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Goldoni

Alla Corte in scena la commedia di Goldoni impeccabilmente allestita da Massimo Castri (dal 12/12 al 21/12)

GL'INNAMORATI DI GOLDONI TRAVOLTI DALLE TEMPESTE "ROMANTICHE"



Due innamorati permalosi, che alternano tenerezze e lanci di vasi da fiori sullo sfondo una borghesia decadente e polverosa. Sono Gl'innamorati di Goldoni, nell'allestimento di Massimo Castri, in coproduzione tra il Teatro Stabile del Veneto e il Teatro Stabile Metastasio della Toscana.
La trama è intessuta sugli amori tempestosi, liti continue e susseguenti rappacificazioni di Eugenia e Fulgenzio, dotati di caratteri irascibili ed impulsivi: qualunque inezia è pretesto di gelosia, sospetto e lite. Cercano assiduamente di riconciliarli Flamminia, sorella di lei, Ridolfo, amico di lui e il conte d'Otricoli, gentiluomo romano che si trova, con suo divertimento, invischiato nei fatti, sotto lo sguardo distratto del sior Fabrizio (uno degli "umori fantastici" che Goldoni sapeva così elegantemente dipingere), zio delle due sorelle.
La commedia appartiene alla produzione della maturità di Goldoni (1759); l'allestimento, che propone la pièce nella sua versione integrale, è vivace e rasenta appena il rischio di scivolare sulla ripetitività del tema degli innamorati litigiosi, peraltro imputabile al testo stesso. Lo spettacolo è un sapiente bilanciamento di comico e malinconico, secondo una lettura dell'opera goldoniana venata delle prime avvisaglie del Romanticismo, molto cara a Castri. Non mancano quindi quadri divertenti: le stramberie di Fabrizio, ridotto ad impegnare le posate per poter continuare incoscientemente a scialacquare i resti del patrimonio in inviti a pranzo forzati e, spesso, assolutamente inopportuni (su tutti, quello rivolto a Clorinda, cognata di Fulgenzio, di cui Eugenia è gelosissima, e quello a Ridolfo, che è costretto a sgattaiolare via, approfittando di un attimo di distrazione del padrone di casa, per poter portare un'ambasciata di Flamminia a Fulgenzio). Spassosa e molto immediata la scena in cui i servi Lisetta e Tognino, curiosi, spiano dal buco della serratura la concitata scena del "desinare" dei padroni che degenera in parapiglia. Gli spunti comici si alternano a dialoghi ed episodi raccolti, infarciti di lacrime e sospiri: si pensi alla sfumatura di dolente solitudine, sapientemente insistita dalla regia, nel personaggio di Flamminia, giovane vedova, che desidererebbe per sé attenzioni d'amore, tanto da prendere involontariamente tra le proprie le mani di Ridolfo mentre gli affida l'ambasciata per Fulgenzio. Nodo drammatico della commedia è il confronto del II° atto tra i due amanti, che, pudicamente e con giovanile freschezza, si volgono le spalle; la dichiarazione d'amore di Eugenia viene amplificata da Castri nell'affidare la battuta ad entrambi, lui eco di lei, stremata dalle liti, spaventata dal coltello che Fulgenzio ha impugnato in un impeto d'ira e - insinua argutamente la regia- vuole nasconderle, forse su suggerimento dello stesso timore manisìfestato da Eugenia che egli compia un gesto disperato. Sfiorato il culmine tragico, ecco di nuovo il trapasso al comico: il tenero abbraccio dei due innamorati, con Fulgenzio inginocchiato ai piedi di Eugenia, è repentinamente interrotto dall'irruzione del signor Fabrizio e della detestata Clorinda; uno spintone di Eugenia, tra imbarazzo e dispetto, e Fulgenzio si ritrovasbattuto a terra. Talvolta elementi comici e drammatici volutamente stridono, coesistono per attizzare la tensione: Flamminia vorrebbe rimanere sola con Ridolfo per perorare la causa della sorella ed invece Fabrizio arriva con la spesa per il "desinare", cerca lo zucchero, recidivo torna in scena, ridicolmente abbigliato da cuoco, mescolando un dolce in una terrina, sulle note mozartiane già sfruttate "culinariamente" dalla pubblicità dello sbrinz svizzero.
La figura centrale, per presenza scenica ed approfondimento psicologico da parte dell'autore, è certamente Eugenia, le sue inquietudini amorose ed il suo carattere ribelle: mentre lo zio enumera al conte le virtù femminili di lei (il canto, la conversazione forbita, la leggiadra vivacità), ella disconferma a bruschi monosillabi ed immusonita; fin dall'entrata nel primo atto è sgraziata, con i capelli sciolti, trasandata in vestaglia. Si può dire che Eugenia è una "rustega": la novità, accentuata dalla regia, è che il ruolo appartenga ad una donna. Non è più esclusiva possibilità maschile quella di avere un carattere bizzoso e scontroso: Eugenia rivendica il diritto di manifestare il suo "naturale", come farà il sior Lunardo proprio ne I rusteghi, commedia dell'anno successivo; la protagonista rappresenta il contraltare della malizia femminile di Mirandolina, (La locandiera, 1753). Il regista lascia però campo a più interpretazioni, allude alla tecnica ammaliatrice del personaggio del sopracitato capolavoro goldoniano: lo svenimento (indicato nel testo) di Eugenia alla proposta di matrimonio di Fulgenzio, appena dopo che lei ha accettato per ripicca di sposare il conte, è replicato (con accortezza?) quando ella si scopre sciolta dall'impegno e deve placare l'amato. La sua ribellione, esplicita anche nell'insofferenza verso lo zio, è però destinata a parziale fallimento, anche se sotto forma di volontario controllo delle proprie bizze: se è vero che Eugenia esprime la rivendicazione femminile di poter scegliere lo sposo, di essere amata e non solo "scambiata" con una dote, secondo l'uso dell'epoca, è anche vero che, nel finale, promessa di Fulgenzio, ella accetta le ennesime rimostranze di lui, non si scatena la lite che più volte, nello svolgimento della trama, aveva rinviato il lieto fine. Lo sposo non "le metterà su casa", come aveva sperato, ma i due giovani coabiteranno con i cognati. Goldoni ritraeva la realtà del suo tempo: non era quindi concepibile che una donna la spuntasse con la prepotenza, bisognerà arrivare all'"arringa" della siora Felice nell'ultimo atto de I rusteghi perché la donna affermi, comunque, non l'eguaglianza con l'uomo, ma il proprio diritto ad essere trattata con "civiltà" e considerazione. I rapporti uomo-donna sono chiaramente definiti nel dramma: la donna puntigliosa è "da compatire", appunto perché donna, per natura meno ragionevole dell'uomo. La gelosia di Otello è qui prerogativa femminile: ma comporta il rischio, evidenziato dal conte, che un amore "eccessivo" si spenga bruscamente, e, quindi, la necessità di regolare le relazioni interpersonali con moderazione, retaggio già shakespeariano, ammonimento di frate Lorenzo a Romeo.
La commedia offre un'acuta analisi psicologica del carattere femminile, descritto da Lisetta: "...vorrebbe ella sola essere servita, corteggiata, distinta, e non soffre che l'amante usi una menoma attenzione a qual si sia persona di questo mondo. Lo vorrebbe sempre qui, lo vorrebbe sempre con lei": l'amore, in una visione già moderna, è anche insicurezza, timore di essere respinti. Emerge anche la volubilità umana, cui Goldoni guarda con comprensione: Fulgenzio si precipita a perdifiato a fermare Ridolfo, che egli stesso ha incaricato di "licenziare" Eugenia. La regia introduce anche oggetti chiave, ricorrenti, per sottolineare quest'aspetto: il vaso di margherite su cui canticchia Eugenia, reduce della compagnia del conte, per far ingelosire l'amato, nelle mani di Fulgenzio infuriato incarna i tormenti d'amore che egli vorrebbe scagliare via dalla finestra; calmatosi, egli offre i medesimi fiori come omaggio alla sua bella.
Castri descrive con rigore, anche avvalendosi della ricostruzione scenografica storicamente ineccepibile di Claudia Calvaresi, la borghesia veneziana di metà settecento. Il signor Fabrizio non è solo un eccentrico, ma l'opposto della parsimonia praticata dai rusteghi, dal vecchio sior Cristofolo de "La casa nova"; egli è piuttosto imparentato con il sior Anzoletto di detta commedia e con il sior Leonardo della trilogia della villeggiatura. E' uno spensierato sperperatore -dote della nipote compresa-, ma con sfumature comuni all' Avaro molieriano (si pensi alla sua mira di maritare la nipote senza dote), attenuate dalla sua effettivamente precaria condizione economica. Il personaggio risulta divertente e grottesco, tanto più che si tratta di un vecchio gentiluomo, non di un giovane scavezzacollo: eppure arriva ad impegnare le ultime posate rimaste (salvo quelle necessarie per onorare un invito a pranzo che poi dilaga spaventosamente) per imbandire una buona mensa a chiunque gli capiti a tiro. Ecco la trovata della forchetta di stagno nascosta sotto il proprio tovagliolo, per riservare i resti del servizio d'argenteria agli ospiti; ne è contrappunto sulla locandina, significativamente, un coltello d'argento, allusione anche all'impulso suicida di Fulgenzio nel II° atto. La forchetta di stagno trova poi riscontro nella decadenza della casa, con ingresso ad architrave crepata, poltrone dai velluti ingialliti, polvere ovunque, diligentemente e continuamente sollevata dal piumino del vecchio servitore Succianespole.
Gli arredi ricordano la ricca casa del signor Filippo de Le smanie della villeggiatura (allestito dallo stesso Castri nella stagione '94/95), ormai in irreparabile declino; ed apparentano lo strambo signor Fabrizio, rovinatosi per realizzare una propria galleria d'arte, al protagonista de La famiglia dell'antiquario (1750), la cui coltura dell'arte rischia di mandare sul lastrico la famiglia. La regia sottolinea la vacuità di questa passione: l'unico quadro che appare in scena è Eugenia che si presenta al conte, sulle lodi sperticate dello zio, con una cornice intorno al viso. Cornici vuote sono accatastate in un angolo: esisterà la fantomatica galleria di cui il signor Fabrizio è tanto fiero? O forse le cornici vuote sono premonitrici di prossimi, rovinosi acquisti? Il piede di una statua divide lo stipite della porta con alcuni libri appilati in disordine e in scena campeggia un clavicembalo scordato che suona sotto lo spolverino di Succianespole. Fedeli alla moda dell'epoca i costumi, dalle parrucche, ridondanti e buffamente infiochettate, per sorridere degli eccessi del tempo, agli scarpini con fibbia. Particolarmente azzeccato il costume di Succianespole, una tenuta da maggiordomo rossa di gala, vecchio ricordo di passata floridezza economica, abbinata ad una paio di ciabatte strascicate avanti e indietro.
Particolare risalto ha anche l'illuminazione, affidata a tratti alla luce del giorno che penetra dalle finestre, a tratti ai candelabri in scena, forse sulla scia dell'esperimento di Kubrick in Barry Lindon, in cui il regista rinnegò ogni genere di luce artificiale, estranea al '700. La malinconia che serpeggia nello spettacolo è accentuata da questi effetti luministici, in sintonia con intuizioni registiche di raffinata sottigliezza: i due amanti in lite, sono, specularmente, ciascuno davanti ad una finestra spalancata, immusoniti e a braccia incrociate; alle minacce di Fulgenzio di partire, Eugenia replica di andarsene pure, ma alla battuta "Farò un viaggio; me ne scorderò", lei tace manzonianamente: "[Lucia] non desiderava più altro, se non che [Renzo] si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a puntino, che pensasse a dimenticarla".
Tuoni roboanti di un violento temporale simboleggiano, fin troppo scopertamente, il burrascoso rapporto tra i due innamorati; più sottilmente, i tuoni mettono a tacere l'esasperato Ridolfo "Ma si amano o non si amano?", attenuano l'affermazione di Flamminia "Io sono naturalmente di buon cuore.."(tuono fragoroso) "se posso." Un'altra turbinosa tempesta, prima del lieto fine, spalanca le finestre, dall'esterno irrompono foglie appassite, in un'atmosfera un po' troppo' melò, enfatizzata dalla musica, curata da Franco Visioli, espediente "romantico" per mettere in risalto il tumulto dei sentimenti dei due protagonisti.
Ben affiatato il cast: brillante il signor Fabrizio di Mario Valgoi, con i suoi elogi esageratamente enfatici per chiunque conosca, salvo poi convertirli in insulti quando ciò gli comodi; brusca, ma teneramente innamorata, Elisabetta Valgoi nella parte di Eugenia, davvero "caldo" e impulsivo, come egli stesso si definisce, Fulgenzio nell'interpretazione di Pierluigi Corallo, che, "diventato pacifico", solfeggia come un tenore il suo "Non ne posso più!" invece di gridarlo a pieni polmoni, come al solito. Delicata ed attenta alle sfumature Alvia Reale nella parte di Flamminia.
Nel complesso un bell'allestimento, unica pecca -se poi lo è- la precisa definizione e messa a fuoco di ambienti e personaggi, che smorzano la tensione interpretativa degli spettatori.

di Irene Liconte


Altre opere di quest'autore recensite nelle passate stagioni:

Le smanie per la villeggiatura