Home page

 

Il capolavoro di Wilde nella performance di Geppy Gleijeses

L’ABITO NON FA IL MONACO, MA IL NOME SI’, NELLA VIVACE COMMEDIA DEL BEFFARDO ESTETA IRLANDESE

Classica la messinscena de "L’importanza di chiamarsi Ernest" di Oscar Wilde curata da Mario Missiroli: con le sue scoppiettanti battute e i dialoghi effervescenti, il capolavoro di Wilde ha brillantemente calcato la scena e riscosso applausi calorosi, nell’interpretazione di Geppy Gleijeses e Lucia Poli. La trama: Jack Worthing, per sfuggire alla monotonia della vita della propria tenuta di campagna, dove vive la sua pupilla Cecily, si inventa uno scapestrato fratello Ernest che lo costringe a recarsi spesso a Londra per rimediare ai pasticci in cui si caccia. In realtà, Jack, conosciuto da tutti come Ernest, si reca a Londra per corteggiare Gwendoleen, figlia dell’altera Lady Bracknell. Il nome di lui, ironico specchio rivelatore della sua integrità –si gioca sull’assonanza, in Inglese, del nome proprio "Ernest" con l’aggettivo "honest"- esercita un fascino irresistibile sulla ragazza. Non però sulla madre, il cui interrogatorio di argomento "genealogico" ad Ernest svela un’angosciante realtà: egli non ha famiglia, è stato "trovato" in una borsa al deposito bagagli della Victoria Station. Ad ingarbugliare ulteriormente l’intreccio interviene il cugino di Gwendoleen, Algernon Montcrief, fino allo scioglimento a sorpresa.

La traduzione di Masolino D’Amico ha esaltato alcuni passaggi del testo: il gioco di parole "corrotto-/orretto" che Cecily sfodera, rimproverando paradosssalmente ad Algernon l’eventualità di una cattiva reputazione non faticosamente sudata ma solo di facciata; o, nell’alterco tra Gwendoleen e Cecily, la battuta di quest’ultima "Quando vedo un badile, lo chiamo badile" che diventa "Io dico pane al pane", frase subito rintuzzata da Gwendoleen con un’aristocratica risposta degna della regina Maria Antonietta: "Ed io brioche alla brioche!", con scherzosa ripresa, inoltre, dell’accenno di lady Bracknell agli "sciagurati eccessi della Rivoluzione francese" paragonati al bizzarro caso del ritrovamento di Ernest Worthing.

Il punto di forza della commedia è la graffiante satira sociale su cui è imperniata: Wilde non risparmia niente, dall’istruzione "che in Inghilterra non sortisce alcun effetto", alle convenzioni sociali (Gwendoleen esorta Ernest ad essere più esplicito nel farle la corte, "almeno in pubblico!"), alla letteratura stessa, con sapidi guizzi dall’ironia sul sentimentalismo dei corposi romanzi d’appendice del tempo, alla satira del genere diaristico (il diario che tiene Cecily racchiude solo i suoi pensieri d’adolescente ed "è perciò certamente destinato alla pubblicazione"), fino allo sberleffo della critica e della censura letteraria dell’epoca vittoriana: "Più di metà della cultura moderna si basa su libri che non si dovrebbero leggere." Il tutto corroborato da un linguaggio che gioca sul paradosso (l’esaltazione dell’ignoranza come delicato frutto esotico, per esempio; l’idealismo di Gwendoleen e Cecily che si traduce nell’aspirazione frivola di sposare un uomo di nome Ernest, a prescindere da qualunque altra caratteristica; la soddisfazione che dimostra Miss Prism per la borsa ritrovata, senza minimamente domandarsi che ne sia stato del bambino che vi era stato riposto), in un testo -ed uno spettacolo- estroso e godibilissimo.

Tocchi registici sono rilevabili nella caratterizzazione dei personaggi: il rilievo accordato alla parte di Ernest Worthing assegnandola a Geppy Gleijeses (spesso la parte di spicco è quella di Algernon Montcrief, ruolo interpretato da un attore del calibro di Tino Carraro nello spettacolo allestito nel 1958 da Mario Ferrero, accanto ad un comprimario, pur di tutto rispetto, come Franco Volpi nella parte di Ernest) indica che il regista non punta primariamente sulla trasposizione dell’alter ego di Wilde in scena -il cinico e brillante Algernon, appunto, anche se poi "accecato" dall’amore (per Cecily, forse non a caso: la radice del nome veniva fatta risalire al Latino "caecus")-; punta invece sulle risorse comiche del personaggio di Worthing, cui Gleijeses conferisce connotazioni meno flemmatiche, più "mediterranee". Così, costretto a stringere la mano di Algernon, che si è spacciato a Cecily per il fratello di Jack/Ernest, questi gliela serra in una morsa dolorosa, fino a storcergli il braccio; l’atteggiamento con cui ostenta le gramaglie per il fratello morto "di raffreddore a Parigi" è molto caricato di ostentato cordoglio, così come pregni di minacce inespresse sono gli imperiosi gesti della mano con cui incita Algernon a lasciare la sua casa di campagna. Anche Lady Bracknell, interpretata da Lucia Poli, sfata alcuni luoghi comuni del granitico personaggio matronale degli innumerevoli "precedenti" di questa pièce: invece di una vecchia dama incartapecorita infagottata fino al collo, Lady Bracknell è una donna ancora piacente, nient’affatto rigida, anzi flessuosa e civettuola quando si sfila lo scialle di tulle dalle spalle con la punta del parasole. E l’esclamazione di sorpresa non trattenuta, che s’impenna nel suo tono di voce, normalmente controllato, quando scopre l’entità del patrimonio di Cecily, è tutt’altro che improntata al self-control britannico. Buone le caratterizzazioni di Andrea Cavatorta (Algernon) e Viviana Lombardi (Cecily): la recitazione fluida di quest’ultima mette in rilievo, per contrasto, le movenze e i toni bruschi dell’altra "innamorata vilipesa", Gwendoleen, cui dà vita Debora Caprioglio, indubbiamente affascinante ma non convincente nei panni di una signorina dell’alta società prepotente ma con stile, uno stile di cui le entrate furiose e scalpitanti della Caprioglio non rifulgono affatto.

Per quanto riguarda le scene, classici i salotti del III e I atto (quest’ultimo con suggestiva vista del Big Ben sullo sfondo), mentre le fabbriche tozze e le alte ciminiere sullo sfondo della casa di campagna di Ernest evocano l’Inghilterra del periodo post rivoluzione industriale: i proprietari terrieri indebitati fino ai capelli, rimpianti ma accortamente depennati da Lady Bracknell dalla lista dei buoni partiti, lasciano il posto alla forza propulsiva dell’economia inglese; minacciano, pur da lontano e pacatamente, la classe di ridicoli parassiti che addirittura esige che "i ceti umili diano il buon esempio" a quelli altolocati. E concretamente presente sulla scena è l’ambiente della stazione, punto di partenza e "capolinea" -si può ben dire- della vicenda: archi stile liberty e fanali accesi fanno da cornice a tutto lo spettacolo. Allusione sì alla misteriosa storia del ritrovamento di Ernest, ma anche simbolo del dinamismo della classe borghese, che con i suoi traffici commerciali, anche nelle corse dei treni, aveva reso l’Inghilterra una delle grandi potenze del XIX e XX secolo.

 

Irene Liconte