Racconto
Ero
arrivato a Firenze il quattro di marzo, con in tasca un milione e
cinquecentomila lire, e le prime quattrocento se l’era subito prese il barista
che mi subaffittava una stanza nel suo appartamento polveroso. Non era male come
sistemazione, anche se le pareti erano talmente vecchie e annerite dal tempo e
dall’incuria, che finivi sempre per sentirti una leggera patina di polvere
sulla lingua e la gola secca.
Il
secondo giorno, mentre lo osservavo che in ginocchio nel bagno passava
dell’acido muriatico nella vasca e smadonnava, avvolto dai vapori puzzolenti
del prodotto che aveva versato generosamente, gli ho chiesto “Ma perché non
provi a dare una rinfrescata ai muri ? Se la casa è sempre così sporca è
perché cade polvere continuamente.”
“Mai !”
mi ha risposto. “Quella gran bagasciona della padrona di casa non mi ridarebbe
mai i soldi della vernice !”
Così,
giorno dopo giorno, ho capito perché c’era un pentolino da latte dietro il
water, a raccogliere una perdita, e in bagno mancava il benchè minimo attrezzo
per appendere gli asciugamani. Ho capito anche perchè il citofono non
funzionava, non esistevano lampadari né abat-jour, l’attaccapanni
all’ingresso era costituito da due grucce attaccate al tubo della vecchia
stufa a gas in disuso...
Ero
in centro però, e di stare comodo non m’era mai importato nulla. Pulito sì
però, e per quanto potevo cercavo di prendere ogni precauzione per non
lasciarmi travolgere dallo sporco, come ricoprire le pareti della mia camera con
qualsiasi manifesto mi capitasse di procurarmi e corazzare il cesso con
abbondanti strati di carta igienica sulla tavoletta, prima di ogni seduta.
Avevo
due romanzi nel cassetto e uno spirito guerriero che avanzava, lo sentivo, verso
le luminose intermittenze di qualche verità. Potevo mai preoccuparmi delle
ristrettezze in cui mi dibattevo ? Sì, me ne preoccupavo. Con la stessa
intermittenza con la quale il mio spirito si librava nelle alte sfere di mondi
ideali, la mia parte più istintiva si angustiava per il fatto che i miei
risparmi sarebbero presto finiti, e se non avessi trovato il modo di procurarmi
un reddito, le cose si sarebbero messe male. Avrei potuto tornare nella mia città,
a casa dei miei genitori. Ma al pensiero avvertivo una sensazione dolciastra di
disistima nei miei confronti, forse perché il giorno prima di partire, un po’
teatralmente, li avevo investiti con queste parole.
“Non
ne posso più della vostra noia borghese, del vostro atteggiamento da mìtili,
chiusi nel loro guscio pur di non sporcarsi le mani. La vostra paura del vuoto
è paralizzante, contagiosa, e le comodità che il sistema consumistico vi offre
sono la zavorra che vi ha sempre impedito di arrivare a guardare un po’ più
in alto. Io ho deciso di andarmene via. Vado ad affrontarlo il vuoto. E
combatterò finchè la vita non mi darà del tu e comincerà a svelarmi i suoi
segreti.”
Mia
madre aveva sollevato gli occhi dall’articolo che stava leggendo su “Chi”,
tra le cui colonne campeggiava una foto della gengivosissima ex presidentessa
della camera mano nella mano col suo giovane marito, e lo aveva rivolto
interrogativa verso mio padre. Mio padre, seduto al tavolo della cucina a
escogitare, come ogni sabato, il modo migliore di distribuire la sua tripla e
due doppie sulla schedina, era leggermente arrossito e, con la sua voce roca, mi
aveva quasi sussurrato “Fa’ le valige e togliti al più presto dalle palle,
imbecille.”
Il
lunedì compravo “La Pulce”, il martedì “Il Mercatino”, il giovedì “Mercatutto”,
il venerdì “Affarissimo”, ma quasi tutte le offerte di lavoro riguardavano
vendite porta a porta, o negozio per negozio o, per chi era già un po’ più
su e aveva esperienza, si trattava di ambite posizioni di BUYER, PRODUCT
MANAGER, AREA MANAGER, PROMOTER, VISUAL MERCHANDISER e che il diavolo se li
portasse tutti quanti se per un laureato in Lettere Moderne, con spiccata
propensione per le lingue e una creatività senza limiti, non c’era nulla di
meglio che cercare di vendere robaccia a cittadini diffidenti in pantofole.
Ma
un giorno, dopo una settimana che leggevo annunci e l’ultimo libro di Mario
Fortunato, alternando la lettura a oziose passeggiate tra Ponte Vecchio e Piazza
del Duomo, in cui cercavo di tradurre quello che si dicevano tra loro i turisti
e gli studenti americani che mi passavano vicino, ho trovato un annuncio con
un’offerta di lavoro che mi è sembrata interessante.
Non
stava su nessuno dei giornalini specializzati che acquistavo in edicola. Era su
un foglietto verde affisso ad un vecchio portone di via S. Gallo e conteneva,
stampati col computer, un occhio dalla pupilla penetrante e questa scritta
Sei
giovane, sensibile, in grado di penetrare l’animo di chi ti sta intorno ?
Se la risposta è sì, sali al quarto piano, abbiamo un lavoro interessante per
te.
Mi
sono guardato nella vetrina di un fornaio per vedere se ero presentabile e ho
domato un paio di ciocche ribelli, riflesso tra rosette e frittelle di riso. Ho
dato una stirata con le mani al pullover che indossavo e sono entrato nel
portone, che ho trovato già aperto.
Al
quarto ed ultimo piano c’era una sola porta con campanello e una targhetta
d’ottone diceva NOVAMENS-Dr De Pisis. Ho
bussato subito, e ho sbagliato, perché quando un signore imponente dai lunghi
capelli bianchi mi ha aperto, non avevo nemmeno il fiato per parlare. Così ho
fatto confusamente capire a quel tipo che ero lì per l’annuncio sul portone e
sono rimasto zitto finchè, dopo avermi a lungo scrutato, non mi ha fatto cenno di seguirlo per il corridoio.
Siamo
arrivati in uno studio molto grande, con bellissime librerie di legno scuro
piene di volumi in edizioni lussuose. Quel signore si è seduto dietro una
scrivania in noce completamente sgombra e ha continuato a fissarmi. Se uno ha
presente Franco Mussida, il chitarrista della P.F.M., se lo può figurare
preciso com’era. Era uguale !
“Allora...”
ha cominciato, “Io sono il Dottor De Pisis, psicologo. E lei ?”
“Mi
chiamo Mauro, Mauro Maris. Sono laureato in Lettere Moderne e...”
“Non
le ho chiesto se è laureato in qualcosa. Per il lavoro che mi serve ho bisogno
di una persona intelligente, e capace di dialogare con gli altri.”
“Di
cosa si tratta ?”
“Diciamo
che si tratta di una ricerca scientifica sul campo. Sono convinto di aver
scoperto una tecnica di analisi innovativa, che può risolvere i problemi di
moltissime persone. Anche di persone normalissime, non malate di mente, che
potrebbero liberarsi di tutti quei cortocircuiti, di tutti quei buchi neri
dell’inconscio che le portano ad avere dei comportamenti autodistruttivi, e
perciò ad assicurarsi un’esistenza infelice o comunque insoddisfacente.”
“Fiuuu !
E’ roba interessante, ma il mio lavoro in cosa consisterebbe ?”
“Semplice
comunicazione. Lei dovrebbe illustrare il nuovo metodo da me messo a punto,
chiaramente in modo sommario, a tutte le persone che le sembra possano averne
bisogno, e dovrebbe lasciar loro un mio biglietto da visita.”
“Tutto
qui ?”
“Sì.”
“E
dove dovrei reperire queste persone ?”
“Dove
le pare. Diciamo in centro città più che altro, senza stare ad allontanarsi
troppo.”
“Porta
a porta ?”
“Porta
a porta.”
“Veramente...Mi
ero ripromesso di non accettare lavori porta a porta.”
“Signor
Mauro, anzi, Mauro (non ti dispiace se ti do del tu, vero ?), non devi mica
vendere nulla. Devi solo presentarti con gentilezza e parlare per qualche
minuto. E poi lasciare il biglietto da visita.”
“E
di quanto sarebbe la retribuzione ?”
“Diciamo
che per ogni persona da te contattata che verrà nel mio studio percepirai un
premio di ventimila lire, più un fisso di seicentomila al mese. Va bene ?
Puoi gestirti tu il lavoro e gli orari come meglio credi.”
“Ma...
Lo stipendio andrebbe anche bene...E anche quest’autonomia che mi offre mi
piace abbastanza. Il fatto è che non credo di essere adatto per un lavoro porta
a porta. Sono timido. Mi sbatterebbero tutti la porta in faccia entro dieci
secondi.”
“Non
devi preoccuparti per questo. Questo aspetto non rappresenterà un problema,
perché ti ho preparato una sorta di vademecum che ti fornirà un metodo
infallibile per farti accogliere bene ed ascoltare da chiunque. Ricordati che
sono uno psicologo.”
Sono
rimasto per qualche secondo in silenzio. Guardavo gli occhi neri sfavillanti di
De Pisis che mi inquadravano con un’espressione di attesa ma anche ma anche di
sicurezza, di imperiosità in un certo senso.
“Va
bene !” ho detto, “Per me va bene.”
De
Pisis ha sorriso. Ha aperto un cassetto della scrivania e ne ha tirato fuori una
scatola di velluto nero poco più grande di un pacchetto di sigarette, e un
piccolo libretto di poche pagine dalla copertina plastificata.
“Qui
dentro ci sono i biglietti da visita,” ha detto dando dei colpetti sulla
scatola, “mentre questo” e ha indicato il libretto, “è il tuo Vademecum.
Mi raccomando di seguirlo alla lettera. Non devi inventare nulla, non devi
improvvisare nulla. Devi soltanto fare e dire esattamente ciò che è indicato
nel Vademecum.”
“Va
bene, come vuole.”
Si
è alzato. Mi ha allungato la mano da stringere e ha aggiunto, “Un’altra
raccomandazione... Tu capisci che questo modo di contattare i pazienti non è
proprio canonico per uno psichiatra... Per cui ti sarei grato se volessi
osservare la massima discrezione possibile su questo lavoro con amici e
conoscenti.”
“Certo.
Capisco.”
“Allora,
prendi le tue cose e puoi cominciare domani stesso. Noi ci vediamo tra qualche
giorno. E stasera studia bene il vademecum, mi raccomando.”
Ci
siamo sorrisi di nuovo e sono uscito. Mi sembrava in gamba il dottore, e mi
sembrava davvero il tipo in grado di scoprire qualcosa di nuovo in campo
scientifico.
Per
le scale e mentre tornavo verso casa ho fatto qualche conto. Se gli avessi
procurato soltanto due pazienti al giorno, avrei guadagnato una cifra superiore
al milione e mezzo mensile. Ma come avrei fatto a sapere quanti sarebbero andati
allo studio ? Era un rapporto sulla fiducia evidentemente. Ma sì, mi sono
detto, mi ispira fiducia il De Pisis, con la sua aria da scienziato pazzo. E poi
seicentomila sono assicurate, male che va. Per il resto staremo a vedere,
dopotutto, se mi darò da fare, potrei anche lavorare soltanto mezza giornata.
Quella
sera nella mia camera, circondato dai visi ormai familiari di Batistuta, di un
altro giocatore della Fiorentina di cui non ricordo il nome, di Sergio Caputo
live in una discoteca di Marina di Grosseto ed altri, compreso quello di una
tettona in un poster di stile decisamente camionistico, ho studiato con
attenzione il vademecum sul libretto plastificato.
Era
diviso in cinque fasi, una pagina per ognuna di esse. Le fasi erano : 1
l’Approccio ; 2 il Sondaggio ; 3 la Transizione ; 4 la
presentazione ; 5 la Conclusione.
La
fase dell’approccio diceva tra l’altro : Lo
scopo di questa fase è farsi accettare. Bisogna avere un aspetto curato,
rilassato e sorridente, e avere con sé una cartellina con dei fogli su cui
appuntare le risposte date dalla persona intervistata alle domande del
sondaggio.
Quindi,
la seconda pagina riportava la lista delle domande da fare, con varie opzioni
per andare avanti a seconda delle risposte fornite man mano dall’intervistato.
La
fase di transizione aveva come scopo quello di riuscire ad entrare in casa. Una
volta dentro seguivano la Presentazione e la Conclusione.
Tutto
sembrava facile a sentire il vademecum, ma avevo come il presentimento che dalle
maglie di quella tattica escogitata secondo principi di alta psicologia potesse
pur sempre sfuggire qualche comportamento imprevisto, davanti al quale mi sarei
trovato spiazzato. Era il ricordo di De Pisis a tranquillizzarmi un po’.
Il tono sicuro e quasi divertito con cui mi aveva detto “Ricordati che
sono uno psicologo.”
Una
volta sicuro di aver memorizzato a dovere le cinque fasi ho guardato
l’orologio e s’erano fatte le undici e un quarto. Sono sceso alla cabina
telefonica all’angolo e ho telefonato a Katia, la mia ragazza, per salutarla
prima di andare a dormire.
Se
devo dire proprio la verità, cosa che ci tengo a fare sempre, soprattutto con
me stesso e quando scrivo, che poi è uguale, da quando ero partito la nostalgia
di Katia non m’aveva affatto straziato. Anzi,
la lontananza me la faceva inquadrare, mi sembrava, con una inedita e impietosa
lucidità. Non solo paragonavo le sue tette quasi inesistenti con quelle delle
spavalde studentesse che incontravo a torme la mattina lungo via S. Gallo. Ma
avvertivo anche una certa placida, inerte aridità interiore manifestarsi nei
suoi occhi verdi cerchiati dagli occhiali, se me li immaginavo così, a
distanza. Non sto dicendo che Katia non è intelligente, per carità. Figurarsi
che ciò che mi ha sempre attratto in lei, fin dal secondo liceo quando ci siamo
messi insieme, è stata proprio la sua avidità insaziabile di cultura. A scuola
era la prima della classe, ma i suoi interessi già da allora spaziavano molto
al di là delle materie scolastiche. Si intende di astrologia ed esoterismo, di
yoga e di alpinismo, e ha letto romanzi di scrittori americani, inglesi e anche
orientali di cui confesso di non riuscire a ricordare nemmeno il nome. Eppure,
se posso dirlo, a osservarla a freddo da qui, direi che è una persona
superficiale. Tutte le sue letture, le sue ricerche, non sono altro che hobby
intellettuali, farciture debordanti da una piccola tartina sciapa. Quello che mi
sembra le manchi, a lei come a tutti gli intellettualoni del suo tipo, è un
motivo, una ragione scatenante e insopprimibile da cui scaturisca il movimento.
E’ come se giocassero a costruirsi pezzo per pezzo un’identità. Ogni dieci,
venti libri che aggiungono al loro bagaglio, si sentono un po’ più sicuri, ma
io so che solo su delle vere macerie si può costruire qualcosa, solo nel vuoto
autentico si può provare a volare. E so anche che una volta che ci si è
provato davvero non c’è nient’altro che conti nella vita, se non continuare
a buttarsi da cime sempre più alte, col rischio che comporta. Ecco, mi sembra
che Katia non abbia minimamente intenzione di buttarsi mai da nessunissima
parte. Ciò che vorrebbe in fondo, è acquistare abbastanza potere da dominare
la vita stando ferma al suo posto, dura e incrollabile e fredda come un macigno.
Il
mattino dopo ho aspettato con un po’ d’ansia che si facessero le dieci, in
modo da non correre il rischio di buttare la gente giù dal letto, e sono sceso
in strada per iniziare il mio lavoro.
Mi
sono diretto verso piazza del Duomo e dopo un po’ ho voltato in una traversa
di via de’ Ginori . Al primo palazzo che mi sono trovato davanti ho bussato ad
uno dei pulsanti superiori del citofono.
Com’era
indicato sul vademecum per farmi aprire il portone, alla voce che mi ha chiesto
chi fosse ho risposto, con un po’ di scetticismo, “Incaricato statistiche,
mi apre ?”
La
voce è rimasta zitta per qualche secondo, poi s’è sentito lo scatto del
portone che si apriva.
Sono
salito a piedi fino all’ultimo piano, quindi ho bussato al campanello della
stessa persona che mi aveva aperto, quello con scritto Toseddu.
Ho sentito ciabattare all’interno dell’appartamento, finchè la porta
s’è aperta e mi è comparso davanti un vecchio in vestaglia coi capelli corti
bianchissimi e la faccia plissettata.
Mi
ha fissato con occhi spiritati da cavia di laboratorio impazzita e io, col cuore
a tremila battiti/minuto, l’ho guardato implorante e ho attaccato la mia
parte.
“Buongiorno,
mi chiamo Maris e sto facendo un sondaggio di carattere scientifico tra la
popolazione.”
“Che
razza di sondaggio è ?” ha detto il vecchio, che aveva un marcato
accento sardo, con una tale grinta che ho avuto la tentazione di chiedere scusa per il disturbo e girare subito i tacchi.
“E’
un sondaggio psicologico, per misurare il livello di realizzazione personale dei
cittadini.”
“E
a lei cosa gliene frega se i cittadini sono realizzati o no ?”
Mi
sarei messo a piangere, e invece ho cercato di riprendere fiato e ho insistito,
ricordando cosa prescriveva il vademecum in casi come questi.
“Signore,
non sia così diffidente. Lo scopo della mia visita non è quello di venderle
qualcosa, ma solo di farle qualche domanda.”
“Ma
quale domanda e domanda, io li conosco quelli come lei. Con la scusa delle
domande incastrate le persone ingenue e gli fate comprare enciclopedie che
costano milioni, o quei diavolo di aspirapolvere.”
Fare subito la prima domanda, diceva il libretto.
“Si
sente spesso affaticato, senza nessun motivo ?” ho chiesto con tono
mellifluo.
“E’
lei che mi ha affaticato. Vada a rompere le scatole da un’altra parte !”
Il
vecchio sardo mi ha sbattuto la porta in faccia e ho sentito uno scricchiolìo
interno provenire dal mio amor proprio.
Avrei
dovuto suonare all’appartamento a fianco, ma l’immagine del vecchio che mi
seguiva dallo spioncino e che magari usciva di nuovo ad allearsi col
dirimpettaio per cacciarmi meglio mi ha atterrito, così sono sceso direttamente
al piano di sotto.
“Buongiorno
signora, mi chiamo Maris e sto facendo un sondaggio di carattere scientifico tra
la popolazione.”
“Mi
dispiace ma sto uscendo.”
“Si
tratta solo di cinque minuti.”
“Non
ho neanche un minuto, sono già in ritardo.” Slam !
Di
fianco c’era una cicciona sui quaranta, coi capelli rossi lunghissimi e una
veste da camera molto succinta, che lasciava intravedere delle zizze bovine.
“Buongiorno
signora, mi chiamo Maris e sto facendo un sondaggio di carattere scientifico tra
la popolazione.”
“Certo,
dimmi tutto bel fanciullo.”
“Si
sente spesso affaticata, senza nessun motivo ?”
“Mai.
Anzi, mi sento sempre piena di energia, piena di fuoco. Capisce cosa intendo ?”
Ho
segnato con un certo imbarazzo la sua risposta sul foglio che avevo davanti, in
corrispondenza del numero civico, dell’interno del palazzo e del cognome
scritto sotto il campanello.
“Ha
problemi ad articolare i suoi pensieri in modo chiaro ?”
“No.
Non credo, almeno.”
“Si
sente nervosa ogni tanto, senza alcuna ragione ?”
“No.”
“Ha
dolori inspiegabili ?”
“No.”
“Trova
difficile emozionarsi in relazione a cose e persone ?”
“Ah no !
Sono molto emotiva io. Pensa che qualsiasi telefilm che finisca un po’ male,
non so, tipo che lui e lei si lasciano o che lui muore in un incidente stradale,
mi metto a piangere come una fontana.”
“Capisco...”
“Per
dirti la verità, anche ora sono un po’ emozionata.” Ha respirato
profondamente, facendo straripare le tette sotto la stoffa sottile. “Sai, non
capita spesso che un bel ragazzo così giovane bussi quando sono da sola in
casa...”
Mancava
solo l’ultima domanda, quella che fa “Le capita di provare acuti stati
d’ansia, senza sapere il perché ?”, ma a quel punto era chiaro che
quella aveva intenzione di farmelo lei un “sondaggio”, quindi ho fatto finta
di concludere la stesura del resoconto nella cartellina e
ho rapidamente levato le tende.
Nel
palazzo seguente, dopo che una colf filippina mi aveva pregato di andarmene
brandendo minacciosamente il bastone del Mocio Vileda, sono riuscito finalmente
a lasciare il mio primo biglietto da visita.
Si
trattava di un uomo sui trent’anni dall’aria svanita e con gli occhiali. Ha
risposto affermativamente a diverse domande del questionario, allora sono
passato alla fase della transizione.
“Questo sondaggio è stato
approntato da un pool di psicoterapeuti di fama mondiale, che stanno mettendo a
punto un metodo per aiutare chiunque ne abbia bisogno a superare le barriere
inconsce che lo separano da una vita piena e felice. Dove mi posso appoggiare
per spiegarle come funziona ?”
AVANZARE diceva il vademecum, e ho
fatto con insospettabile prepotenza un passettino verso l’interno
dell’appartamento.
“Prego,
accomodati pure qui in tinello” ha detto l’uomo.
Mi
sono sistemato in modo che lui, per starmi di fronte, desse le spalle alla
porta, come raccomandato dal libretto, e ho tirato fuori la scatola dei
bigliettini da visita.
Come
prescritto, ho aperto la scatola e l’ho girata verso di lui.
“Se
noi paragoniamo il funzionamento della nostra mente ad una collana di perle,”
ho spiegato, “abbiamo le perle che sono i pensieri, i ricordi, e il filo che
costituisce la ragione, quella facoltà che ci permette di effettuare il
collegamento tra le perle e quindi di operare in modo praticamente infallibile,
risolvendo qualsiasi problema la vita ci presenta.”
“Sì”
ha detto il mio interlocutore, e a guardarlo bene non mi sembrava proprio quello
che si dice un tipo sveglio.
“Il
fatto è che spesso, senza che noi ce ne accorgiamo, il filo è strappato
in alcuni punti e i pensieri vagano scollegati nella nostra mente,
impedendoci di agire in modo razionale, di risolvere i problemi, di avere quindi
una vita felice. E questo avviene per cause esterne, per condizionamenti
dell’ambiente, per esperienze dolorose che hanno creato dei black out nel
nostro circuito razionale.”
“Sì”
ha detto ancora , ma dall’espressione che aveva dubitavo che stesse davvero
capendo. Sono passato quindi
direttamente alla fase della Conclusione.
“Se
lei fosse interessato a sottoporsi ad una seduta di prova di questo nuovo tipo
di analisi, può telefonare a questo numero e chiedere un appuntamento.”
“Sì.”
Gli
ho consegnato un bigliettino e sono passato al piano inferiore.
“Buongiorno
signore, mi chiamo Maris e sto facendo un sondaggio di carattere scientifico fra
la popolazione.”
“Mario ?
Vien, vien purr. T’ va nù caffè”
Il
vecchietto, che non superava il metro e quaranta, parlava uno strano idioma ma
era amabile e mi ha fatto subito entrare, senza che nemmeno iniziassi a fargli
le domande.
Mi
ha portato in un salottino umile ma molto ordinato e mi ha detto “Còmdate, còmdate.
T vad a preparrà lu caffè.”
Mentre
aspettavo seduto sul divano, ho visto una testa bianca sbucare da dietro una
porta socchiusa. Era a mezz’altezza
e mi guardava con curiosità.
“Buongiorno”
ho detto, ma non ha risposto nulla. Ho pensato che doveva trattarsi di una
persona su una sedia a rotelle.
Il
vecchietto è tornato e si è seduto sul divano, a fianco a me.
“Dimm
tutt Marje...” ha detto, e mi ha sorriso come un naufrago che non vedesse un
essere umano da mesi.
Ho
spiegato che dovevo illustrargli una nuova metodologia psichiatrica che avrebbe
potuto cambiargli la vita e ho attaccato con la presentazione, mentre la testa
che sbucava da quella porta continuava a fissarmi.
Quando
ho finito, mi sono permesso di chiedere “Ha capito in cosa consiste il metodo ?”
Il
vecchietto mi ha sorriso con lo sguardo assente e ha detto “Aspett, che vat a
prent lu caffè.”
Quando
è tornato ero di fronte ad una donna seduta su una sedia a rotelle che a suo
modo mi sorrideva. Aveva le gambe ridotte a due manici di scopa e metà del viso
immobile come una maschera di gesso.
“Buongiorno”
le avevo detto di nuovo quando avevo visto che si avvicinava, ma lei aveva
soltanto emesso una specie di mugolio.
Io
e il vecchietto abbiamo preso il caffè in silenzio. Ci guardavamo e ci
sorridevamo tutti e tre a vicenda, la donna con una contrazione che le rendeva
il viso sbilenco.
Alla
fine ho detto che gli lasciavo un bigliettino per andare a provare il metodo, ma
non ero affatto convinto che la sua vita potesse in qualche modo migliorare e,
per dirla tutta, mi sono sentito un cane nel darglielo, perché ci mancava solo
che il De Pisis gli spillasse un po’ di soldi a quei poveracci.
Di
situazioni tristi se ne vedevano di mattina, visto che le persone attive
uscivano e le case erano piene di vecchi, di malati e di disadattati di ogni
genere.
La
più triste di tutte però mi è capitata il
quarto giorno che lavoravo, in un grosso condomino di Viale Lavagnini.
Come
ho suonato il campanello al piano, mi ha aperto una giovane donna in lacrime e
sono stato investito da una sinfonia di urla e grida di pianto.
“Venga,”
mi ha detto la donna, “la stavamo aspettando.”
Non
ho fatto in tempo a spiegarle che doveva esserci un equivoco che già mi aveva
portato in tinello, dove un’altra donna anziana si disperava sul pavimento,
accanto ad un uomo, presumibilmente il marito, riverso col
cranio fracassato.
Il
pavimento vicino all’uomo era un lago di sangue e dallo squarcio della testa
usciva una sostanza gelatinosa.
Ho
sentito mancarmi l’aria e ho cominciato a vedere giallo.
“Mi
posso sedere per favore ?” sono riuscito appena a dire, un attimo prima
di svenire.
Una
volta sulla sedia mi sono pian piano ripreso e ho sorseggiato l’acqua che la
donna giovane mi ha portato.
“Cos’è
successo ?” ho domandato.
“Mio
padre stava mettendo un chiodo alla parete ed è caduto dalla scala. E’ morto
sul colpo. Ha battuto la testa e dopo qualche secondo già non respirava più.”
“Io
... Non credo che stavate aspettando me... Io dovevo fare un coso...Un
sondaggio.”
“Ah !
Allora lei non è il medico legale ?”
“No.
Scusate l’intrusione...”
“Niente,
è colpa mia che l’ho trascinata dentro. Mi scusi lei.”
Mi
sono alzato e a mala pena mi reggevo in piedi. Mi sono diretto come un fantasma
verso la porta d’ingresso, mentre il pianto della vedova s’era fatto più
sommesso ma continuava irrefrenabile.
“Mi
dispiace per il sondaggio,” è riuscita a dire la donna giovane, “sarà per
un’altra volta.”
Insomma,
porta dopo porta, avevo bussato a quella della morte e mi ero fatto prendere di
sorpresa. E’ che non l’avevo mai vista così da vicino, e faceva proprio una
brutta impressione.
Di
giorno in giorno, la mia dimestichezza con quel tipo di lavoro aumentava e
meccanizzavo una tecnica sempre migliore per rendermi convincente. Facevo tesoro
degli errori commessi e oliavo continuamente il meccanismo già molto efficace
offerto dal vademecum.
La
mia percentuale di bigliettini consegnati rispetto alle persone intervistate
aumentava in modo costante, dandomi la certezza di stare compiendo dei
progressi.
Il
dottor De Pisis ha mostrato subito di essere soddisfatto di me e dopo una sola
settimana di lavoro mi ha convocato nel suo studio per pagarmi i primi premi
maturati.
Mi
ha accolto con calore e gli si leggeva in faccia che era contento di vedermi.
“Caro
Mauro, accomodati,” mi ha detto, facendomi segno di sedere di fronte alla sua
scrivania enorme.
“Allora,
hai visto che andare porta a porta era più facile di quanto potesse sembrare ?”
“Bhè,
è comunque dura, ma devo dire che il suo metodo funziona molto bene.”
“Dì
un po’, lo sai quanto hai guadagnato di premi soltanto nella prima settimana ?”
“No.
Non ho proprio idea.”
“Ventimila
per trentadue... Fa un po’ tu...”
“Fanno
seicentosessantamila. Ma com’è possibile ? Io ho lasciato trentadue
bigliettini in totale ! Sono venuti tutti !”
“Tutti .”
Ha detto De Pisis e ha tirato fuori da un cassetto delle mazzette di banconote.
Ha sfilato sei pezzi da centomila e il resto che mi doveva, e me li ha messi
davanti sulla scrivania.
Nel
salutarmi, sulla porta, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto “Datti
da fare più che puoi, amico mio. Il tempo è denaro !”
Quella
sera sono rimasto abbastanza
confuso, preso da una vasta gamma
di pensieri e di sentimenti contrastanti. Ero stupito ma anche compiaciuto,
decisamente contento per le facili prospettive
di guadagno che vedevo all’orizzonte, ma anche assillato da una vena di
sotterranea e indistinta preoccupazione. Comunque, per festeggiare mi sono
concesso una cenetta in una trattoria e poi ho telefonato, senza la solita
fretta per limitare gli scatti, a Katia e anche a mia madre.
Al
telefono mio padre, che era di buon umore, ha voluto parlarmi anche lui.
“Allora,
ti sei trovato un lavoro ?” Mi ha chiesto.
“Sì,
e guadagno anche molto bene.”
“Quanto ?”
“Se
continua così, oltre tre milioni al mese.”
“Sicuramente
ti sei fatto coinvolgere da qualche truffatore. Sei il solito coglione !”
Era
sempre il solito ignorante. Gli ho sbattuto il telefono in faccia.
Ero
confuso, e a testimoniarlo posso citare un episodio che mi è accaduto proprio
il giorno seguente.
Stavo
facendo i campanelli di un palazzo sul lungarno abbastanza elegante in cui, per
poter salire, avevo prima dovuto sondare il portiere e lasciargli un
bigliettino. All’ultimo piano ho bussato ad un appartamento che portava
Prof. Arlini inciso sulla targhetta d’ottone.
Mi
ha aperto un signore sui cinquanta in jeans e camicia bianca, giovanile anche
nel taglio dei capelli lunghi e vaporosi.
“Buongiorno,
mi chiamo Maris e sto facendo un sondaggio di carattere scientifico tra la
popolazione.”
“Mi
dica...Di che si tratta ?” Mi ha detto con grande signorilità.
“E’
un sondaggio di carattere psicologico, per misurare il grado di realizzazione
personale dei cittadini.”
“Ma io mi sento assolutamente realizzato. E lei ?”
“Io ?
Bhè, diciamo...Sì, cioè...Abbastanza. Il fatto è che bisognerebbe prima
stabilire cosa si intende per realizzazione personale...”
“Giusto !
E lei lo ha stabilito, per quanto la riguarda ?”
“Vede...
Io sono una persona un po’ particolare...almeno credo...”
“Ma
venga dentro, si accomodi. Questa conversazione è molto interessante.”
Sono
entrato e l’ho seguito fino ad uno studio-salotto di una bellezza da levare il
fiato, in cui un’intera parete era costituita da una lunga vetrata sul fiume.
Degli splendidi tappeti ricoprivano il parquet scuro, c’erano quadri antichi e
anche una statua di marmo nero che riproduceva il Perseo di Benvenuto Cellini.
Mi
ha fatto accomodare e mi ha chiesto. “Lei crede che avere dei dubbi sulle cose
sia un indice di scarsa realizzazione personale ?”
“No,
al contrario, credo che i dubbi siano il sale della vita !”
“E
io concordo con lei. Ma il fatto di avere dei dubbi porta necessariamente ad una
mancanza di risolutezza e quindi, spessissimo, anche ad una inadeguatezza nei
confronti della vita pratica.”
“Certo,
è proprio il mio caso direi.”
“Eppure
lei va in giro a interrogare gli altri sul loro grado di realizzazione.”
Mi
sono sentito disarmato, e anche un po’ preso in giro. Ho cercato una risposta
che potesse rimettermi in linea di galleggiamento, ma lui mi ha preceduto.
“Ma
una volta appurato il grado di soddisfazione della gente, qual’è il passo
successivo ?”
“Devo
spiegare il funzionamento di un nuovo metodo di analisi psicoterapeutica. Se noi
facciamo finta di avere una collana di perle...” Gli ho spiegato ciò che
avevo imparato a memoria dal vademecum.
“Ho
capito, ma questo pool di psicologi come farebbe, in pratica, a ricucire gli
strappi del filo ?”
“Mediante
una nuova tecnica di analisi, denominata TRANSFER BOOMERANG, che riattiva le
parti inutilizzate della mente, che prima erano causa di pensieri incoerenti.”
“...E
quindi di dubbi !”
La
conversazione è andata avanti per una buona mezz’ora e il mio ospite s’è
dimostrato di un’intelligenza e di una sensibilità fuori dell’ordinario. Ha
fatto emergere tutta l’inquietudine che mi portavo dentro da sempre e anche le
perplessità sul lavoro che svolgevo.
Alla
fine ero completamente alla sua mercè. Mi ha detto che anche lui era uno
psicologo e che insegnava all’università La Sapienza, a Roma.
“Scusami
ora, ma ho del lavoro arretrato da esaminare. Comunque, quando hai tempo, puoi
venire nel mio studio, così cercheremo di togliere un po’ di confusione dalla
tua testa.” Ha preso un bigliettino da visita su uno scrittoio e me l’ha
allungato.
Un
paio di giorni dopo m’è capitata una cosa che racconto con un certo
imbarazzo, ma l’ho detto, quando scrivo potreste pure minacciarmi di morte che
non mi convincereste a non dire tutta la verità...
Ad
un campanello di via San Zanobi mi ha aperto una creatura di una tale perfezione
nelle proprie fattezze, di una tale dolcezza nei modi e calma intelligenza nello
sguardo, che quando mi ha fatto entrare ho perfino dimenticato di presentargli
il metodo del De Pisis. Ho visto che stava leggendo “Due di due” di De Carlo
in edizione economica e sono stato preso dall’entusiasmo. Ho raccontato che
avevo fatto la mia tesi di laurea sui suoi libri e che lo avevo anche
conosciuto. Ha detto che era uno dei suoi scrittori preferiti, ma che preferiva
Tondelli, perché lo sentiva più vicino in qualche modo. Ci siamo scambiati le
nostre opinioni sugli scrittori italiani contemporanei e si lamentava che i
programmi dell’università non li contemplassero. Entrambi non capivamo
l’accanimento dei critici nei confronti della Tamaro, che comunque ritenevamo
una scrittrice vera. Ci piaceva Culicchia, anche se eravamo d’accordo sul
fatto che non avesse ancora scritto delle cose all’altezza del suo potenziale,
mentre su Del Giudice ha detto, dando forma di parole precise ad alcune
sensazioni che avevo avuto leggendolo, “A parte ‘Staccando l’ombra da
terra ‘, trovo che raffini troppo ciò che vuole dire, riducendolo fino
ai minimi termini e facendolo arrivare ormai freddo sulla carta.”
A
casa ho ripensato a queste parole, a come pescavano meravigliosamente in
profondità.
Ma
ho pensato a lungo anche ai tratti perfetti del suo viso, all’espressività un
po’ infantile della sua risata, alla luminosità conturbante dei suoi capelli
biondi e della sua pelle chiara e liscia.
Mi
dicevo che avrebbe potuto essere una specie di angelo, una creatura asessuata
che incarnasse l’idea che avevo sempre avuto della perfezione. Ma alla fine
dovevo sempre ammetere che Claudio era inequivocabilmente un uomo.
Cosa
mi stava succedendo allora ? Ero passato all’altra sponda tutto d’un
tratto ?
Ho
cercato di andare a ritroso nella memoria e di cercare segnali di un’omosessulaità
latente nel passato, ma a parte qualche gioco di lotta un po’ troppo insistito
con un compagno della squadra di pallavolo, non ho trovato nulla di
significativo.
Eppure
dal quel giorno sono andato a trovare Claudio ogni volta che potevo, e quando ci
laciavamo, non riuscivo a togliermelo dalla mente. Neanche di notte, quando
facevo dei sogni erotici così abilmente dissimulati dalla mia mente, che avrei
costituito un caso sicuramente interessante per De Pisis.
Inutile dire che, mentre mi accadevano queste cose inaudite,
Katia è rapidamente scomparsa dai miei pensieri, senza lasciare nessuna traccia
evidente.
Alla
fine della seconda settimana De Pisis ha fatto i suoi conteggi e mi ha allungato
settecentoventimila lire sul tavolo. Le ho prese con il retro-pensiero che avrei
dovuto chiedere qualche spiegazione, ma la mia mente era talmente pervasa dalla
presenza continua di Claudio che non m’interessava più nulla di certi
dettagli.
Quella
sera, elettrizzato dal profumo della primavera ormai nell’aria, gli ho
telefonato da una cabina in centro e l’ho invitato a venire a cena in un
ristorante.
E’
rimasto perplesso e la cosa mi ha fatto un male incredibile, visto che mi
aspettavo che accettasse subito con entusiasmo. Dopo aver pensato per qualche
istante, mi ha detto “Mauro, sei molto gentile come sempre, ma credo di non
poter venire.”
“Che
peccato...” ho detto, e mi sono spuntate quasi le lacrime agli occhi. “Forse
non avrei dovuto dirtelo così all’improvviso... Hai già preso un altro
impegno ?”
“Sì.
Sai, di sera forse è meglio che non ci vediamo. Un giorno poi ti spiegherò.”
“Buon
divertimento allora. Posso passare la mattina, quando mi trovo in zona ?”
“Certo,
come no ?”
“Ciao.”
“Ciao
Mauro, buona serata anche a te.”
Ho
riagganciato il telefono e ho sentito che la mia vita non valeva niente. Niente
i miei libri, la mia ricerca, niente il mio viso mediterraneo e il mio corpo
abbastanza armonioso, niente i soldi che riuscivo a guadagnare e che
all’inizio mi avevano fatto sentire euforico. Ho vagato per le vie eleganti
del centro in un tramonto di incredibile bellezza, tra turisti spensierati
e fiorentini ricchi che facevano shopping, ma nulla era in grado di
scalfire la cappa di malinconia che m’era calata addosso.
Quando
il martedì mattina sono andato a trovare Claudio mi ha detto, con un velo di
dispiacere nei bellissimi occhi azzurri, che non potevamo più vederci così
spesso. Mi ha confidato di essere innamorato di un ragazzo che si chiamava
Samuele e lavorava in una fabbrica di materassi. Ha detto che stavano insieme da
tre anni e che lo aveva conosciuto per mezzo di suo cugino, che giocava nella
stessa squadra di rugby.
“Mi
dispiace Mauro, ma forse è meglio che non ci vediamo più così di frequente.
Non vorrei che Samuele si ingelosisse.”
Gli ho detto “Capisco.
Comunque, non dovrebbe preoccuparsi di me. Io non sono omosessuale.”
Claudio
ha sorriso, con una punta d’ironia m’è sembrato.
L’ho
presa male, ma molto male. Giravo per la città come uno zombi triste e
incattivito e sfogavo tutta la mia rabbia sul lavoro. Ero diventato una specie
di panzer consegna-bigliettini, che una volta entratovi in casa vi avrebbe
puntato un coltello alla gola pur di raggiungere il suo scopo.
Per
il resto non leggevo, non scrivevo e non pensavo neanche più, perché qualsiasi
pensiero articolato veniva disturbato prima o poi da qualche immagine di
Claudio, con effetti oscillanti tra il dolcissimo e il dolorosissimo.
Alla
fine del primo mese di lavoro, De Pisis mi ha convocato per andare a prendere lo
stipendio, comprensivo del fisso più i premi maturati nell’ultima settimana.
Ma quel pomeriggio ero così talmente ipocondriaco che non c’è l’ho nemmeno
fatta ad alzarmi dal divano puzzolente del tinello, e ho continuato a guardare
cartoni animati e talk show e Emili Fede officianti, scolandomi una bottiglia di
Lambrusco, finchè non sono passato dal torpore al sonno profondo.
Ho
deciso di andare a prendere i soldi la mattina dopo, nella speranza di trovare
il dottore allo studio.
Il
portone era aperto e sono salito lentamente su per le scale, con la testa ancora
pesante per la sbronza della sera precedente.
Avevo
già poggiato il dito sul campanello, quando ho notato che la porta era stata
chiusa male, senza far riagganciare completamente la serratura.
Ho
esitato un attimo, senza sapere il perché, poi ho spinto piano il battente e
sono entrato.
Quando
sono arrivato vicino alla stanza del dottore, l’ho sentito che diceva qualcosa
in un tono fermo. Sono rimasto in piedi fuori alla porta chiusa e, dopo qualche
istante di silenzio, la voce di De Pisis ha detto “La stavo aspettando signor
Cutrelli, perché so che lei ha un negozio molto ben avviato in via Dei
Calzaioli e quindi deve avere un bel mucchio di soldi in banca.”
“Veramente,
negli ultimi tempi abbiamo messo molto nei fondi comuni d’investimento. Sa,
con la borsa che in questo periodo tira così bene...”
“Certo,
ha fatto benissimo. Ma ce l’ha una decina di milioni sui suoi conti da potermi
portare, vero ?”
“Sì,
dottore.”
“Padrone,
mi chiami pure padrone.”
Il
sangue mi s’è praticamente ghiacciato all’istante in tutto il corpo. Con un
velo di sudore freddo sulla fronte mi sono chinato e ho guardato nel buco della
serratura.
De
Pisis era seduto alla scrivania e di fronte a lui c’era un signore sulla
sessantina, al quale avevo lasciato un biglietto qualche giorno prima.
“Sì
padrone,” ha detto, “mi scusi.”
“Bravo
Cutrelli.”
“Sa
cosa deve fare Cutrelli ? Domani stesso vada in banca e si procuri dieci
milioni in contanti, così quando è sicuro che nessuno possa insospettirsi e
venirle appresso, me li porta qui in studio.”
“Sì,
padrone.”
“A
che ora crede di poter venire ? Sa, qui c’è sempre un viavai di
gente...”
“Alle
otto, dopo la chiusura.”
Ho
notato che davanti agli occhi del paziente De Pisis aveva sistemato una scatola
come quella in cui io tenevo i biglietti da visita e che, a guardarla dalla mia
angolazione, emetteva strane luminescenze.
“Cutrelli,
le ordino di non parlare di questo con nessuno e se qualche familiare dovesse
far caso al prelievo, inventi una scusa plausibile. Ora puo’ andare. Faccia
fino a domani la sua vita normale, senza compiere alcun gesto inconsueto.”
“Sì
padrone. A domani.”
“A
domani,” ha ripetuto De Pisis, mentre in punta di piedi già stavo
avvicinandomi alla porta d’ingresso. Ho chiuso delicatamente e sono volato giù
veloce e silenzioso come un gatto.
Che
razza di delinquente ! E io che mi sono fidato come un coglione !
Aveva ragione mio padre, sono proprio un coglione !
Ero
in preda al panico più totale. Avevo l’impulso di fermarmi al primo telefono
che incontravo e chiamare immediatamente
la polizia. Qualcosa mi frenava però, perché non riuscivo a distinguere in che
misura, ma De Pisis mi aveva incastrato, e avrei dovuto dimostrare che fino a
quel punto non ero stato suo complice.
Frastornato
e atterrito da tutta questa battaglia interna, sono arrivato a casa che mi
sembrava di impazzire, tanto che ho ripetutamente tentato di aprire il portone
con le chiavi di casa dei miei
genitori.
In
camera ho subito preso dalla mia valigetta la scatola di velluto coi biglietti
da visita. L’ho aperta ed ho osservato da vicino, come non avevo mai fatto
prima, il simbolo della NOVAMENS riprodotto dietro il coperchio sollevato. Nella
pupilla scura di quell’ occhio stilizzato, dopo qualche secondo, ha cominciato
a manifestarsi un leggero baluginìo.
L’ho
toccata con un dito e ho sentito sotto il polpastrello che aveva la consistenza
di un minerale molto duro. Ma mentre facevo queste istintive considerazioni, ho
avvertito un certo strano torpore impadronirsi
rapidamente dei miei sensi.
Ho
chiuso la scatola di scatto, e in pochi secondi quella strana sensazione è
svanita.
Sono
rimasto in casa tutto il pomeriggio e tutta la sera, a rimuginare sul letto, ora
sopraffatto dal terrore che mi provocava quanto era accaduto, ora in grado di
tracciare con una certa freddezza
il quadro della situazione.
Quella
notte è stata la più lunga della mia vita.
Com’era
normale non ho chiuso occhio, ma quello è stato il minimo. La situazione che
s’era creata, più tutte le novità intervenute nell’ultimo mese, si sono
infilate come un affilato coltello sotto il tessuto già un po’ logoro delle
mie certezze. Erano le quattro del mattino, ed ero andato in cucina a versarmi
un succo d’arancia, quando ho realizzato che quel tessuto,
faticosamente ottenuto con tanti anni di sincerità, era stato
completamente lacerato. E che quelle lacerazioni mi mettevano di fronte a una
nuova vita, come se fossi un’altra persona ancora sconosciuta a me stesso.
Il
giorno dopo non sono andato alla polizia ma ho aspettato che si facessero le
undici, prendendo cappuccini in diversi bar del centro, finchè non ho trovato
il coraggio di telefonare a Claudio.
Gli
ho detto che non avevo niente da leggere in quei giorni e che, se non aveva
nulla in contrario, avrei fatto un salto da lui per prendere un paio di romanzi
in prestito.
“Vieni
pure Mauro, te li presto volentieri,” mi ha detto.
In
casa sua, dopo qualche chiacchiera preliminare, ho tirato fuori la scatola di
velluto e gli ho detto “Guarda un po’ che strano disegno c’è in questa
scatola che ho trovato.”
Claudio
ha osservato con attenzione l’occhio di De Pisis , e qualche minuto dopo si
era già convinto di amarmi alla follia, e di dovere per questo lasciare
quello stupido rugbista.
Abbiamo
anche fatto l’amore quella mattina , e devo dire che non avrei mai immaginato
che potesse essere così piacevole, così naturalmente bello, senza nessuna di
tutte quelle varie implicazioni che un etero convinto, come me fino ad un mese
prima, crede debbano esserci perchè un ragazzo ami un altro ragazzo.
Ora
io e Claudio stiamo insieme da quasi due mesi, anche se preferiamo, preferisco,
tenere la cosa riservata.
Ogni
tanto sono tormentato da rimorsi. Mi capita di vergognarmi di spendere i soldi
che De Pisis mi dà settimanalmente, e di fare gesti che prima o poi potrebbero
anche tradirmi. Come l’altro giorno, che ho dato duecentomila lire a un
mendicante.
Ma
la cosa che mi fa più soffrire, è il male che ho fatto a Claudio, e anche il
fatto che, per quanto cerchi di convincermi del contrario, il suo amore è solo
frutto di un imbroglio, di un incantesimo astuto, dovuto alla scoperta delle
proprietà ipnotiche di quella pietra da parte di De Pisis.
So
già che un giorno metterò le cose a posto, per quanto sarà possibile, e
rinuncerò a questo paradiso in terra, con tutte le conseguenze del caso. Ma
ogni volta rimando quel giorno ad un prossimo, nebuloso punto nel futuro.
Lo
so che stai pensando molto male di me, lettore ipocrita e moralista, eppure
lascivamente divertito, e ti capisco. Ma ho un paio di domande da porti. Diciamo
che si tratta di un sondaggio stile “Il gioco della verità”.
Se
ti capitasse di avere per le mani l’occhio del De Pisis, ma pure, fa’ tu,
una lampada di Aladino o una bacchetta magica d’un qualche tipo, non faresti
qualcosa di “diverso” anche tu ?
Quanto
sarebbe diverso il tuo comportamento da quello attuale, se nessuno avesse il
potere di punirti o la possibilità di additarti alla pubblica esecrazione ?
“Se
Dio non esiste, tutto è permesso.” Non mi ricordo chi l’ha detto, ma il
fatto è che io sono laico un bel po’, e non è mica facile da gestirsi la
Libertà.
(Copyright - Marcello Nicodemo 1998)