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LEOPARDI COPERNICANO

Antonio Di Meo

"Tutto è relativo. Questa dev'esser la base di tutta la metafisica" [Z,452]. Sebbene enunciata in un contesto di teoria morale, questa "osservazione vastissima" del 1820, ritenuta dal suo autore in grado di distruggere "infiniti sistemi filosofici" [Z, 452], potrebbe essere considerata il fuoco principale intorno a cui ruota l'intero mondo filosofico di Giacomo Leopardi. Con essa il poeta-filosofo si collocava nel cuore del pensiero moderno, di cui indicava uno degli esiti possibili, poiché è già presente nei suoi presupposti e nei suoi fondamenti. Uno dei lati impliciti più estremi della modernità era appunto questo: non esistono "assoluti", né di tipo religioso, metafisico e scientifico, né, tanto meno, di tipo estetico o morale. L'epoca moderna, infatti, aveva introdotto nella cultura europea notevoli elementi di "relativismo" culturale. John Locke e Etienne Bonnot de Condillac (autori molto apprezzati da Leopardi) in seguito avevano trasportato tale relativismo a livello epistemologico: per essi, infatti, la conoscenza umana era fondamentalmente conoscenza di rapporti, di relazioni. Ma l'epoca moderna si era aperta col più grande capovolgimento di rapporti che l'uomo europeo (e l'uomo in generale) avesse mai provato: la rivoluzione copernicana. Su questo Leopardi sarà esplicito e apodittico sostenendo come il sistema fisico di Niccolò Copernico avesse prodotto notevoli cambiamenti nei sistemi metafisici e intellettuali. Esso, come viene sostenuto nello Zibaldone, "rinnova interam.[ente] l'idea della natura e dell'uomo...rivela una pluralità di mondi, mostra l'uomo un essere non unico, come non unica è la collocaz.[ione] il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l'infinità delle creature, che secondo tutte le leggi dell'analogia debbono abitare gli altri globi del tutto analoghi al nostro, e quelli anche che saranno benché non ci appariscano intorno agli altri soli cioè le stelle...abbassa l'idea dell'uomo, e la sublima" [Z, 84]. Nell' "operetta" del 1827, intitolata appunto Il Copernico, Leopardi farà ribadire all'astronomo polacco come le conseguenze del nuovo sistema teorico da lui sostenuto non riguardassero solo la struttura del mondo materiale, "perché esso", - prevedeva il Copernico del dialogo leopardiano, - "sconvolgerà i gradi della dignità delle cose, e l'ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno esser tutt'altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere". Dopo Giordano Bruno e Galileo Galilei nessun altro intellettuale italiano aveva considerato la teoria eliocentrica in maniera così drasticamente dirimente rispetto a ciò che l'uomo poteva (o non poteva più) pensare della realtà fisica e metafisica del mondo e di se stesso. In Italia nessun altro contemporaneo di Leopardi o immediatamente a lui precedente aveva ritenuto, così esplicitamente e in maniera così radicale, che quella teoria costituisse uno spartiacque ineliminabile e netto fra due epoche dell'autocoscienza del genere umano e del suo stesso modo di pensare. Anzi, buona parte del pensiero sei-settecentesco tenderà piuttosto alla conciliazione fra nuova scienza e forme di pensiero più tradizionali, fino ad arrivare all'utilizzazione della prima per scopi apologetici.

In particolare la "questione" della pluralità, della infinità e della abitabilità dei mondi, sarà il luogo teorico e problematico intorno al quale si cimenterà la riflessione di molti autori moderni divenendo il crocevia di un lungo dibattito che coinvolgerà scienza, filosofia, teologia, arte e poesia. Proprio in questo contesto trova uno dei suoi fondamenti la metafisica di Leopardi e anche la sua epistemologia negativa e falsificazionista, se così possiamo dire.

La conoscenza di Leopardi della scienza astronomica, e della scienza in generale, era assai vasta e profonda. Le Dissertazioni filosofiche del 1811-1812, erano trattatelli contenenti anche argomenti riguardanti la meccanica, la gravità, la teoria dell'urto, l'idrodinamica, la luce, l'elettricismo e l'astronomia. Del 1812 sono il Compendio di storia naturale e il Saggio di chimica e storia naturale. Del 1813 la ponderosa Storia dell'astronomia dalla sua origine all'anno MDCCCXI, opera vasta ed erudita, con citazioni in molte lingue antiche e moderne, che abbraccia un periodo che va dalla remota antichità ai primi dell'Ottocento, con oltre 350 volumi menzionati nel testo e oltre 2000 rimandi bibliografici. Essa costituisce una sorta di storia comparata delle idee astronomiche e cosmologiche a partire dalle più antiche civiltà (caldea, ebraica, egizia, copta, greca, indiana, cinese, amerinda-precolombiana, araba, druidica, alessandrina) fino alle epoche medievale e moderna. A ulteriore dimostrazione del carattere non occasionale dei suoi interessi per la scienza degli astri nel 1814 Leopardi scrisse una molto più breve Dissertazione sopra l'origine e i primi progressi dell'astronomia.

Queste elaborazioni scientifiche dell'infanzia non furono irrilevanti per il successivo sviluppo delle riflessioni leopardiane e si ritrovano in gran parte delle opere successive. In particolare esse risulteranno decisive nell'elaborazione di alcuni tratti più definiti del suo "nichilismo". Il nichilismo leopardiano, infatti, ha molto a che fare con la nuova dimensione teoretica che la problematica del "nulla" assumerà all'interno della nuova cosmologia di tipo copernicano (soprattutto nella dilatazione bruniana di questa), dove si ha il passaggio da un mondo "chiuso" (e antropocentrico come quello tolemaico e cristiano-medievale) a un Universo decentrato, illimitato, relativistico. In effetti il principio cinematico galileano di relatività si accompagna, nella scienza moderna, a un analogo e più generale principio di relatività di tipo cosmologico. Entrambi erano fondati su una idea di relatività spaziale fra gli oggetti del mondo fisico in quiete o in movimento l'uno rispetto all'altro. Anche l'idea leopardiana di "nulla" è sempre formulata come una relazione fra enti che, però, sono reciprocamente implicati l'uno nella definizione dell'altro. In Leopardi, per esempio, l'Universo realmente esistente deve essere considerato limitato e finito; ma esso è pensabile o immaginabile come infinito (nel significato di illimitato, indefinito, cioè nel senso etimologico e negativo di "senza confini"). Ma essendo l'immaginazione una facoltà creativa, l'infinito soggettivo che essa produce può essere ritenuto come il luogo della "possibilità". Ed è quest'ultima a presiedere al movimento di attualizzazione di ogni ente realmente esistente. Di conseguenza la "possibilità", che è la vera infinità, coincide con il "nulla", in quanto differenza fra un ente finito e uno pensato come infinito. Come per ogni differenza fra una grandezza infinita e una finita, anche in questo caso il "resto" è un ente infinito. Quindi il "nulla" coincide con l' "infinità". Esso, allora, deve essere inteso non solo, o non tanto, come il significante della evanescenza e della transitorietà nel tempo dell'esistente, quanto il luogo in cui si misurano le differenze di scala fra gli oggetti realmente esistenti e fra questi e la facoltà dell' immaginazione di andare sempre "al di là", oltre i limiti del reale esperibile empiricamente, secondo una procedura che Leopardi mutua anche dall'osservazione ottica e/o astronomica oltre che dalla tensione fra infinità del desiderio e carattere limitato della sua soddisfazione. Anzi, questo è uno dei casi dove vengono a convergere, nel loro modo d’azione, teoria del piacere e teoria astronomica. Il "nulla", inoltre, è il luogo dove il "possibile", in determinate condizioni e circostanze, può diventare reale.

Il passaggio dalla possibilità alla realtà per Leopardi è un evento dominato dal caso, che (insieme alle circostanze) si rivela così l'agente fondamentale per la traduzione concreta di uno dei mondi possibili in un mondo reale. Tale traduzione, però, non chiude la storia della natura (e dell'uomo) alle altre possibilità, ma, al contrario, lascia sempre aperto il campo alle altre soluzioni. Il possibile, quindi, è più ricco del reale, non solo perché esso contiene in potenza tutti i reali di cui solo alcuni vengono via via selettivamente attualizzati, ma anche in quanto dominio dell'invenzione, dell'inedito, della novità. Il "nulla" leopardiano, quindi, è la dimensione spazio-temporale dove è collocato il reale e dove il possibile - in maniera imprevedibile - può diventare reale: "Il nulla non impedisce che una cosa che è, sia, stia, dimori. Dove nulla è, quivi niuno impedimento a ché una cosa non vi stia o non vi venga" [Z,4233]. Il "nulla" è quindi il luogo principale della intersezione fra dimensione spaziale e temporale della realtà, fra essere e divenire delle cose, dove il divenire, come si è detto, non va inteso in senso esclusivamente negativo, come perire (che comunque in Leopardi ha una risonanza estremamente forte) , ma anche come nascere; non solo come distruzione ma anche come costruzione (dell'inedito). Anche in questi significati esso ribadisce il suo carattere relazionale. Però il lato nichilistico più estremo in Leopardi va oltre la cosmologia, o, meglio, oltre l'intersezione fra cosmologia e antropologia. Esso, infatti riguarda piuttosto il significato di questo incessante nascere e venir meno delle cose individue. Il "vero" più autentico di cui Leopardi sembra essere portatore, infatti, consiste piuttosto nella impossibilità radicale, estrema e assoluta di conoscere il significato di questa perenne metamorfosi. Perché questo significato non esiste in quanto le "cose stanno così perchè così stanno" |Z, 1339| o anche perché l’insieme dei significati attribuiti e attribuibili a essa è comunque uno degli insiemi possibili, relativi al nostro mondo, sia sincronicamente che diacronicamente.

Come si è detto, la relatività (e la casualità) riguarda anche la storia umana. Per Leopardi, infatti, nello stesso spazio storico erano possibili sviluppi differenziati del processo di civilizzazione dei popoli, e in questo potevano darsi - e coesistere - diverse civiltà rispondenti a diversi stadi del processo. Quest'ultimo, però, non obbediva a nessun fine intrinseco, a nessuna legge interna di sviluppo, né doveva essere pensato come lineare e progressista: anch'esso, infatti, era dominato dal caso e dal ripresentarsi ciclico (dopo la rottura dell’originario stato di natura) della stessa relazione ineliminabile civiltà/barbarie.

Volutamente si è messa l'enfasi sulla dimensione spaziale del relativismo leopardiano e della sua idea del "nulla", poiché in effetti essa è fortemente presente e insistita in tutte le sue opere, a partire da quelle "giovanili". L'astronomia copernicana, infatti, aveva innanzitutto modificato l'insieme delle relazioni spaziali dell'uomo, uguagliando di queste il peso specifico, qualitativo, dei loro diversi orientamenti come risultato della sparizione della distinzione gerarchica fra moti e corpi celesti e moti e corpi terrestri. In un brano dei Ricordi di infanzia e di adoloscenza (1819), per esempio, si ha un progressivo passaggio dalle relazioni fra gli oggetti comuni, alla dimensione astronomica, alla relatività cosmologica, mediante quel vero e proprio "esperimento mentale" rappresentato dal vedere da altri punti nello spazio, cioè secondo diverse (ma ontologicamente equivalenti) prospettive spaziali: "A quello che ho detto della meschinità degli edifici, si può aggiungere la meschina figura che fa per esempio una torre ec. qualunque più alta fabbrica veduta di prospetto sopra un monte e così una città che si veda di lontano stesa sopra una montagna...tanto è imparagonabile quell'altezza del monte che tuttavia non è altro che un bruscolo sulla faccia della terra e in pochissima distanza sollevandosi in alto si perderebbe di vista (come certo la terra veduta dalla luna con occhi umani parrebbe rotondissima e liscia affatto) e si perde infatti allontanandosene sulla stessa superficie della terra". Ancora nei Ricordi, si trova un importante accenno alla dimensione relativistica e spaziale del "nulla", proprio in riferimento alla tematica così centrale della pluralità dei mondi: "Mie considerazioni sulla pluralità dei mondi e il niente di noi e di questa terra e sulla grandezza e la forza della natura che noi misuriamo coi torrenti ec. che sono un nulla in questo globo, ch'è un nulla nel mondo e risvegliato da una voce chiamantemi a cena onde allora mi parve un niente la vita nostra e il tempo e i nomi celebri e tutta la storia ec.". In questo caso l'allusione forte al divenire, soprattutto nel senso già detto del perire, del venir meno, - più volte rielaborato negli idilli - viene posta significativamente dopo la sensazione di annichilimento, provocato nell'animo del giovanissimo letterato dalla dimensione relativa delle cose rispetto all'immensità dell' Universo fisico (che purtuttavia era poca cosa in confronto della differenza fra questo e l'infinità del "nulla"). Questo sentimento di vanità della storia umana (e della perdita di senso dei suoi valori sulla scala dell’infinito) sembrerebbe scaturisce, in prima istanza, anche da un confronto della sua piccolezza in confronto agli "interminati spazi" ("ove per poco il cor non si spaura") e alla infinità dei tempi nella quale essa doveva ormai necessariamente essere collocata. Nel Cantico del gallo silvestre Leopardi definisce "spazio di esistenza" la durata temporale degli enti individui sulla dimensione cosmologica argomento dell’operetta, come se la dimesione spaziale e quella temporale fossero - anche linguisticamente - inseparabili (anche se la prima mi pare preceda la seconda, come è, tra l’altro nell’Infinito).

La posizione leopardiana, benché originale, tuttavia non era unica. La fine degli individui e la permanenza della natura come un "tutto", associata spesso al simbolo mitico della fenice; l'idea stessa di un tempo che simultaneamente "crea e distrugge", erano quasi un luogo comune in gran parte della cultura naturalistica del XVII e del XVIII secolo. In questa la stessa idea di "nulla" era assai presente. Prenderemo, per esempio, proprio un autore molto lontano dal nostro poeta-filosofo: Immanuel Kant. Questi, infatti, nella Storia generale della natura e Teoria del cielo del 1755, opera fortemente intrisa di quello spirito relativistico di cui si è detto, sosteneva l'idea cosmogonica di una "estensione progressiva della creazione", in atto attraverso lo spazio infinito contenente la materia primordiale e lungo l'infinità del tempo futuro. Secondo Kant, quindi, l'Universo attuale, per quanto enormemente esteso, doveva essere considerato limitato, racchiuso in una "sfera finita" al di fuori della quale esisteva una "zona esterna infinita", sede del disordine e del caos, da cui in successione avrebbero preso origine nuovi mondi. La sfera esterna coincideva con lo spazio infinito "magazzino di tutte le forme possibili della natura": idea, come si vede, affine a quella leopardiana di "nulla". L’idea che lo spazio fosse il luogo della potenzialità della creazione di nuovi mondi era stata sostenuta - in maniera poetica - tra gli altri da John Milton e Albrecht von Haller.

Attraverso il suo relativismo metafisico radicale Leopardi arriverà a riproporre una nuova idea della "coincidenza degli opposti" (come, per esempio, quella già vista fra "infinità" e "nulla") e, cosa ancor più eversiva, riterrà non valido il principio di non contraddizione, che era alla base del pensiero razionale occidentale: del resto se nel nuovo Universo rivelato da Copernico, Kepler, Galilei, Descartes e Newton (e anticipato per questi aspetti da Nicola da Cusa) uno stesso oggetto poteva essere contemporaneamente "grande" o "piccolo" o, meglio, solo "più grande" o "più piccolo", oppure solidamente esistente e nello stesso tempo evanescente, come pensare ancora che una stessa cosa possa rigidamente o essere o non essere? La messa in questione del principio di non contraddizione è quindi una conseguenza di quell'ipotesi di infinita possibilità di cui spesso parla il Leopardi "copernicano", che in alcuni momenti sembrerebbe stare all’origine della stessa distinzione fra essere e nulla. Questa ipotesi, in effetti, si colloca al di là ai limiti dei dati del pensiero razionale; è una sorta di rêverie savante (nel senso di Bachelard), come, del resto, molte delle riflessioni originate dall'attuale, dalle passate e dalle future cosmologie.

["Novecento", n. 17/1999]
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