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Successo per Moni Ovadia al Teatro della Corte

IL BANCHIERE ERRANTE: TRA MUSICA E ANEDDOTI, POVERTA’ E RICCHEZZA CONIUGATE AL PASSATO

Il banchiere errante: una messinscena di qualità, spettacolare e contenutistica, nel filone a cui da anni ci ha ormai abituato Moni Ovadia. Un’alternanza di momenti da music-hall -spicca la bellissima voce di Lee Colbert- ed affabulazione pura: aneddoti, barzellette, citazioni del Mercante di Venezia –la famosa apologia di Shylock e il messaggio racchiuso nello scrigno d’oro proposto ai pretendenti di Porzia.- Lo spettacolo è andato in scena al Teatro Stabile di Genova dal 14 al 21 gennaio. Al centro, il ruolo corruttore del denaro che, non circolando nella società ma rapacemente concentrato in poche mani, condanna l’umanità alla miseria ed alla fame. Le responsabilità divine? Forse motivate, ma difficili da capire per i credenti, come i tre fratelli musulmani che mettono la divisione della propria cospicua eredità nelle mani dell’autorità religiosa del paese, che li dissuade ripetutamente dal farlo, fino a cedere alle loro insistenze ed assegnare ad uno il 98% del patrimonio, ad un altro il restante 2% e nulla al terzo: "perché così divide Dio!" Anche i numeri della povertà, della fame nel mondo, dello sfruttamento ci dà Moni Ovadia a termine spettacolo. Il viaggio, nello spazio e nel tempo, è turbinoso: orologi separati da fusi orari, biglietterie e sale d’aspetto, bagagli, cartelli "per ogni destinazione", come nell’assurdo mondo di Alice nel paese delle meraviglie. E a spostarci nei secoli ci aiuta un ingegnoso stratagemma: Moni Ovadia interpreta il "banchiere errante", colui che raccolse i fondi per forgiare il vitello d’oro mentre Mosè riceveva i dieci comandamenti, condannato a vagare come banchiere in tutte le epoche, tra miserie e persecuzioni. Non mancano staffilate alle comunità ebraiche, ai ricchi finanzieri, Rotschild in testa, alla violenza che nasce, in qualsiasi forma, solo dal denaro: "c’est la guerre que fait l’argent!", si rovescia il celebre motto. E, nel corso di una performance musicale struggente, ogni interprete, simbolicamente, baratta il suo denaro con una stella di David da mettersi al braccio: in prossimità del ricorrere dell’anniversario della liberazione dei superstiti di Auschwitz (lo scorso 27 gennaio), un accorato ricordo dell’olocausto. Ecco l’unico, grande limite dello spettacolo: si limita ad una disamina, anche attenta, del passato, delle comunità ebraiche yiddish, trapiantate in Occidente, rassegnate alla diaspora. Non si affronta il tema, altrettanto fondato su interessi economici internazionali, di un popolo "errante" che cerca una terra per sé, ma ne espropria altri; non si parla del conflitto palestinese-israeliano, una guerra di sistematico sterminio che sta cancellando un popolo, proprio ad opera di chi, in passato lo ha atrocemente subito. Certo, è una tematica difficile, provocatoria: ma non è il ruolo primario del teatro quello di funzionare da "Shakescene", epiteto tanto sarcastico quanto azzeccato, con cui Greene aveva soprannominato Shakespeare? Ed ha senso parlare ancora di diaspora e persecuzioni agli Ebrei, se non si cerca di capire, parallelamente, anche la lacerante realtà di oggi?

Irene Liconte