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William Shakespeare

 

AL DUSE (DAL 22/10 AL 10/11) UNA VERSIONE "RIGOROSA" DI "MISURA PER MISURA"

Jurij Ferrini regista ed interprete di una delle "commedie nere" di Shakespeare


Classica e scoppiettante la versione di Misura per misura di William Shakespeare, allestita per il teatro di Genova dalla compagnia Progetto URT, con buon successo di pubblico. La trama: il Duca di Vienna lascia temporaneamente la sua carica al fidato Angelo, noto per il suo rigore e la sua morigeratezza. Questi condanna a morte Claudio, un giovane gentiluomo che ha ingravidato Giulietta, sua promessa all’insaputa dei parenti. La sorella di Claudio, la novizia Isabella, intercede per lui presso Angelo: il vicario del duca s’infatua però di lei e le propone di barattare la vita del fratello con una notte d’amore. La situazione sembra senza vie d’uscita, ma il Duca non è veramente partito per l’estero, contrariamente alle voci da lui stesso diffuse, bensì è rimasto a Vienna sotto le mentite spoglie di frate Ludovico, per osservare non visto il comportamento dei suoi sottoposti. La commedia non manca di un happy end a beneficio di tutti, che non riesce però a fugare le numerose ombre che l’opera solleva.

La legge è come un teorema: posto il delitto, ecco la pena. Questa la teoria. Ma intervengono fattori di disturbo: in primo luogo, la legge non si applica ad aride e ben definite figure geometriche tracciate su un foglio, ma su uomini, per cui le situazioni di "colpa" si fanno sfumate, il confine tra colpa e innocenza o, comunque, le gradazioni di colpevolezza, si fanno incerte. Claudio è indubbiamente reo di rapporti amorosi illeciti (in quanto non benedetti dal matrimonio): ma Giulietta è quasi la sua sposa, gli si è segretamente promessa in moglie e –si badi bene– non sono assolutamente le rimostranze dei parenti di lei a spingere Angelo a punire con la pena capitale il giovane, ma solo la colpa di cui Claudio si è macchiato. Isabella marchia più volte il delitto del fratello, "le lascive blandizie di coloro che coniano l’effigie celeste in stampi che son proibiti" (atto II, sc. IV), come la più detestabile tra le colpe: ma la sua affermazione stride con gli eventi precedenti, quando Lucio le aveva rivelato che Claudio aveva messo incinta Giulietta e lei non si era scandalizzata, anzi aveva accolto la notizia con naturalezza, conoscendo il patto segreto dei due amanti. Inoltre, nonostante l’orrore che professa per la fornicazione, Isabella cerca poi di intercedere per sottrarre il fratello alla punizione. Angelo non è mosso da alcun sentimento personale quando condanna a morte Claudio, crede nell’efficacia della severità impietosa ed imparziale –in fondo esercita il suo potere su un nobile, mentre l’altro sostituto del Duca, Escalo, si duole forse più per Claudio, suo conoscente, che per la crudezza della pena in sé– per sradicare il vizio. E anche i suoi tentativi di seduzione di Isabella non sono avances freddamente simulate di un ipocrita consumato, sono improvvisate, anche malamente ( per esempio sbottonarsi i pantaloni per dimostrare ad Isabella che non vuole mettere alla prova l’integrità di lei ma vuole effettivamente possederla non è certo la mossa migliore per circuire con destrezza una suora, semmai per terrorizzarla e farsi respingere, come succede puntualmente) e non mancano momenti in cui maledice le pulsioni erotiche che non sa controllare. Angelo accelera l’esecuzione di Claudio, venendo meno al patto con Isabella (che, comunque, con tutte le attenuanti, per parte sua lo aveva già disatteso), non per pura malvagità, ma per timore della vendetta di Claudio, e, credendolo morto, lo vorrebbe vivo: "Egli avrebbe vissuto, non fosse che la sua sfrenata giovinezza, con pericoloso risentimento, sarebbe stata capace, in avvenire, di prender vendetta d’aver ricevuto così una vita disonorata a prezzo di tanta vergogna. Eppure, avess’egli vissuto! " (atto IV, sc. IV). Angelo, certamente la figura più complessa della pièce, non si può liquidare semplicemente come un disgustoso ipocrita; il nucleo del suo pensiero è esposto chiaramente ad Escalo che gli chiede comprensione per la debolezza della natura umana: "Altra cosa è l’esser tentati, Escalo, altra il soccombere. Io non nego che la giuria che decide della vita di un prigioniero possa tra i dodici giurati annoverare un ladro o due più colpevole di colui che processano; quello che è reso manifesto alla giustizia, di questo la giustizia s’impadronisce; che importa alle leggi se son ladri che giudicano ladri? E’ ovvio che il gioiello che noi vediamo, ci chiniamo a raccattarlo perché lo vediamo; ma quel che non vediamo, ci camminiamo sopra senza neanche pensarci. Voi non potete scusare la sua trasgressione per il fatto che anch’io ho commesso tali falli: ditemi, piuttosto, quand’io, che lo condanno, trasgredisco così, che il mio stesso giudizio sia prefigurazione della mia morte e nulla di parziale intervenga " (atto II, sc. I): si cominci a punire i colpevoli colti sul fatto, toccherà poi inevitabilmente anche agli altri e il male sarà sradicato. Egli crede nella giustizia, è inflessibile come essa deve essere, il suo ruolo è quello di semplice mano della giustizia stessa, finché la passione per Isabella non intorbida le acque. Il Duca stesso che, nella sua magnanimità e sollecitudine per le traversie dei protagonisti e risulta essere il deus ex machina che risolve in bene tutto l’intrigo, è tutt’altro che esente da lati oscuri: finge di lasciare Vienna (la cui vita licenziosa, i bordelli nei sobborghi, riflettono la realtà londinese del tempo dell’autore, forse con ironica scelta per l’ambientazione proprio di una delle città più austere d’Europa, secondo la tradizione storica: che Shakespeare intendesse deliberatamente bersagliare un antecedente della "decorosa" età vittoriana in Inghilterra?) per scaricare su Angelo e sulla sua fama di inflessibilità la responsabilità di punire i delitti che lui stesso ha lasciato dilagare per quattordici anni; ordisce un macchinoso inganno –sostituire Mariana, la fidanzata abbandonata alcuni anni prima da Angelo, ad Isabella nell’incontro notturno a cui la novizia finge di acconsentire– e se ne proscioglie da solo: "il doppio beneficio assolve l’inganno da biasimo" (atto III, sc. I); avrebbe potuto, più semplicemente, farsi riconoscere come Duca e ristabilire la giustizia direttamente con il suo potere. Altro particolare interessante sono gli scambi di battute in cui Lucio snocciola proprio a frate Ludovico maldicenze circa la licenziosità del Duca: Shakespeare –e Ferrini in seconda battuta– sfruttano le potenzialità comiche della situazione, con il Duca che ribolle di sdegno a sentirsi denigrare da Lucio ma si trattiene dall’uscire allo scoperto, pregustando la "vendetta" finale: ma se si guarda a fondo, le scene incentrate su questo scontro verbale sono illuminate da una luce sinistra. Perché screditare con un estraneo un personaggio di così alto rango, di cui si vanta anche la confidenza? E, guarda caso, le insinuazioni di Lucio riguardano proprio il vizio flagellato nella commedia: gli appetiti carnali, gli amori illeciti. Ed è un caso, alla fine, che il Duca prenda per mano una stupita Isabella –che non replica nulla– e la designi come sua futura moglie, macchiandosi legalmente della colpa che illegalmente intendeva commettere Angelo, cioè deflorare un suora? La visione della legge e della giustizia di Shakespeare sembrano riassumersi in un battuta di Pompeo, taverniere-ruffiano, ad Escalo: "E.: [Fare il ruffiano], Pompeo, è un mestiere legale? P.: Sì, se la legge lo permettesse." Il punto sta tutto qui: non solo la legge è esercitata dagli uomini, ma la fanno gli uomini. Essa è quindi, come loro, imperfetta, soggetta ad abusi e soggettiva, non assoluta. In più occasioni il Duca rimarca che il rigore spietato di Angelo è giusto, se la sua condotta è irreprensibile in ciò che punisce: dov’è l’assolutezza della giustizia, la netta differenza tra Bene e Male, se dipende dalla dirittura morale dell’esecutore? Il titolo stesso, direttamente dall’Inglese (Measure for measure), ricorda la massima biblica "Occhio per occhio, dente per dente", che una forma evoluta di giustizia dovrebbe aver superato. Né l’autore pare fiducioso in una giustizia celeste che appiani i torti: la stessa Isabella non invoca l’aiuto celeste per risolvere la situazione, le preghiere sono rivolte al potere temporale, anche se si appella alla potenza divina promettendo di ricompensare Angelo per la sua grazia a Claudio pregando per lui. La delirante descrizione che fa Claudio della fine a cui è destinata l’anima dopo la morte, oltre a costituire un momento di intensa poesia vicina a passi dell’Amleto (i due drammi furono scritti negli stessi anni, intorno al 1601) completa una visione dell’oltremondano che non è certamente improntata al Cristianesimo: "Morire, e andare non sappiam dove; [..] il dilettoso spirito bagnarsi in infocati flutti, o dimorare nella mordente regione del ghiaccio a folte croste; essere imprigionato nei venti invisibili, e soffiato con violenza senza posa intorno al pendulo universo; o star peggio di coloro che pensieri sfrenati e malcerti immaginano urlanti: è troppo orribile!" (atto III, sc. I): ed Isabella, nonostante sia una religiosa, non gli contesta questa tremenda immaginazione dell’aldilà. Un mondo tutto terreno, insomma, dove l’uomo è in balia delle sue voglie e di un fato nemico, come sembrano indicare anche i burattini disegnati sul telo d’apertura (rappresentanti un giudice, una suora e un frate, ossia i protagonisti della pièce), nemmeno manovrati da forze superiori, ma trascinati al suolo con un filo stretto al collo.

La pièce, tra i tanti peccati o delitti che potevano essere stigmatizzati, è incentrata sui peccati carnali: essi sono infatti la prova più immediata della debolezza umana, al confine tra colpa e pulsione naturale; se la colpa in esame fosse stata l’omicidio, probabilmente Angelo non vi sarebbe caduto anche lui. E si noti che L’editto di Angelo decreta la chiusura dei bordelli, ma solo in periferia: in città saranno tollerati, anche perché, come dice Pompeo, eliminare la lussuria dal mondo equivarrebbe a spopolarlo: "Se voi decapitaste soltanto per dieci anni di fila tutti quelli che trasgrediscono in quel modo, fareste bene a dar la commissione per nuove teste" (atto II, sc. I). La debolezza umana si manifesta in molte sfumature dei personaggi: tralasciando Angelo e il Duca, Claudio è definito da Escalo un nobile gentiluomo ma, in preda al terrore per la morte, chiede alla sorella di sacrificare il suo onore per la propria vita; Isabella stessa, combattuta tra l’amore per il fratello e quello per la propria verginità, non considera nemmeno per un istante la possibilità che salvare una vita umana può valere la pena del sacrificio della propria castità. Nella regia di Ferrini la labilità dell’essere umano, vittima delle passioni, si traduce nelle doppie interpretazioni degli attori: Alberto Giusta interpreta sia l’impulsivo Claudio sia il riflessivo Escalo; Jurij Ferrini è il saggio Duca e il ruffiano Pompeo; Antonio Zavatteri, interprete di un intenso Angelo, compare anche nei panni del boia (esecutore materiale di ciò di cui Angelo è esecutore in quanto giudice); Stefania Maschio interpreta Madama Strafatta, la ruffiana, e Mariana, l’inconsolabile fidanzata abbandonata da Angelo; Pierpaolo Pavan è l’irreprensibile –anche se non brillante per efficienza– poliziotto Gomito e il condannato Bernardino (il ruolo di frate Pietro gli è stato probabilmente assegnato più per esigenze di cast che per valenze metaforiche). Spicca per la sua pietà, rimarcata dallo stesso Duca, il bargello (Marco Zanutto), che si occupa dei condannati a morte: nella messinscena si dà particolare risalto alla sua proposta di far decapitare un prigioniero deceduto di morte naturale invece di Bernardino, nonostante sia un assassino, per fornire ad Angelo la testa di Claudio come il vicario ha richiesto. La scena in questione è lievemente modificata rispetto all’originale: diversamente dal testo, il Duca non esprime scrupoli circa il fatto che il condannato non sia spiritualmente preparato al trapasso e lo sostituirebbe quindi a Claudio senza troppe remore. È l’intervento del bargello a salvare Bernardino: un particolare di rilievo, in un periodo in cui le pene capitali vengono comminate ed eseguite con sempre maggiore frequenza negli USA e si parla addirittura di adottarle anche in altri paesi.

La scenografia mette in risalto il contrasto tra il carattere (teorico) della legge come assioma assoluto e la sua effettiva relatività. Jurij Ferrini ha infatti individuato (e ribaltato) l’elemento di rigore geometrico, già insito a partire dal titolo, nel testo shakespeariano e lo ha evidenziato con scelte scenografiche semplici ed originali, in contrasto con le vicissitudini giudiziarie rappresentate in scena. Se è ormai consuetudine lasciare che lo spettatore sbirci incuriosito sulla scenografia prima che inizi lo spettacolo, non è altrettanto sfruttata l’idea di intrattenerlo a ripassare teoremi matematici, definizioni di entità base della geometria e grafici di funzioni. Prima che si spengano le luci esse campeggiano su un telo sdrucito lasciato a coprire metà della scena, poi, a inizio spettacolo, sono addirittura proiettate su uno schermo cinematografico alternativamente ai nomi dei protagonisti: la pièce sembra impostarsi sul massimo della linearità, di ruoli e principi. In realtà è tutto il contrario: come nel cinema un attore non identifica univocamente un personaggio (si pensi a controfigure e stunt-men), così avviene in Misura per misura, dove diversi attori interpretano un doppio ruolo,
in un cast di giovani ormai affiatato, tra cui brillano, oltre allo stesso Ferrini, Antonio Zavatteri, Alberto Giusta e Wilma Sciutto. Lo sfondo nero, una scelta classica, contrasta significativamente con la verve effervescente di alcune scene proprie da commedia (particolarmente divertenti quella in cui Pompeo e Schiuma si difendono dalle disordinate accuse di Gomito e quella con le schermaglie tra Lucio e il Duca travestito da frate, che non sopporta con indignata gravità, confacente al suo ruolo, le maldicenze ma si trattiene a mala pena dal mettere le mani addosso a Lucio), scene che alleggeriscono la gravità del nucleo centrale della pièce. Per il resto, l’arredo di scena si compone di un rozzo tavolo, alcune sedie, un lampione che emana pochissima luce: un’ambientazione quasi da periferia suburbana dei nostri giorni, dove imperversino bande malavitose. Interessante la scelta di non rappresentare sulla scena, come da originale, la consegna dei mandati dal Duca ai suoi sostituti, ma di comunicare loro la sua decisione per lettera, mentre un altoparlante ne diffonde ad alta voce la lettura, come se si trattasse di un’investitura divina del potere, secondo le credenze del tempo, e in netto contrasto con l’(ab)uso che del potere viene poi fatto. Particolare la trovata di scandire momenti "clue" della storia con la calata dall’alto di pali che si configgono per terra, simboli degli strali della giustizia che colpiscono alla cieca; ironica variazione sul tema il palo in cui viene incastrato per la collottola Lucio, quando frate Ludovico rivela la propria identità. Spicca per comicità delicata anche il duetto fra Wilma Sciutto (Isabella) e Aldo Ottobrino (Lucio) quando questi le narra che Claudio ha messo incinta Giulietta, con l’atteggiamento che un adulto adotterebbe con un bambino, a cui spiegare con cautela come nascono i bambini, interpretando in maniera perfetta la battuta shakespeariana e la sua chiusa a doppio senso: "Come coloro che si nutron diventan pieni, come la stagione della fiorita che il nudo maggese porta dalla semenza a feconda messe, così il fertile grembo di lei manifesta da parte di lui un’aratura e una coltivazione perfette" (atto I, sc. IV).

Molto toccante l’interpretazione di Zavatteri dell’assolo di Angelo, pentito del peccato che sta per compiere ma incapace di trattenersi, con le preghiere che non salgono in cielo, ma gli restano incollate alle labbra a causa del suo desiderio proibito per Isabella; brano che ricorda la più famosa confessione di re Claudio in Amleto; altro tratto comune alle due opere è anche il sermone sui dolori e le disillusioni della vita che frate Ludovico tiene a Claudio in prigione e che rimanda direttamente al celeberrimo monologo di Amleto.

Buona la versione dall’Inglese, che ha mantenuto doppi sensi e giochi di parole di un testo non facile, pochi i tagli –non compare in scena Giulietta, a cui comunque Shakespeare mette in bocca poche parole di pentimento–; piacevole la scelta di brani de "Lo schiaccianoci" di Ciakovski, tesi forse ad alleggerire la cupezza dell’atmosfera di alcune scene e a smorzare i toni dell’opera, quasi a ribadire "è tutta una favola", sulla scia di Shakespeare che volle darle la forma, almeno esteriore, di commedia.

Irene Liconte