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Fino al 20 aprile a zonzo nella chiesa di S. Agostino alla ricerca dell’Inferno dantesco

CONVINCE POCO LA MESSINSCENA DEL TEATRO DELLA TOSSE CHE VIVE DELL’ALTEZZA DEI VERSI DEL SOMMO POETA

 

Il Teatro della Tosse ha allestito nell’affascinante – se non altro per il gioco di contrasto sacro/ demoniaco - scenario della chiesa di S. Agostino uno spettacolo più stimolante che convincente: d’effetto è la preliminare visita al museo di S. Agostino per ammirare i frammenti del monumento funebre, opera di Giovanni Pisano, commemorazione di Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore Arrigo VII, nelle speranze di Dante liberatore e pacificatore d’Italia. Interessanti anche le spiegazioni artistiche circa "la corporalità" della figura di Margherita, sollevata letteralmente di peso dagli angeli nella raffigurazione della resurrezione, componente materiale che trova riscontro nei patimenti tutti "fisici" dei dannati danteschi (le celeberrime illustarzioni di Gustave Dorè sono più che esemplificative in questo senso.)

Lo spettacolo enuclea e si limita ad illustrare, tramite i versi immortali del Sommo Poeta, alcuni dei più noti passi dell’Inferno, dal "l’infernal bufera che mai non resta" e che ci regala la triste vicenda di Paolo e Francesca, al vaticinio dell’esilio a Dante da parte di Farinata degli Uberti, relegato tra gli eretici, al "folle volo" di Ulisse oltre le colonne d’Ercole, alla struggente fine di Ugolino della Gherardesca e dei suoi figli condannati a morire di fame in carcere. È, insomma, una messinscena quasi aedica, tutta affidata alla forza dell’evocazione poetica; un’impostazione simile alla Storia del labirinto, allestita sempre alla Tosse da Mara Baronti, ma con ben altro impatto emotivo. La rappresentazione evidenzia infatti la difficoltà di dare "corpo scenico" ai versi danteschi, tanto questi sono, anche dal punto di vista scenografico, esaustivi nel far vivere i vari episodi. Il problema affiora anche laddove, per necessità di rendere comprensibile lo svolgimento dei fatti, le parole dei protagonisti sono intercalate da battute del "poeta" e del suo "duce": l’espediente di farli recitare agli attori stessi che interpretano ora Paolo e Francesca, ora il conte Ugolino è, forse, rimedio peggiore dell’inserimento di un ulteriore attore nei panni di narratore. Il conte che descrive se stesso mentre affonda le fauci nel teschio del suo assassino diminuisce l’impatto emotivo del racconto; nell’episodio di Paolo e Francesca "mentre che l’uno spirto questo disse/ l’altro piangea…": Paolo non pronuncia una parola nel Canto V dell’Inferno, parla solo Francesca, il patos raggiunge il colmo. Durante lo spettacolo Pietro Fabbri pronuncia invece i commenti e le domande di Dante, in alternanza allo straziante racconto di Francesca, che gli carezza teneramente il capo (Lorenza Pisano): l’intervento diretto del personaggio, muto di dolore nell’originale, mina il raccoglimento doloroso del quadro dei due amanti avvinti, ancora avvolti dalle lenzuola tra cui furono assassinati. C’è da rilevare, inoltre, che l’idea, accattivante, di non assegnare a nessun attore la parte di Dante ma di attribuirla implicitamente a ciascuno spettatore perde molta della sua suggestione a causa di detta frammistione di battute. Bisogna comunque da riconoscere l’estrema difficoltà oggettiva dell’operazione tentata da Tonino Conte: proprio il fatto che il testo ed i versi siano così familiari al pubblico, se da un lato consente di recitare i versi poetici senza alterare per renderli più comprensibili, dall’altro fa sì che le aspettative degli spettatori non siano appagate nella sola ammirazione della sublimità della poesia.

"Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli/ fanno attuffare in mezzo la caldaia/ la carne con li uncin, perché non galli" (vv. 55-57, Inferno, Canto XXI): siamo nella bolgia dei barattieri immersi nella pece rovente. Malebolge è certamente il fulcro diabolico più vivace e minaccioso dell’"Inferno", l’accozzaglia di spietati demoni che tortura i peccatori e cerca anche di giocare un tiro mancino per impedire a Dante di proseguire il suo cammino: è perciò naturale che "I Malebranche", da Barbariccia a Cagnazzo, da Alichino a Draghignazzo, siano la presenza maligna che anima tutto lo spettacolo. Al brano sopracitato, che ci accoglie subito varcata la soglia minacciosa "PER ME SI VA NE LA CITTA’ DOLENTE […] LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CH’ENTRATE", per bocca di un gruppo di diavoli abbarbicati ad impalcature e che insultano così la folla dei peccatori (il pubblico, in qualche caso sospinto "a mestolate" verso le nicchie che accolgono i quadri), la regia si è particolarmente ispirata. Infatti per l’intera rappresentazione la metafora cuoco/diavolo viene mantenuta. Che si tratti di un metaforico contrappasso sospeso sulla nostra società, votata al consumismo più sfrenato, ben rappresentato in una voracità culinaria mai sazia? L’idea è stimolante, come, dal punto di vista scenografico, le pelli dei dannati squartati appese alle spalle dei diavoli – dove si manifesta la forza della semplicità: tessuto di nylon deformato e tirato-; d’effetto anche la chiassosa sarabanda in cui, tra forconi pestati per terra, tambureggiare sulle pentole e grida disumane si rivive l’episodio del barattiere scampato alla feroce caccia dei diavoli. Ed ecco affiorare il kitsch: da una delle pentole emerge fino alla cintola Farinata degli Uberti, apostrofa Dante e si riponde: un intermezzo mal riuscito, con l’aggravante dell’erronea impressione Farinata sia cucinato dai demòni come cannibali di vecchi film americani. Molto più dirompente, nella sua fulmineità, l’affacciarsi spaesato del padre di Guido Cavalcanti, la sua costernazione alla notizia che il figlio è morto. Un’altra caduta di stile negli sferzanti insulti di Dante ai Genovesi, puntualmente riportati nello spettacolo: la trovata, più che ammiccante, è banale e non arricchisce certo la rappresentazione, salvo suscitare le inevitabili risatine; non basta a rendere l’attacco più universale la successiva invettiva contro Firenze: " Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande/ che per mare e per terra batti l’ali,/ e per lo ‘nferno il nome tuo si spande!" (vv1-3, Inferno, Canto XXVI). Forse, per rendere il senso della condanna dantesca dell’umanità in toto – non si dimentichi che i canti VI di Inferno, Purgatorio e Paradiso sono dedicati, rispettivamente alla condanna di Firenze, dell’Italia e dell’Impero, a comporre un "666" non casuale, perché evocativo della "Bestia" dell’Apocalisse di S. Giovanni – sarebbe stato più proficuo recitare i versi con cui Dante non risparmiò nessuna delle città italiane, da Firenze a Roma, da Venezia a Pistoia, Pisa etc. In questo senso sono da intendere i versi tratti dal Canto XXIX, 45 ss.: "Qual dolor fora, se de li spedali/ di Valdichiana tra ‘l luglio e l’settembre/ e di Maremma e di Sardigna i mali/ fossero in una fossa tutti ‘nsembre,/ tal era quivi, e tal puzzo n’usciva/ qual suol venir de le marcite membre". Il passo riproduce, metaforicamente, la corruzione dell’umanità, con immagini repellenti e pietose insieme che ritroviamo, a secoli di distanza, in un autore come Camus (La Peste) : ma, recitati dopo l’irrisione ai Genovesi, può nascere l’equivoco che solo a questi ultimi si riferisca il brano.

L’effetto scenografico della comparsa di "Caròn dimonio" che brandisce il remo dalla sua barca è esaltata dalla presenza del "mare di dannati" costituito proprio dal pubblico; ma i momenti di felice intuizione scenografica sono altri scenografica: lo straccio che stringe tra le mani il conte Ugolino, ora corpo esanime dei figli, ora cervello – con effetto ancora più raccapricciante del teschio – dell’odiato carnefice; e lo strappo in un tendaggio rosso da cui affiora il viso di Ulisse, che ricrea l’atmosfera della bolgia dei consiglieri fraudolenti. La recitazione di Lisa Galantini è intensa, inizia parlando a stento: "lo maggior corno de la fiamma antica/ cominciò a crollarsi, mormorando/ pur come quella cui vento affatica"; come aveva detto Francesca "Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ ne la miseria." Ma perché affidare ad un’attrice il personaggio di Ulisse? Per esigenze interne alla gerarchia della compagnia? La scelta non convince.

Lo spettacolo ha un’impennata alla fine: la regia disattende l’incontro grandioso con il principe delle tenebre e non ci fa esultare alla vista del firmamento riguadagnato nel finale, ma porta in primo piano la figura dell’altero Capaneo, relegato da "Padre Dante" all’Inferno. "Qual io fui vivo, tal son morto": è lo slogan del dannato che non chiede pietà, continua a bestemmiare contro Dio: "Non mi pento! Non so se mi sono spiegato: io mi spezzo, non mi piego" recita con voce potente Enrico Campanati, sotto il simulacro dell’Apollo del Belvedere: un nuovo dio, "pagano", più vicino alle inclinazioni ed alle debolezze umane? E prosegue l’apologia della coerenza nel male: chi si pente lo fa per paura, non per sincera contrizione. Capaneo grida, quelli sussurrano: il penitente non alza la voce, meglio nascondere i propri peccati, seppellirli sotto il comodo tappeto dell’ipocrisia di un pentimento di comodo e passeggero. Una perseveranza nel male conclamata con forza (e come non pensare all’attacco suicida e disperato di tanti estremisti palestinesi e alla caparbia con cui Sharon persegue l’obiettivo di un nuovo olocausto?), che incute quasi rispetto di fronte alla mediocrità dell’alternativa e fa paura. Così il coro di dannati – da Ciacco, dal cerchio dei golosi, a Niccolò III che aspetta "Bonifazio" tra i simoniaci, a "Taide puttana", a Pier delle Vigne, portavoce dei suicidi, crudelmente "scerpato" dal regista dai casi esemplari dell’Inferno dantesco- che avevano seguito Capaneo, entrando nell’ultimo quadro lamentandosi della propria condanna eterna, incalzano il pubblico, minacciano una rivolta: ma ecco, soave, giungere l’inno alla Madonna: "Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio/ tu se’ colei che l’umana natura/ nobilitasti, sì che ‘l suo fattore/non disdegnò di farsi sua fattura./ Nel ventre tuo si riaccese l’amore/ per lo cui caldo ne l’eterna pace/ così è germinato questo fiore./ Qui se’ a noi meridiana face/ di caritate, e giuso, intra i mortali/ se’ di speranza fontana vivace./ Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/ che qual vuol grazia ed a te non ricorre,/ sua disianza vuol volar sanz’ali./La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fiate/ liberamente al dimandar precorre./ In te misericordia, in te pietate,/ in te magnificenza, in te s’aduna/ quantunque in creatura è di bontade."(Paradiso, vv. 1 ss, Canto XXXIII) Amore, pace, speranza, misericordia, bontà: la risposta a Capaneo, la "face" ( forse solo una magnifica utopia) del nostro mondo.

 

Irene Liconte