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Il Duse di Genova ospita "La collezione" di Pinter in scena fino al 21 Dicembre

 COLLEZIONE DI FRAMMENTI DI VERITA’

 

Un dramma scarno ed essenziale, con ripiegamenti comici –la gag delle olive, l’ironico invito a servirsi da bere senza complimenti a chi già sta tracannando-, espedienti che spesso concludono o interrompono dialoghi giunti al punto estremo del discorso. È La collezione di Harold Pinter, allestita dalla compagnia Progetto U.R.T. con la regia di Jurij Ferrini, anche interprete. Il dramma è incentrato su una presunta notte d’amore di Bill Lloyd, stilista gay che convive con Harry, e Stella, stilista anche lei, incontratisi per caso fuori città per una sfilata. Lo svolgimento s’impernia sulla diversa versione che ciascun protagonista fornisce dell’episodio, in un intrico di menzogna-verità indistricabile e lasciato in sospeso anche dal finale.

La verità è una questione di punti di vista o, meglio, di percezione personale, in cui si innestano desideri, frustrazioni, sensi di colpa dei personaggi: ecco il caleidoscopio di storie che si intersecano e contraddicono, senza possibilità di soluzione. Pullulano i dubbi: perché Stella avrebbe inventato la storia della seduzione subita da Bill, dato che il legame con il marito Jimmy è recente e non ancora consunto dall’abitudine, tanto da esacerbare la gelosia di lui al punto di "sfidare" Bill ad un grottesco duello con coltelli da formaggio? O invece la freddezza con cui Jimmy la tratta non è conseguenza del confessato tradimento di lei, ma sintomo di una preesistente crisi coniugale? E può un omosessuale essere travolto in una notte di passione da una donna (e, in effetti, Bill all’inizio nega recisamente che il fatto sia avvenuto)? E, d’altro canto, perché Bill cerca di evitare in ogni modo l’incontro con il misterioso persecutore telefonico, come un temuto rendez-vous?

Se la verità non esiste, non mancano comunque tutte le reazioni a catena che la sua "latitanza" innesca: Harry è geloso del compagno, teme addirittura che ciò che (forse) non è accaduto tra lui con Stella capiti con il marito di lei. La competizione con un appartenente allo stesso sesso è, comunque, meno frustrante dell’antagonismo con l’universo femminile, completamente precluso all’uomo –ed infatti Stella è il personaggio più "solo- ; per questo che Harry non prende, forse inconsciamente, mai nemmeno in considerazione la possibilità che il rapporto tra Bill e Stella si sia effettivamente consumato. Ricca di poesia la confessione finale di Bill: "Siamo stati tutto il tempo nella hall dell’albergo, io e Stella, a parlare di quello che avremmo fatto se fossimo saliti in camera sua" (*), mentre, sconsolato, si abbandona all’abbraccio, quasi materno, di Harry. Viene in mente il sogno pasoliniano della "normalità", di una vita serena ai limiti del banale, per non dover sempre combattere i pregiudizi di un mondo, più che "normale", ipocrita: così, con timore e anelito alla pace, scriveva Pier Paolo Pasolini a Maria Callas: "[..] tu hai esperienza/ di un luogo che non ho mai esplorato, UN VUOTO/ [..] al posto dell’Altro/per me c’è un vuoto nel cosmo/ un vuoto nel cosmo/ e da là tu canti" e "Così (ed è la prima, ripeto, che mi succede)/ i miei occhi prendono in considerazione/ ‘i lombi immondi di donna’ ".

Il testo tocca l’apice della scarnificazione: il dialogo non concede nulla al superfluo, si perde in battute volutamente intrise della banalità del quotidiano. Non si aprono spiragli su un passato di orrore che ha relegato un uomo nella solitudine, come ne Il guardiano, del 1960, in cui si sono cimentati, in una messinscena teatral-televisiva, Ugo Pagliai e Peppino De Filippo, magistralmente diretti da Edmo Fenoglio; non c’è traccia della fuga di memorie, della nostalgia e del rimpianto che svaporavano tra i fumi dell’alcool, dei due protagonisti, lo scrittore di successo Hirst e il poeta fallito Spooner, di Terra di nessuno (1975), nell’intensa interpretazione di Paolo Bonacelli (allestito nella stagione 1993-94 per la regia di Guido Monticelli), né si ritrovano i monologhi intessuti di un trauma (forse appartenete all’immaginario collettivo) che non può manifestarsi che in forma allucinatoria di Ceneri alle ceneri (1996), allestito dallo stesso Pinter nella stagione 1997-98. E se in quest’ultimo lavoro la dissoluzione, lenta e crudele, del legame coniugale a causa di un tradimento altrettanto incerto di quello de La collezione, si consumava nel chiuso della casa di Rebecca e Devlin, qui, invece, ancora le tensioni casalinghe tentano (anche se non riescono) di evadere, di trovare una boccata d’ossigeno all’esterno, scatenando un effetto domino che non sortisce comunque alcun effetto.

La pièce è del 1963: la tematica dell’omosessualità -la parola non viene mai pronunciata nel corso dello spettacolo: tabù, presumibilmente, non della messinscena, ma del testo- costituiva allora un’ostentata provocazione al mondo dei benpensanti inglesi, il cui perbenismo Pinter non rifuggiva certo dal fustigare. Oggi la provocazione perde gran parte della sua carica sovversiva: se la nostra società è ben lontana dall’accettare (!) gay e lesbiche nella realtà quotidiana, è innegabile che, almeno in teoria, "certe remore" si siano alquanto attenuate. E questo può spiegare la sensazione di "incompiutezza" che lo spettatore avverte: la polemica non ferve più, la coppia omosessuale Bill-Harry non scandalizza. Anche la maturazione in fieri dei pur bravi componenti del cast (tra cui spicca un Alberto Giusta che sa ben modulare i diversi toni e tensioni delle scene) rende la messinscena meno felice rispetto al classico del Teatro dell’Assurdo portato in scena dalla stessa compagnia la stagione scorsa, Aspettando Godot di Beckett, in cui l’intensa interpretazione dei protagonisti faceva sì risaltare ma, anche, risaltava dell’indiscutibile fascino di uno dei capolavori teatrali del ‘900.

Accurata la regia di Jurij Ferrini, che coniuga i due interni del dramma in un unico ambiente quasi speculare (i due divani gemelli; al vassoio di liquori che completa l’arredamento della casa di Bill fa da contrappunto la pila di giornali femminili accatastati in casa di Stella), completo della tradizionale cabina telefonica londinese. L’elemento claustrofobico costituito, nella drammaturgia pinteriana, dalla "stanza", diventa ancora più soffocante, perché compenetra, anche fisicamente, le due realtà che si scontrano sulla scena. All’animazione degli inquilini di uno dei due "appartamenti" si oppongono l’immobilità ed i silenzi dell’altra coppia, "fotografata" nell’immobilità dell’esistenza da cui non ci si può svincolare; e così anche le vie di fuga dal palcoscenico sono tagliate, perché da destra si accede alla casa di Jimmy, da sinistra a quella di Harry.

 Ancora un’osservazione sulla locandina, estremamente evocativa: è un vecchio rudere di età vittoriana -la crisi profonda della società inglese e, a maggior ragione, di ogni altra società con tradizioni meno radicate, come la nostra- o una sinistra ipostasi di casa Bates, famigerato palcoscenico dello scatenarsi di psicosi represse nell’indimenticabile Psyco di Hitcock?

Irene Liconte

 

 (*) Le citazioni dal testo ne costituiscono la parafrasi.