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Moliere




In prima nazionale Lavia è il Don Giovanni di Molière allo Stabile (18/10-12/11)

IL CIELO INCOMBE SU UN DON GIOVANNI A MISURA D'UOMO


Don Giovanni e Sganarello, giacca e casco di cuoio da autista, in side-car per esplorare l'universo umano come un moderno Diogene: ecco l'entrata in scena di Gabriele Lavia ed Eros Pagni, rispettivamente nei panni del padrone e del servo del Don Giovanni di Molière allestito dallo Stabile di Genova, con la regia di Marco Sciaccaluga.
La trama: Don Giovanni, lo "sposatore" del genere umano, come lo definisce il servo Sganarello, abbandona donna Elvira, che ha sposato a dispetto dei voti monastici di lei, a caccia di nuove belle. Fortuitamente scampato da un naufragio, insidia due contadine, ma è costretto a sfuggire alla vendetta dei familiari del Commendatore, gentiluomo da lui ucciso in duello. Rifugiatosi nel bosco, salva dall'assalto di alcuni ladri il fratello di Elvira, che lo cercava perché riparasse all'offesa fattale. Giunge poi al mausoleo del Commendatore, lo invita a cena per irrisione: la statua accenna di sì con la testa, si presenta nel luogo convenuto, ricambia l'invito. Don Giovanni, inutilmente redarguito dal padre e pregato da Elvira a redimersi, decide di camuffare il suo schietto libertinaggio con la maschera dell'ipocrisia, dannandosi definitivamente. Il protagonista dell'opera, rappresentata per la prima volta nel 1665, è personaggio famoso per le sue conquiste amorose. Ma in Molière il peccato capitale di Don Giovanni è l'ateismo, la sfida e lo scherno alla potenza celeste, magnificamente resa dai colpi vibrati verso l'alto dal protagonista con un frustino - nel dramma, effettivamente, la sola donna offesa è Elvira.- Don Giovanni crede solo in ciò che è avallato dalla sua ragione -Sganarello precisa che la religione del suo padrone è l'aritmetica-; e crede nell'uomo: dona comunque la moneta d'oro al mendicante che ha vanamente cercato di corrompere alla bestemmia, salva Don Carlos dai ladri, con Sganarello è disponibile alle discussioni -ma non ai sermoni!- Proclama di avere un cuore pronto ad amare interi universi, scopre con invidia l'amore puro di due fidanzati. Lui conosce la sola transitoria passione d'amore, ma anche in questo campo il regista sottolinea la sua attrazione per l'essere umano in tutte le sue varianti, ogni bella donna è desiderabile, dall'aristocratica Elvira, alla contadina Carlotta, alla popolana Maturina, tatuaggio sul braccio, capelli arancione shocking in ciuffi e trecce, anfibi. Ma non ha fiducia nel progresso umano, nelle scienze come la medicina, che allora si sforzavano di analizzare il mondo empiricamente. La sua figura è esemplare della crisi in cui versò l'ottimismo umanistico del Rinascimento, dopo le scoperte astronomiche che affossarono la teoria geocentrica e usurparono all'uomo la sua posizione centrale nel cosmo. Uno dei più conosciuti passi che denunciano lo smarrimento dell'epoca appartiene all'Amleto "… il firmamento sovrastante, soffitto maestoso adorno di fuochi d'oro, per me non è che un ammasso di vapori pestiferi. Quale capolavoro è l'uomo! Come nobile nell'intelletto! Come infinito nelle facoltà![..] Eppure, ai miei occhi che cos'è, questa quintessenza di polvere?". E' un caso che la regia abbia scelto di dare come sfondo all'analogo panegirico dell'uomo da parte di Sganarello una notte stellata niente affatto citata nel testo? Oppure è un nesso preciso, tanto più che il ruolo del "Cielo" nel dramma non è esente da ambiguità? Il Cielo che punisce Don Giovanni appartiene al Vecchio Testamento, un Dio terribile nella collera, come è evocato da Alfieri nel Saul. E' un Dio che non concede il libero arbitrio, conformemente al Calvinismo: ed è proprio tra il 1630 e il 1685 che, in Francia, si soffoca gradualmente la libertà di culto degli ugonotti francesi. La fine esemplare di Don Giovanni si tinge dei colori della storia? Don Giovanni paga la miscredenza come il re Penteo l'ostilità al culto di Dioniso nelle Baccanti di Euripide. Un Dio simile ai capricciosi ed imperscrutabili dèi antichi, che folgora un arrogante Capaneo? Il Cielo di Molière si accanisce eccezionalmente contro un singolo peccatore -non contro un re che promulga editti di intolleranza religiosa- e non si cura che il mendicante votato alla preghiera muoia di fame. L'impossibilità di portare alle estreme conseguenze i propri atti, per poi risponderne dopo la morte, è uno dei cardini del credo cattolico di fronte al problema del male: il ladrone si pente in croce in punto di morte, il protagonista di Una tragedia americana di Dreiser invoca per l'uomo, pur colpevole, la grazia della vita, per avere il tempo di pentirsi ed espiare. A questi eterni interrogativi non poteva dare una risposta il drammaturgo, né il regista, che costruisce però uno spettacolo molto intenso, che costringe a pensare. Per tutto lo svolgimento del dramma campeggia uno sfondo con il cielo sovrastante, cangiante da tramonti sanguigni a terse plaghe sul ravvedimento simulato da Don Giovanni; l'occhio non può spaziare sugli orizzonti celesti, deve alzarsi per oltrepassare la nebbia evocata dalla parte inferiore dello sfondo, picchiettato di bianco, ora bruma mattutina in cui Don Giovanni cerca di nascondersi ad Elvira, ora foglie impressionistiche del bosco, poi fumo esalato sulla tomba del Commendatore, infine parete scrostata della casa dell'indebitato gentiluomo. Gli spazi scenici si dilatano orizzontalmente, penetrando in platea, espediente futurista della caduta della quarta parete, ma anche efficace resa scenica dell'esclusiva "orizzontalità" della dimensione umana.
Un Cielo troppo alto, ma in qualche modo anche ctonio: il mausoleo del commendatore è genialmente reso con i principali tratti fisiognomici - naso, orecchie, bocca- in massicci blocchi adagiati per terra, con due bracieri ardenti come occhi, in un'atmosfera luciferina. Nel finale ci si apre al mistero: cade lo sfondo, su un ambiente angusto e buio. Poche suppellettili: attrezzi per plasmare la creta, da cui Dio generò l'uomo; un compasso che allude alla perfezione ed all'irriducibilità del cerchio, quindi dell'elemento divino; la tomba del Commendatore, gli strumenti di scena di solito nascosti nelle quinte ed, infine, la porta che separa l'aldiqua dall'aldilà. Don Giovanni sprofonda negli inferi, ma l'intera dimensione metafisica presenta un aspetto cupo, un Paradiso immaginato da un personaggio dostoevskijano come "una soffitta buia e polverosa", un indistinto Ade degli antichi.
Numerose le suggestioni dell'allestimento: il Commendatore che si presenta a cena è una statua bronzea semovente, chiazzata già dalla consunzione, ma evoca anche un cadavere dissepolto, incrostato di zolle; il frenetico destreggiarsi di Don Giovanni tra Carlotta e Maturina in una corsa a rompicollo lungo la base della platea; il sipario che raffigura i più disparati oggetti: una bambola rotta, un viso femminile che traspare da una bolla, un busto di Afrodite danneggiato, una polena strappata ad una nave esemplificano i torti inflitti dal protagonista alle donne, con una sfumatura di sacralità infranta nella statua della Madonna, nelle colonne di templi abbattuti. Attrezzi per modellare la creta, per creare, fanno da contrappunto ad un aereo che precipita, nuovo Bellerofonte (o Lucifero) scagliato dagli dèi giù dal suo Pegaso. Notevole l'episodio del contadino Pierotto, contraltare drammatico di Don Giovanni su tre livelli: quello linguistico, che contrappone le frasi sgrammaticate dell'uno alla lingua forbita dell'altro, che, dice Sganarello, sa far sembrare giusto ciò che non lo è (la condanna dell'eloquenza al servizio del male è già della Medea euripidea); la blasfemia di Pierotto e la sua generosità, opposte al rispetto verbale di Don Giovanni ed alla sua condotta esecrabile; infine, non è da trascurarsi la gerarchia sociale secentesca che ridimensiona "l'amore per l'umanità" di Don Giovanni, che infierisce crudelmente con il frustino su chi gli ha salvato la vita. Ancora, la versatilità della tavola in letto e luogo di autofustigazione, a sottolineare le precarie condizioni economiche del protagonista; la divertente scena della neutralizzazione del creditore; l'accorata preghiera di Elvira a cambiare vita, che si vena di un'esaltazione crescente fino all'orgasmo. Per quanto riguarda i costumi, curatida Ezio Toffolutti come le scene, si alternano paltò di fine ottocento a pantaloni al ginocchio settecenteschi, la lunga sciarpa nera da nobile dei primi del '900 del protagonista e l'abito secentesco di Elvira aperto su una tenuta da amazzone. Solo Sganarello indossa abiti rigorosamente d'epoca: pur in un dramma che non è intaccato dai quattro secoli che lo separano da noi, un rapporto servo/padrone come quello rappresentato non può che richiamare la società del '600.
Tutti bravi nel cast, dall'appassionata Donna Elvira di Daniela Giordano, alla figura, forse troppo grottesca, del padre -Massimo Mesciulam- che, pressoché cieco, non si accorge che il figlio, annoiato dalla sua reprimenda, se n'è andato, al Don Giovanni inquieto e perennemente insoddisfatto di Lavia, che impersona magnificamente il personaggio in tutte le sue sfumature, dalla sua ferrea coerenza e fiducia nella ragione, degna dei Lumi del '700, fino alla trasformazione finale in ipocrita -il Tartufo è dell'anno precedente.- Ben modulati i toni remissivi e cantilenanti del novello ipocrita; una splendida intuizione la scena in cui ad uno Sganarello, commosso dalla conversione, il padrone rivela che è tutta simulazione, un mascherarsi comune a tanti uomini, mentre si veste come un distinto signore dei giorni nostri. Splendido lo Sganarello di Eros Pagni per vivacità e pienezza espressiva, con la sua immancabile incredulità di fronte all'escalation amorale del padrone, fino alla vibrata protesta per il salario perduto, geniale chiusura da commedia che riequilibra l'atmosfera tragica delle ultime scene.


di Irene Liconte