioni "universali" che dividono le forze in campo e insieme cominciano a segnarne il destino, questo percorso che Cuccù fa, all'inizio, quasi da solo, comincia ad essere condiviso da un numero sempre crescente di commilitoni - fino a quella generalizzazione e quasi "istituzionalizzazione" della ribellione, avvenuta a partire dall'8 settembre, che porterà tanti italiani a combattere a fianco dell'armata proletaria di liberazione nazionale (tra caduti e feria, gli italiani che si sacrificarono in quella lotta furono circa 20 mila).   

    La "specificità" della partecipazione di Giovanni Cuccù alla guerra partigiana jugoslava sta in due elementi: il primo è la "precocità" della sua scelta partigiana (da datare già prima, in qualche misura, di quel novembre 1942 in cui assume più compiuta consapevolezza, trasformandosi da un generico umanitarismo che lo spinge a sentire come compagni i contadini jugoslavi vittime dell'occupazione in un sentimento più compiuto di partecipazione "politica" al loro rifiuto dell'oppressione straniera); il secondo è la sua partecipazione individuale, uri singulus, alla lotta antinazista: esperienza che fu comune, si sa, a molti altri italiani, ma che a Cuccù permette di circolare - come una sorta di "soldato di ventura" (politica) - da una formazione all'altra, muovendosi in un territorio che, anche se ci appare dilatato dalla minuzia dei dettagli geografici, è comunque più vasto dell'ambito in cui normalmente si muovevano singole formazioni "stabili".

    Questa limitata geografia e questa grande storia in cui si muove trasformano Cuccù in "Ivo". Il ritorno da "Ivo" a Cuccù nell'Italia della guerra fredda è pieno di drammi e di sofferenze. Ma a consolarlo c'è la forza fondante di quella esperienza e, quando non ci si mettono i carabinieri o i barraceli!, il ritrovato silenzio pacificatore della natura, l'immutabile conforto delle stelle.

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