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Ulisse e l’isola dei Ciclopi.

 

E’ ormai l’imbrunire. Abbandonata l'isola dei mangiatori di Loto, la nave di Ulisse scivola via sul mare calmo, quando, di colpo, cala una fittissima ed impenetrabile nebbia. L'imbarcazione, nel silenzio, continua ad avanzare piano e alla cieca, i marinai sono fermi con i remi, quasi in attesa di un nuovo imponderabile evento. Ed ecco, all’improvviso, un sordo rumore sotto la chiglia: la nave si è incagliata su gli scogli.

Si tratta, forse, di un isolotto, ma nel buio, non si riesce a distinguere. E’ stato il mare stesso, probabilmente comandato dagli dèi, a spingerli verso questo posto invisibile su cui, in qualche modo, sono approdati. Non c’è neanche la luna in cielo e il buio si fa sempre più fitto. Ulisse e i suoi uomini sono là, su quegli scogli di chissà quale terra.  La notte sta per calare su di loro e dopo l'isola dell'oblio, chissà quali nuove e misteriose avventure hanno riservato per loro gli dei.

La mattina dopo, osservando il territorio intorno, riconoscono un promontorio: l’isola su cui si trovano è l’isola dei Ciclopi, giganti mostruosi dalla forma umana che hanno un solo occhio in mezzo alla fronte.

Ulisse, dopo averla disincagliata, conduce la nave al riparo in una piccola baia e con dodici uomini, sale fin sulla cima del promontorio, dove ha localizzato una caverna. La grotta è grandissima, profonda e misteriosa; gli uomini entrano. Davanti ai loro occhi si spalanca un vero e proprio spettacolo. Ci sono greggi, acqua, una piccola vigna selvatica e forme enormi di formaggio. I compagni di Ulisse hanno in mente un'idea soltanto: razziare un po’ di formaggio e ridiscendere verso la nave, il piú velocemente possibile, lontano da quell'enorme e strana caverna che lascia presagire niente di buono.  Esortano quindi Ulisse che invece è molto incuriosito: ‑ Su, andiamo! ‑ Ma egli tentenna. Vuole restare perché vuole vedere e  conoscere l'abitante di quello strano luogo. Ulisse  vuole vedere, conoscere, sapere.      La curiosità che lo spinge sempre oltre, però, potrebbe essere causa della sua rovina.

Intanto, preceduto dalle sue capre, dalle sue pecore, e dal suo ariete preferito sopraggiunge il Ciclope e tutti insieme entrano nella grotta.

Dalle forme sembra  un essere umano ma è enorme, tanto grande che con una mano poteva prendere e stritolare un uomo. E' tutto ricoperto di peli  ed ha un occhio solo in mezzo alla fronte. Da principio il gigante non s‘accorge di quei minuscoli uomini, che tremano di paura, e si nascondono negli angoli della caverna.

Li scopre poco dopo, incuriosito da un rumore sospetto, e  rivolgendosi a Ulisse, che stava  davanti agli altri, chiede:

Chi siete? Tu, chi sei ? Cosa fate nella mia grotta?

Ulisse, astuto e bravissimo a raccontare storie comincia a parlare:

 ‑ Siamo Greci, abbiamo combattuto valorosamente sulle rive di Troia insieme ad Agamennone, abbiamo conquistato la città ed ora eccoci qui naufraghi sfortunati. La mia nave è andata in pezzi sugli scogli,  sono completamente nelle tue mani e vengo insieme ai miei uomini ad implorarti ospitalità.

Il Ciclope risponde con ironia:

‑ Molto bene, bravi, ma  di tutte queste storie a me non importa niente e subito afferrando per i piedi due compagni di Ulisse, li sbatte contro la parete rocciosa  uccidendoli e li divora  lasciando gli altri marinai impietriti per il terrore.

Ulisse si domanda in quale situazione si sia mai cacciato e come fare, soprattutto, per uscire dalla grotta.  Il Ciclope, infatti, per la notte, ne ha chiuso l’entrata con un masso enorme impossibile da rimuovere.

Il giorno dopo si ripete la stessa terribile scena, il Ciclope agguanta altri quattro uomini nonostante abbiano cercato di nascondersi e li divora, due la mattina e  due la sera. In tutto sono sei, metà dell'intero gruppo.

Ulisse, nel tentativo di salvare se stesso e gli altri, con la sua proverbiale astuzia, con parole di miele e  promesse, cerca di addolcire  il  mostro e convincerlo ad essere  ospitale.

‑ Ti farò un regalo che, credo, ti riempirà di gioia -, dice.

Il Ciclope allettato allora si presenta, si chiama Polifemo. E, come dice il significato greco del nome, è un uomo di molte parole e di grande fama. Chiede a Ulisse il suo di nome.

 Ulisse risponde:

‑ Il nome che mi danno amici e parenti è Nessuno.

Nessuno? ‑ esclama il Ciclope, ‑ poiché tu sei Nessuno, ti farò anch'io un regalo. Ti mangerò per ultimo, aggiunge ghignando.

Ulisse non rinuncia all’idea di sfuggire al mostruoso essere e gli offre un dono: alla scoperta dell’isola, aveva fatto portare dai sui uomini  una parte dell’ottimo vino avuto in regalo dal suo amico Marone, un nettare divino, ma talmente forte che per poter essere bevuto da un uomo doveva esser diluito con molta acqua.

Nessuno/Ulisse, aiutato dai compagni rimasti, lo versa in una  ciotola gigantesca e lo porge, con tutte le cautele, a Polifemo.  Il Ciclope ne beve, lo trova ottimo. Mangiando il suo formaggio e bevendo quel vino si ubriaca in poco tempo e si addormenta pesantemente.

Ulisse, allora, mette in atto il suo piano: dopo averlo appuntito fa arroventare sul fuoco un enorme ramo di ulivo trovato nella grotta e con molta cura, aiutato dagli altri marinai superstiti, lo conficca nell'occhio del Ciclope.

Il gigante si sveglia urlando dal dolore. Il suo unico occhio è accecato. Per  lui ora ci sarà l'oscurità per sempre.

Continua ad urlare, chiama aiuto.

I Ciclopi dei dintorni, che vivono ognuno per conto proprio, accorrono alle grida di Polifemo. Ma la grotta è chiusa, urlano: ‑Polifemo, Polifemo che cos' hai? –

Ah, è terribile, mi uccidono! – risponde. - Ma chi, ti vuole uccidere? – Nessuno! Nessuno mi ha fatto del male! -

-Ma se nessuno ti ha fatto del male, perché urli e sbraiti in questo modo ? ‑  E se ne vanno.

Ulisse intanto si è nascosto insieme ai compagni per sfuggire all’ira cieca del mostro, è scomparso, si è annullato dietro al nome che si è scelto, ed in un certo senso è salvo. Ma deve ancora uscire dalla caverna bloccata dall’enorme masso.

Aspetta pazientemente il momento in cui Polifemo, il giorno dopo, farà uscire il gregge, e pensando a come avrebbe potuto fuggire, decide di legare ognuno dei suoi sei uomini sotto il ventre delle pecore per eludere la probabile sorveglianza del ciclope anche se accecato.

 Lui stesso si aggrappa alla lana spessa e morbida sotto la pancia dell'ariete preferito da Polifemo. Quando il gigante, dopo aver spostato la roccia, fa uscire le pecore, per non farsi sfuggire gli uomini che l’ hanno ferito, fa passare ciascun animale fra le sue gambe e ne tasta  il dorso. Così non si accorge che i compagni di Ulisse sono nascosti di sotto.

Quando è la volta dell'ariete con Ulisse attaccato alla sua pancia, il Ciclope si rivolge all'animale preferito per raccontargli le sue pene:

‑ Guarda in che stato mi ha ridotto quel malvagio di Nessuno, gliela farò pagare! Urla.

L'ariete avanza quindi verso l'uscita, ed Ulisse è fuori.

Il Ciclope rimette a posto il masso, credendo di chiuder dentro i Greci che, invece, liberi e di corsa  corrono verso la baia dov’è nascosta la loro imbarcazione! Il mostro si accorge di essere stato giocato.

Ulisse e compagni, di gran carriera, percorrono gli stretti e tortuosi sentieri rocciosi fino a raggiungere la nave. Vi saltano sopra, levano gli ormeggi e si allontanano velocemente dalla riva. Scorgono in alto, in cima al promontorio, vicino alla sua grotta, il Ciclope Polifemo che comincia scagliare massi enormi, alla cieca, nel mare. In quel momento, Ulisse, ormai lontano dalla costa, non riesce a resistere e, cedendo al gusto della vanteria ed alla lusinga della vanità,  urla al gigante:

‑ Ciclope, se mai qualcuno dei mortali ti chiederà chi ha accecato il tuo occhio, rispondi pure che è stato Ulisse, figlio di Laerte, il re di Itaca, il vincitore di Troia, Ulisse dai mille inganni! -

Grave errore per Ulisse pronunciare il suo vero nome.

Polifemo, infatti, inveendo contro di lui, pronuncia una solenne maledizione che non sarebbe stata valida senza il nome di colui che doveva subirla e chiede vendetta al padre, il Dio Poseidone.

Poseidone è il Dio di tutto ciò che è liquido, ma anche di tutto quanto è sotterraneo. Terremoti e tempeste, è sempre lui a scatenarli. Il ciclope gli chiede che chi l’ha accecato, Ulisse, patisca mille sofferenze prima di ritornare alla sua terra, che perda tutti i suoi compagni, che la sua nave affondi e che rimanga  solo, perduto e naufrago. Se mai fosse riuscito a cavarsela, il ritorno in patria doveva essere per lui senza gloria e come uno straniero.

Poseidone ascolta la maledizione del figlio, e la raccoglie.

Da questo momento la sua volontà, dominerà tutti i tentativi di Ulisse di ritornare a casa. Alla sua Itaca riuscirà a ritornarci dopo molti anni, ma solo, senza nave, dopo aver visto morire tutti i suoi compagni e come uno straniero.

La maledizione di Polifemo si era compiuta.

 

 

 

Sull’umorismo

 

La vita è una cosa seria, qualche volta comica, molto spesso tragica.

Gli antichi Greci avvertivano profondamente e coltivavano il senso tragico della vita.

I Romani, piú pratici, non ne facevano una tragedia ma consideravano la vita una cosa seria: di conseguenza tra le qualità umane apprezzavano

In modo particolare la serietà e tenevano in poco conto la superficialità.

Cosa sia il tragico non è difficile né da capire né da definire e se ad un Tizio gira per la testa di apparire come una figura tragica

non gli è difficile riuscirvi anche se Madre Natura non ha già provveduto alla bisogna. La serietà è pure una qualità relativamente facile da capire,

da definire e per certi versi da praticare. Quel che è difficile da definire e che non a tutti è dato di percepire  ed apprezzare è il comico.

Una dote piuttosto rara tra gli esseri umani che consiste nella capacità di intendere,apprezzare ed esprimere il comico  è l'umorismo.

L'umorismo grossolano, facilone, volgare, prefabbricato, quello delle barzellette è alla portata di molti ma non è vero umorismo.

È un travestimento dell'umorismo. Il termine umorismo deriva dal termine «umore» e si riferisce ad una sottile e felice disposizione mentale solitamente

basata su un fondamento di equilibrio psicologico e di benessere fisiologico.Schiere di scrittori, filosofi, epistemologi, linguisti hanno ripetutamente

tentato di definire e spiegare l'umorismo. Ma dare una definizione dell'umorismo è cosa difficile per non dire impossibile. Tanto è vero che se una battuta umoristica

non è percepita come tale dall'interlocutore è praticamente inutile se non addirittura controproducente cercare di spiegargliela.

Chiaramente l'umorismo è la capacità intelligente e sottile di rilevare e rappresentare l'aspetto comico della realtà. Ma è anche molto di più.

Anzitutto, come scrissero Devoto e Oli, l'umorismo non deve implicare una posizione ostile bensì una profonda e spesso indulgente simpatia umana.

Inoltre l'umorismo implica la percezione istintiva del momento e del luogo in cui può essere espresso.

Fare dell'umorismo sulla precarietà della vita umana al capezzale di un moribondo non è umorismo.

D'altra parte quando quel gentiluomo francese che saliva i gradini che lo portavano alla ghigliottina, avendo inciampato in uno dei gradini,

rivolgendosi alle guardie esclamò: «dicono che inciampare porti sfortuna», quel gentiluomo meritava certamente che la sua testa venisse risparmiata.

L'umorismo è così intimamente legato alla scelta accurata e specifica dell'espressione verbale in cui viene prodotto che difficilmente si riesce a tradurlo

da una lingua in un'altra. Questo significa anche che è così permeato dei caratteri della cultura in cui viene prodotto che riesce sovente del tutto

incomprensibile quando travasato in un ambiente culturale diverso. L'umorismo va distinto dall'ironia.

Quando si fa dell'ironia si ride degli altri. Quando si fa dell'umorismo si ride con gli altri.

L'ironia ingenera tensioni e conflitti. L'umorismo quando usato nella misura giusta e nel momento giusto

è il solvente per eccellenza per sgonfiare tensioni,

risolvere situazioni altrimenti penose, facilitare rapporti e reazioni umane.

Dunque ogni qualvolta si presenta l'occasione di praticare dell'umorismo è un dovere sociale far sì che tale occasione non vada perduta.

 

 

 

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