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Anouilh



Successo al Teatro della Corte per un'intensa Antigone di Anouilh (15/11-26/11)

UN'ANTIGONE BAMBINA TUTTA NOVECENTESCA



Antigone danza aggraziata con un paggetto al suono di un grammofono, un inchino reciproco: ed ecco che la vetrata si frantuma sfondata da un cadavere sconciato che dondola appeso per i piedi; anche le uscite laterali sono così sinistramente presidiate. La serenità fanciullesca di Antigone cade con le ciocche di capelli tagliate per il lutto. E' l'efficace inserirsi in medias res di Furio Bordon, regista di Antigone di Jean Anouilh, "commedia agghiacciante" secondo una definizione dell'autore stesso, allestita dal Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia. La trama è quella di Sofocle: Antigone, figlia di Edipo, viola il divieto di Creonte, re di Tebe, di dar sepoltura al proprio fratello Polinice, che ha tradito la città. La pena comminata da Creonte è la morte, nonostante la ragazza sia sua nipote e la fidanzata del figlio Emone. La tragedia si conclude luttuosamente, con Creonte solo superstite a contare i morti.
La rilettura che Anouilh fa dell'Antigone nel 1942 è ispirata alla storia contemporanea: nel regno di Creonte si adombra il governo collaborazionista di Petain, il personaggio di Antigone, votata ad un sacrificio sterile, fu incarnato nella realtà da un giovane francese che attentò, impulsivamente e vanamente, alla vita di uno dei membri del governo di Vichy. L'autore sapeva di dover sottoporre il dramma alla censura tedesca: difficile quindi arguirne l'effettiva posizione politica. E' comunque indubbio che il personaggio di Creonte non sia tratteggiato con decisi tratti di tiranno spietato: Anouilh mette in scena anche le "controindicazioni" del potere. Erano gli anni in cui anche Sbarbaro traduceva la tragedia, insieme al Prometeo incatenato, ambedue metafore della dittatura fascista. Ma, oltre alle allusioni storiche, Anouilh ci propone un affascinante personaggio dall'animo tutto novecentesco. Il carattere di Antigone viene definito "difficile" ed il regista ce la mostra, a inizio dramma, pensosa, gli occhi spalancati sulle tristezze del mondo, che non può più ignorare, separata da un velo di tulle nero dagli altri personaggi che dialogano tra loro, mentre Creonte siede compostamente un po' più in alto. L'azione inizia quando Antigone rientra al palazzo, compiuto il rito di sepoltura. Splendidi squarci lirici raccontano la sua fuga notturna: "Il giardino dormiva ancora. E' bello un giardino che non pensa ancora agli uomini", "Nei campi era tutto bagnato e aspettava. Facevo un rumore enorme, un rumore da intrusa. Allora mi sono levata i sandali e sono scivolata nella campagna senza che lei se ne accorgesse." Sono un anticipo dell'amore per la vita che Antigone esprime ad Ismene, l'alzarsi all'alba e il coricarsi a notte fonda per "vivere un po' di più". Antigone è una creatura fisicamente gracile, "troppo magra", "piccola": ma è piccola anche in quanto ancora bambina, come affermano Ismene, che in questa versione è sorella maggiore (contrariamente alla versione più accreditata del mito) e il maggiordomo Jacquot, che sostituisce la più sofoclea nutrice della pièce francese. Creonte ricorda di averle regalato la sua prima bambola "e non molto tempo fa" -la battuta richiama alla mente anche l'infanzia straziata dalle terribili vicissitudini dei genitori: eppure non c'è in lei la vocazione alla morte dell'eroina di Sofocle.- Il dramma presenta una ragazzina interiormente ricca che sta per sbocciare in donna: Antigone è fidanzata ad Emone, che l'ha "cercata nel suo angolo" durante una festa per chiederla in moglie al posto della più appariscente Ismene; ella gli domanda se la considera una donna, evoca il bambino che avevano sognato insieme, che avrebbe traslato in sé la dimensione fanciullesca della madre. Ma crescere, vivere è "strappare con i denti un piccolo brandello di felicità", voltandosi mentre qualcuno muore. E' un tema caro all'autore: Antigone è intransigente perché è giovane ed idealista, rifiuta il compromesso di avallare, vivendo, le atrocità; deve morire per "essere" e rifiuta la salvezza che Creonte, nella più sostanziale modifica apportata al mito, vorrebbe procurarle a tutti i costi. Emone, implorando la grazia per lei, prega il padre di "tornare a rassicurarlo", come quando era bambino; e "con occhi da bambino" si dà la morte. Questa innocenza dell'infanzia che si corrompe inevitabilmente nel tempo è un tema che, embleticamente, compare in un'altra Antigone novecentesca: la ragazzina dolce e analfabeta di La serata a Colono, in Il mondo salvato dai ragazzini che la Morante scrive nel '68. La sua Antigone, piena di amore per il creato e mossa da una dedizione per il padre assoluta quanto quella della protagonista di Anouilh per Polinice, appartiene ai "Felici Pochi", cioè i puri, i ragazzini, i soli che "si interessano alle cose serie e importanti. Gli adulti, in massima parte, si occupano di roba trita e senza valore."(E. Morante). Creonte, l'antagonista di Antigone, è uomo di stato, ma la fiducia totale nelle leggi del Creonte di Sofocle non esiste più: la legge promulgata malvolentieri contro il cadavere di Polinice è strategia politica, per tenere a bada quella folla che, nei panni del coro sofocleo, era solidale con Antigone, mentre qui vuole linciarla. Di Creonte nel prologo si dice che, prima di regnare, si dedicava alla musica ed alla letteratura: viene in mente l'imperatore romano Claudio, anch'egli studioso strappato ai suoi libri per un trono. Creonte dice il suo sì alla necessità di governare gli uomini e diviene re, ben consapevole della precarietà dell'esercizio del potere: un mestiere, che implica "sparare nel mucchio" per mantenere a galla la barca dello stato, quella "barca carica di morti" che anche il giovane Creonte, ormai morto in lui, non avrebbe accettato, proprio come Antigone. Si è attuata la metamorfosi amaramente dipinta da Achille Campanile: "La vita ci prende, a poco a poco ci piega, ci fiacca, ci deforma. Ad ogni ora le facciamo una concessione sempre più grave e un giorno ci troviamo così diversi da come ci eravamo visti nello specchio della prima giovinezza!"
Anche i rapporti con gli altri personaggi si trasformano rispetto al modello greco: Ismene proclama spavaldamente a Creonte che continuerà l'impresa di Antigone. La "pazzia" dell'eroina è davvero pericolosamente contagiosa? Comunque sia, nel finale il paggetto (personaggio simbolo, forse anche troppo ribadito, della nostalgia di Creonte per la sua giovinezza barattata) depone un fiore sul corpo di Polinice.
La messinscena offre molti delicati tocchi registici: la nutrice del testo originale diventa l'anziano maggiordomo Jacquot, che non entra nella stanza di Antigone per vegliarne il sonno, ma origlia "la musica dolce del suo respiro"; l'affetto da nonno per "la piccola", affetto che lo accomuna a Creonte, fa risaltare ancor più la drammaticità della scelta politica: "Signore, non vi vergognate?" La descrizione dell'alba di Antigone si sofferma pensosamente sulle sfumature verdi del cielo (come le uniformi dei soldati?). Intense le numerose suggestioni sceniche: lo sconvolgente contrasto, tutto visivo, tra la spensierata atmosfera da belle epoque all'apertura del sipario e il lugubre irrompere dei morti; il corpo putrescente di Polinice brutalmente scagliato fuori dal palazzo, dove ricade dal soffitto con un tonfo, e rimane in scena per tutto lo spettacolo, percepibile dalla sola Antigone. Il cadavere è barriera fisica tra lei e Emone, mentre i corvi gracchiano note sinistre; non sono le guardie a portare al supplizio -sul carretto, pronosticava Ismene, un'immagine degna della rivoluzione francese- Antigone, ma l'uomo nero che la incappuccia, il lupo cattivo che l'abbranca, mentre ella ripete ossessivamente "Non ho paura del lupo cattivo...non ho paura dell'uomo nero..." Un po' melodrammatica, ma d'effetto, l'apparizione dei due innamorati abbracciati nella morte, verso cui Creonte si protende per un attimo nel finale. Un allestimento molto curato e pregevole, a cui si può forse rimproverare la perfetta linearità, la netta definizione di personaggi e situazioni: manca quel pizzico di inafferrabile, di senso di un "ulteriore" da cercare tra le pieghe delle scene.
Semplici ed eleganti i costumi di Isabella Montani, l'abito rosso velato di tulle di Ismene, il doppiopetto grigio di Creonte, con una pausa dal "mestiere di governare" nella vestaglia del mattino, mentre Jacquot lo rade: pausa bruscamente interrotta dalle notizie delle guardie. Queste ultime indossano divise da truppe d'assalto, gli "scherani dell'alalà" di Montale; un abito azzurro senza maniche fascia Antigone, mettendone in evidenza la gracilità ma anche la femminilità e, genialmente, sparisce sotto un ampio maglione dopo l'arresto: non potrà divenire donna. Sobrie le scene di Alessandro Chiti, un palazzo dalle linee rigide con reminescenze neoclassiche, come erano state riscoperte in Italia dal fascio; le tinte brune e sanguigne accentuano la cupezza del dramma e rievocano i labirintici palazzi cretesi, le colonne dipinte di rosso, le vergogne familiari -il Minotauro!- nascoste, non esposte a tutti, come è "tradizione" nella famiglia di Edipo.
Tutti bravi nel cast: Daniela Giovanetti nella parte di Antigone è sognante e determinata, fragile e intrepida, con appena qualche punta di melodramma nelle scene con Ismene ed Emone; perfetto il Creonte di Gabriele Ferzetti, nel suo equilibrio impossibile, eppure angosciosamente perseguito, tra affetti e ragion di stato. Da notare anche la bella prestazione di Umberto Raho (Jacquot), tenero tutore brontolone con le lunghe code svolazzanti del tight, e quella di Anita Bartolucci, prologo e coro sapientemente distaccato dai fatti, vestita da presentatore, tramite tra scena e platea; del resto, diverse battute ribadiscono che "le parti sono assegnate" e "bisogna attenersi ai ruoli". Lo spettatore ne desume un senso di inquietante ripetitività: questa tragedia è già stata vissuta, qualcuno la vive ora, qualcuno la vivrà.
Sulla scena cala l'oscurità, Creonte ridiventa uomo di stato, che deve pensare ai suoi "compiti precisi", completamente solo: "il mondo è vuoto" aveva detto al figlio. E nero. La condizione umana per Anouilh.


di Irene Liconte