BICENTENARIO DELLA NASCITA DELL’ORFEO CATANESE

"Ah crudeli!… e che vi feci!…/A che svenarmi?… Ah!… /Che!… no… non fu vero/Sognai cader trafitto!… Ma sparve il sogno": all’agonia del duca Carlo d’Agrigento, sepolto vivo in carcere da un usurpatore, assiste silenzioso re Carlo Felice di Savoia. Si svolse così l’inaugurazione del Teatro Carlo Felice di Genova il 7 aprile del 1828, con il melodramma "Bianca e Fernando" di Vincenzo Bellini. Dalla terza replica in poi, il re dimenticò l’etichetta di corte e applaudì entusiasticamente. Dell’"Orfeo catanese" si celebra quest’anno, il 3 novembre, il bicentenario della nascita, ricorrenza rimasta purtroppo in ombra per le celebrazioni verdiane. Eppure Bellini, nonostante la sua scomparsa prematura (morì a Parigi poco dopo il trionfo de "I puritani", ad appena 34 anni), segnò il passaggio dal classicismo di Rossini al romanticismo di Verdi e creò capolavori intramontabili, come "La sonnambula" e "Norma". Il suo soggiorno a Genova fu breve, ma egli ebbe particolari legami con la nostra città: qui conobbe Giuditta Turina, una giovane borghese di Milano con cui intrecciò un rapporto sentimentale lungo e contrastato e a cui dedicò l’aria finale del dramma rappresentato al Carlo Felice. Inoltre, il librettista di quasi tutti i suoi drammi fu il poeta genovese Felice Romani, all’epoca celeberrimo e salutato come il "Metastasio redivivo", che, per l’allestimento genovese, ritoccò il libretto originario di "Bianca e Fernando" di Domenico Gilardoni. Romani scrisse anche per Rossini, Donizetti e Verdi, ma fu con il giovane musicista siciliano che instaurò il sodalizio artistico più intenso: ogni altro librettista era, per l’esigente compositore, "un carnefice". E Bellini proclamava "la gloria sua non poter andar disgiunta dalla poesia del Romani". Non mancarono tuttavia tensioni tra i due artisti: Romani, oberato di commesse, faceva pervenire spesso con ritardi i libretti a Bellini che, d’altra parte, non di rado pretendeva ripetute revisioni (per "La sonnambula" i versi dell’assolo finale della protagonista furono riscritti ben dieci volte.) I contrasti si acuirono per la tragedia "Beatrice di Tenda", composta dal musicista per il Teatro La Fenice di Venezia: l’inadempienza di Romani costrinse Bellini a ricorrere alla polizia per costringere il librettista a raggiungerlo a Venezia (1833). È la fine di un‘intesa profonda. Nello stesso periodo si chiude la tempestosa relazione con Giuditta Turina: come in tanti drammi belliniani, l’amore esce di scena fatalmente sconfitto. Il tutto al canto di Beatrice, duchessa di Milano, che, vittima di un complotto del marito, si avvia a quel patibolo a cui a Genova era scampato il duca d’Agrigento.