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LE RAGIONI DEL MITO

L’IDENTITA’ E IL DOPPIO

Relatore: Prof. Maurizio Bettini, Filologia classica a Siena

Letture: Elisabetta Pozzi ed Eros Pagni

Il "doppio" intride la nostra esistenza: ci raddoppiamo nelle ombre che il sole proietta alle nostre spalle, negli specchi, nei sogni, dove talvolta raddoppiamo gli altri (chiedendo poi spesso ai prototipi ragione del "comportamento" del loro doppio onirico). Esistono poi doppi artificiosi, come le statue, i dipinti ed ogni rappresentazione dell’aspetto umano. La spinta dell’umanità a raddoppiarsi è tanto radicata e irrefrenabile quanto antica: un mito greco misconosciuto, narrato da Plinio il Vecchio, ci racconta come nacque la consuetudine di riprodurre la persona in figure inanimate. Si narra che la figlia di un abile artefice, Butale, fosse innamorata di un giovane che stava per abbandonarla; così ella nel sonno incise sulla parete, quasi rubò nel sonno, le fattezze dell’amato prima di perderlo. Da questo gesto Butale ebbe l’idea di creare una figurina fittile che riproducesse le sembianze del giovane e nacque così la prima figura umana modellata nella creta. Apuleio, secoli dopo, commenterà un simile espediente di una donna innamorata come "consolarsi con il proprio stesso tormento". Comunque i doppi enumerati finora sono innocui, inanimati: non così per altri celebri esempi, sempre dall’antichità: basti pensare al "sosia di Sosia" (il gioco di parole è tanto scontato quanto allettante) nell’Anfitrione di Plauto, dove Sosia, servo di Anfitrione, si ritrova davanti mercurio sotto le mentite spoglie se stesso; oppure il doppio dell’Elena di Euripide, che rivela come un’immagine vacua sia stata origine di tanti lutti. Freud definiva questi doppi "perturbanti", cioè in grado di sovvertire l’ordine delle cose. Per Freud -e per la nostra concezione di moderni- il doppio è sintomo di disintegrazione d’identità, schizofrenia. Gli antichi sentivano diversamente: un esempio lo fornisce proprio Sosia, bastonato e cacciato dal palazzo di Anfitrione. Egli si domanda dove e come abbia smarrito la propria identità, che riconosce "assorbita" da chi gli sta davanti, è stupitissimo che gli avvenga da vivo ciò che mai gli sarebbe potuto capitare da morto. Quest’ultima affermazione introduce il tema della duplicazione nell’antichità sotto un altro aspetto: a Roma i funerali dei membri di famiglie nobili si svolgevano con un corteo di figuranti che indossavano le maschere di cera rappresentanti gli antenati e religiosamente custodite nelle case patrizie, compresa la maschera del morto stesso. Sosia come servo non godrebbe certo di simili esequie: ed ecco che il proprio doppio lo incontra in vita! E il problema diventa non riconquistare la propria identità a tutti i costi, ma trovarsene un’altra: e, nello spirito giocoso della commedia plautina, a Sosia non va nemmeno tanto male se, deposta la sua identità di schiavo assumerà, magari, quella di liberto. Entra cioè in gioco la trasformazione la magia, forze esterne all’interiorità (malata o meno).

Lettura dell’incontro tra Sosia e Mercurio, dall’Anfitrione di Plauto, atto I

Il mito di Narciso è notissimo; meno note alcune varianti, che ne attestano comunque la popolarità. Oltre al narciso bellissimo, esiste un Narciso "scemo": è il protagonista di una storia contenuta in una raccolta bizantina. Il "figlio di un pedante" (o di un professore, si potrebbe tradurre, commenta autoironicamente il relatore), giocando a palla, la lancia involontariamente in un pozzo. Si affaccia sull’orlo, vede un ragazzo che lo guarda e chiede, inutilmente, la restituzione della palla. Si rivolge allora al padre che, affacciatosi a sua volta, chiede alla propria figura riflessa "Signore, per cortesia, potrebbe dire al ragazzino di restituire la palla a mio figlio?" Un’altra versione "rovesciata" (il doppio del doppio?) della storia di narciso si ritrova nell’Antologia Palatina. Qui l’alter di Narciso è un tal Olimpico, di una bruttezza tale che i conoscenti gli sconsigliano vivamente di non specchiarsi mai in una fonte per non rimanere morto folgorato dalla propria bruttezza. Addirittura nel suo trattato di agricoltura Columella fa riferimento ad un disturbo a cui sono soggette le cavalle, in tutto e per tutto simile alla follia amorosa di Narciso: specchiandosi negli stagni, esse sono prese da una smania che le consuma finché, vedendo nuovamente la propria immagine riflessa una volta deperite, non guariscono.

Il mito di Narciso mostra la tragica conclusione del rapporto del fanciullo con il proprio doppio riflesso nella sorgente e ci racconta anche la storia di un doppio inusuale, non visivo ma uditivo: quello della ninfa Eco, costretta a replicare le parole altrui. Il mito è rievocato negli splendidi versi delle Metamorfosi di Ovidio.

Sempre al tema del doppio, con ripresa del mito dell’inganno perpetrato da Zeus per amare la sposa di Anfitrione, Alcmena, da cui nascerà Eracle, si rifà il racconto, di epoca medievale, di Goffredo di Manmouth, La nascita di re Artù. Si racconta come, mossa guerra a Gorlois, duca di Cornovaglia, della cui bella moglie Igerna è invaghito, Uter Pendragon assuma le fattezze del marito di lei, proprio come lo Zeus di Plauto. Non essendo un dio, Uter ricorre ad un aiuto esterno: la magia di Merlino. Tradizioni popolari ricordate già da S. Agostino a proposito delle popolazioni celtiche lasciano però un dubbio sulla dinamica della trasformazione: S. Agostino parla di creature demoniache, i "dusii", in grado di assumere le sembianze dell’uomo amato dalla donna da loro concupita per sedurla. Anche autori successivi avvallano questa credenza; e se Uter appartenesse a questa categoria? Ne deriverebbe che re Artù ha una nascita diabolica.

Lettura del brano La nascita di re Artù, da Goffredo di Manmouth.

Un altro autore medievale, Walter Map, scrive un racconto molto particolare, appartenente alla raccolta Svaghi di corte, che ha come protagonisti un diavolo e un monaco. È necessaria una premessa: il nome del diavolo è Morfeo, retaggio della tradizione antica. In particolare Ovidio parla di questa divinità minore come di colui che animava di figure umane i sogni degli uomini, mentre altre due divinità assumevano fattezze animali e paesaggistiche (il primo era Pantaso, che era quindi responsabile degli incubi, che per gli antichi erano originati da animali che si accucciavano sul petto dei dormienti: un suggestivo ritorno del tema lo troviamo, nel ‘800, ne L’incubo di Fuessli, affollato di animali spettrali). Il nome di Morfeo per il diavolo è perfettamente conforme alla demonizzazione che in età cristiana si fece della mitologia classica; inoltre, ligio alle sue funzioni nella romanità, anche nel racconto in questione Morfeo tormenta il monaco con visioni notturne molto sgradevoli. Così l’uomo comincia a dipingerlo, in ritratti sempre più orridi e, dopo inutili proteste, Morfeo attua la sua vendetta. Prima fa sicché i notabili coprano il monaco di doni, in modo da corromperne la temperanza, fino ad indurlo ad invaghirsi di una bella vedova, che adesca con doni e regali, non potendo contare su attrattive fisiche. I due scappano insieme, dopo aver involato i tesori dell’altare del monastero; riacciuffati, il monaco finisce in prigione, scontando amaramente, con la fame, le privazioni e le catene la lussuria e l’ingordigia a cui si è abbandonato. Con finale a sorpresa sarà proprio Morfeo a liberarlo: sostituitosi a lui nella cella, inscena davanti ai monaci uno spettacolo davvero "diabolico", esibendosi in mille orribili smorfie (in Greco m o r j h significa "forma" [la mutevolezza di Morfeo] ma anche "smorfia") fino a sciogliersi magicamente dalle catene e scomparire, mentre il monaco finge, per contrasto, la più devota compunzione. Non poteva mancare il patto con il diavolo: ovviamente, Morfeo ha preteso dal monaco, in cambio del proprio intervento, che non lo dipingesse più così brutto… che sia rimasta un’eco della storia nel famoso detto popolare?

Lettura del racconto del monaco e Morfeo, da Svaghi di corte di Walter Map.

Per concludere si torna ai testi antichi ed al mito: uno notissimo e controverso, quello di Elena regina di Sparta rapita da Paride. Il primo dubbio nel racconto sorge proprio qui: le fonti omeriche sono contraddittorie se Elena sia stata rapita da Paride o se lo abbia seguito di propria volontà. Probabilmente l’importanza della donna nella società descritta da Omero era così scarsa che non importava la dinamica dei fatti. Elena appare come un personaggio doppio, nel senso di ambiguo e sfuggente, nelle vicende della guerra di Troia: aiuta Odisseo, introdottosi a Troia di notte, gli confida il proprio desiderio di tornare in Grecia; quando il cavallo è introdotto nella città, ella tenta i guerrieri lì occultati ad uscire per riabbracciare le mogli, di cui imita le voci. Insomma, da che parte sta Elena? Su quest’ultimo episodio molti studiosi si accaniscono con scrupoli di verosimiglianza fuori luogo per un racconto mitologico: cioè come fosse in grado Elena di imitare le voci di tutte le spose dei guerrieri greci, come facesse a conoscerle. È più probabile che in questo frangente Elena rappresenti il fascino della bellezza, della femminilità, che ogni uomo incarna nella propria moglie, e che la voce di Elena sia un ipostasi di quella delle sirene che insidieranno il ritorno di Odisseo.

Anche la presenza di Elena a Troia è molto controversa: secondo Erodoto, ella fu trattenuta in Egitto dai sacerdoti locali, dopo aver saputo dai servi di Paride, scappati dal proprio padrone ed affrancatisi, che era stata rapita al marito. Erodoto non ci dice però chi fu dunque a Troia. Una versione bizzarra ci è stata tramandata come risalente a Stesicoro. Si narra che il poeta avesse screditato pesantemente la bella Spartana e che lei, apparsagli in sogno, se ne fosse lamentata e l’avesse reso cieco per vendetta. Per riacquistare la vista, Stesicoro avrebbe scritto una palinodia in cui scagionava Elena dall’adulterio: in realtà ella era rimasta in Egitto e una nube forgiata da Era aveva preso il suo posto e costituito la causa della guerra.

Lettura dell’incontro tra Elena e Menelao, dall’Elena di Euripide

Quando la verità è accertata, un servo, desolato, osserva: "Ed allora noi a Troia abbiamo combattuto per una nuvola?": la guerra si fa sempre per un nulla, ci dice poeticamente e con amara ironia Euripide.

Un’ultima battuta dall’Elena: "Il nome può stare dovunque" risponde lei alle incalzanti domande di Menelao che si ritrova bigamo della stessa donna. Per Elena si è formato un doppio di parole, che è la sua condanna e la sua tortura: per quanto innocente, sarà sempre creduta adultera, sarà scambiata con il suo doppio e accolta con disprezzo a Sparta. Potenza del doppio.

 

Irene Liconte