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Euripide


Euripide non ottenne grandi riconoscimenti dai contemporanei: la sua modernità, che disorientava spesso gli spettatori del V sec, ancora impressiona di fronte a certe "letture" in nuce nelle sue tragedie, dall'antieroina ambigua e sfuggente della Medea di Luca Ronconi (stagione teatrale 96/97) allo straziante, tragico scavato nel tragico, epilogo di Alcesti, tracce di un sacrificio, di e con Fabiano Fantini e Rita Maffei da Euripide (stagione 98/99).
La lettura ronconiana della Medea è ricca di richiami all'attualità. Che la parte dell'eroina venga assegnata ad un uomo può apparire come un omaggio al teatro antico; è, invece, una scelta più sottile. Le altre parti femminili (la nutrice, le coreute) vengono infatti interpretate da donne: la "motivazione classica" dell'assegnazione del ruolo si contraddice nella sua eccezionalità. Già in questo Medea stride, viene isolata tra gli altri. E' la diversa, la donna barbara tra le Greche, un'extra-comunitaria, diremmo oggi. Ecco la prima splendida intuizione registica, l'evocazione, dal prologo, della prora della nave Argo, sfondo all'azione: insieme, minaccioso presagio della misera fine di Giasone profetizzata nell'epilogo, concreto ricordo della dedizione di Medea al marito. Ma soprattutto suggestivo segno della non avvenuta integrazione: è come se la nave fosse appena approdata, Medea appena sbarcata, ancora divisa tra il paese d'origine, che non le appartiene più, e quello d'arrivo, a cui non riesce ad appartenere,in un'atmosfera di segregazione da perenne Ellis Island. La casa di Medea è uno squallido seminterrato, ancora ingombro dei bauli degli esuli, dove il letto nuziale offeso da Giasone è una misera branda che denuncia più la dura esistenza dell'immigrato che il tradimento del legame coniugale. Assumono così nuovo peso le battute in cui Medea constata con amarezza che è "il suo sapere" a procurarle tanti guai: non pratiche magiche, semplicemente il bagaglio culturale dell'immigrato, che suscita diffidenza.
Euripide accentuò gli aspetti lirici del coro rispetto al ruolo quasi co-protagonistico cui esso assurgeva nei drammi eschilei; ma in molte sue tragedie si avverte "la pressione" esercitata dalle masse, spesso sottintese e quindi più minacciosamente incombenti: dai Mirmidoni pronti ad esautorare Achille nell'Ifigenia in Aulide, all'esercito greco brutale custode delle prigioniere troiane nell'omonima tragedia. Le masse che Ronconi estrapola da Medea sono due: le donne del coro e i sudditi di Creonte, tutti nella "divisa" del doppio petto, ciecamente obbedienti al re. Si proiettano immagini di folle frenetiche in città svettanti di grattacieli; è l'alienazione della nostra società. La crisi dell'uomo moderno, come Euripide denunciava quella dell'uomo del V secolo. Il celebre dilemma di Medea, se uccidere o no i figli, diventa la scelta tra l'omologazione e il rifiuto di perdere la propria identità etnica. Ogni dettaglio del testo è vagliato dalla lente dell'attualità: così Egeo viene rappresentato grottesco nel proprio desiderio di avere figli a tutti i costi, vecchio com'è: una critica alle gravidanze in tarda età, che generano tanti genitori-nonni? Grande intuizione registica per il coro, punto dolente di odierne allestimenti.Certo è arduo comunicare al pubblico d'oggi la valenza sacrale del coro greco; si può però conservarne la funzione di portavoce di una comunità. Questo coro incarna le rivendicazioni femminili contro la supremazia dell'uomo e prende qui corpo in casalinghe, che, nel contesto moderno, presentano affinità con la donna greca sacrificata nel gineceo. Ronconi va però oltre: punta su una specificità di molti cori euripidei, la relegazione a passivi spettatori del dramma. Nel corso dell'intera vicenda, il coro non partecipa direttamente; durante gli episodi le donne prendono posto su sedili da cinema, assembrati davanti ai protagonisti, per seguire meglio le "puntate" del dramma di Medea; negli stasimi commentano i fatti sulle note di canzoni di Battisti, volteggiando dietro scope e stracci per pulire i pavimenti, come davanti ad una soap. Quando Medea rivela al coro i propri propositi omicidi nei confronti dei figli, le donne le rivolgono frasi distratte, come se si trovassero di fronte ad una finzione, per poi ritirarsi di nuovo nella platea loro destinata per seguire gli sviluppi del serial (o gli aggiornamenti del notiziario). Insomma, l'atteggiamento del coro non è di passiva ma sofferta trepidazione, bensì di blanda partecipazione emotiva, distaccata curiosità. E'questo l'aspetto più shockante della lettura ronconiana, perchè emerge il ritratto di una società assuefatta ad assistere passiva ai drammi più disparati, dalle tragedie di massa a quelle dei singoli, di cui sono infarciti purtroppo non solo i TG, ma anche pretesi programmi di attualità. Anche figure isolate ribadiscono tale atteggiamento: il messo commenta i momenti più orribili dell'agonia di Glauce e Creonte con un compiaciuto "Che spettacolo!".
Il tratto più inquietante di Medea è la sua inafferrabilità. Il regista sottolinea oltre misura l'ambiguità naturalmente insita in un personaggio tanto conflittuale; le sue motivazioni sono sempre dubbie: ama davvero i suoi figli? Soffre o no per il suo crimine? Medea è enigmatica come la sfinge, fredda nella sua vendetta: è scomparsa l'eroina passionale, combattuta da opposti sentimenti. Euripide aveva infatti privato gli eroi della loro grandezza, ma aveva riservato grandi passioni e gesta, nel bene e nel male, alle donne; nella versione di Ronconi, invece, la meschinità è il marchio comune dell'agire umano e il regista rinuncia, consapevolmente, a tutto il pathos che una figura come Medea può sprigionare. Certo, si rinuncia a molto: ma se si accetta la sfida di questa Medea moderna che dimostra come l'allestimento di una tragedia antica, fedelissimo alla lettera del testo, possa presentarsi attuale, in forma e contenuti, lo spettacolo lascia un segno profondo. Del resto, Euripide, con le proprie rivoluzionarie modifiche apportate al genere della tragedia, già consolidato dai predecessori, non si alienava forse sovente le platee?
Di segno opposto la versione dell'Alcesti di Fantini e Maffei. Del testo originale di Euripide restano solo l'impianto della storia e brani, alternati a versi di Rilke ed Alfieri,a brani desunti dall'Alcesti di Samuele di Savinio, alle testimonianze di Levi e Solzenycin sui campi di sterminio. Campeggia però l'esplosione del tragico, un irrefrenabile coinvogimento emotivo del pubblico nel sacrificio di questa Alcesti senza nome tra le mille vittime di campi di concentramento non meglio storicamente e geograficamente precisati -una felice intuizione registica, che non relega gli orrori in un passato lontano ed irripetibile. Lo spettacolo è interattivo: il pubblico è schedato, chiuso in una squallida sala d'aspetto, poi internato insieme alla coppia di protagonisti. Le donne e gli uomini procedono nel lager, parallelamente ma rigorosamente divisi da un recinto attraverso cui si vede, si ode che succede al proprio coniuge prigioniero. E da qui la tragedia a lieto fine che Euripide ha raccontato con tanto pathos, precipita nella storia, cruda, senza scampo, senza riscatto; non c'è un Eracle che possa lottare contro un "mondo di morti", come Savinio bolla la tolleranza, il silenzio del mondo di fronte al genocidio: "In vita sembrano vivi, ma non sono più vivi dei morti [..] traversano tutta la vita come morti." Gli interrogatori che trapassano rapidamente nella tortura, la relegazione, l'incertezza dell'indomani, l'angoscia di non sapere nulla l'uno dell'altro, poi la tragedia si innesca sulla tragedia: la condanna a morte di lui. Un conoscente influente può essere la salvezza: ma a prezzo di un'altra vita, la contabilità del lager è inflessibile. Le fessure tra i due settori sono le orecchie di lei, che si dispera, invoca, reclama un sostituto, in una prima presa di coscienza a cui l'istinto di sopravvivenza non può suggerire l'unica soluzione possibile. Poi l'illuminazione: deve essere lei la vittima alternativa. Questa Alcesti non gode dei privilegi della protagonista di Euripide: non può dare l'addio al letto nuziale, non muore tra le braccia del marito, non gli strappa la promessa, tutta intrisa di femminile possessività, di non unirsi in nuove nozze. Non lo rivede nemmeno, si immola solitaria; l'unico sollievo, l'oblio dell'orrore subito. In un teso silenzio di spettatori che non hanno comunque desiderio o facoltà di giudicare, l'uomo riceve le spoglie della moglie, si allontana senza una parola e, forse, senza una meta in quella vita che gli è stata ridonata da lei. Una versione ed un allestimento di una potenza sconvolgente, una rilettura del classico che attizza le coscienze, che vuole scuotere il coro distratto e lontano della Medea di Ronconi.
Due casi esemplari -e non unici: si pensi a Le Troiane, allestite dalla compagnia giapponese Waseda Sho-Gekijo, come bruciante ricordo delle raccappriccianti devastazioni della bomba atomica- dell'attualità di un autore vissuto 2500 anni fa che ancora sa sorprenderci e farci palpitare.


di Irene Liconte