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Un inquietante dramma dell’assurdo al Duse (5/4-12/4)

L’ASSURDO: IL RIFIUTO DI UNA VITA TRASCINATA IN ETERNO

 

Lei composta su una sedia, lui affacciato ad una finestra da cui non trapela luce, pile di sedie bianche accatastate, sopra una rozza, bassa cavea; ad intervalli, un misterioso ed inquietante ribollire sottomarino. È la scena desolata su cui si apre Le sedie di Eugene Ionesco, per la regia di Tullio Pericoli, in scena al teatro Duse. La trama (o meglio le fondamenta del dramma): due vecchi, "avanzi del genere umano", soli e circondati dalle acque, come su un moderno monte Ararat, rievocano il passato a mozziconi di ricordi, ambigui, tra menzogna ed appannamento della memoria, realtà e sogno. Per tutto lo svolgimento dello spettacolo viene procrastinato l’annuncio del messaggio che lui, riuniti gli ospiti prescelti, lascerà all’umanità, prima di darsi la morte come antidoto ad un’eterna, vuota vecchiaia.

La pièce, emblematico esempio di teatro dell’assurdo, suggerisce, senza descriverla, una situazione paradossale: i due protagonisti, come due moderni Deucalione e Pirra, sono scampati ad una sorta di inabissamento che ha colpito il mondo, una riedizione del misterioso sprofondamento di Atlantide. Il dramma sta nel fatto che ciò che sprofonda, fuor di metafora, è la vita umana: il figlio che la vecchia, smentita dal marito, dice essere fuggito da loro a sette anni perché erano stati "bugiardi" (ossia perché egli aveva intuito le prime brutture del mondo) ribadisce, genialmente, proprio questa tragedia del vivere quotidiano. La vita si consuma, inutile ed avvilente. La vecchia sospira al pensiero di ciò che sarebbe potuto diventare "il suo ciccino", "maresciallo-capo, impiegato-capo, re-capo", in un’illogica successione scandita dall’affermazione del talento sprecato del marito; lui si avvilisce della propria umile carica di maresciallo d’alloggio, "sorvegliante di un cortile", della propria sofferta nullità. La vecchiaia non è il sereno tramonto della vita, è solo il momento di fare i conti e, soprattutto, è solitudine sconfinata. I tanto attesi ospiti non arrivano, si manifestano sgradevolmente, nella noia dei protagonisti, con scampanellate assordanti; le sedie per gli invitati si moltiplicano, ma in scena non appare nessun nuovo personaggio: allucinazione, o, meglio, illusione a due? Inconsistenza dei rapporti umani? Flebile filo teso verso il pubblico sono ricordi carichi di nostalgia: la rievocazione di una Parigi vivace ed animata, "sprofondata da ormai 400.000 anni": la dimensione dell’assurdo coinvolge, coerentemente, il tempo, oltre allo spazio, minacciato da un incombente gorgoglio d’acqua. E’ un monte Ararat alla rovescia. Così come il percorso cosmico dell’uomo sembra visto a ritroso: dal nostro mondo (Parigi), si è passati attraverso un giardino (il giardino dell’Eden?), ci si ritrova a cospetto di Dio (adombrato nella figura, tanto evocata e ossequiata, dell’Imperatore), per comunicargli qualcosa e poi morire. L’osannato imperatore, inaspettatamente, si è degnato di venire ad ascoltare il messaggio che il vecchio vuole lasciare all’umanità: la spinta dell’essere umano a cercare di lasciare qualcosa di sé, di dare un senso alla propria esistenza, a costo di evocare un Dio lontano ed inaccesibile, anima il vecchio a consegnare ai sopravvissuti il suo messaggio. E qui subentra l’altra grande impasse del teatro dell’assurdo –o, per la precisione, di pressoché tutto il teatro novecentesco-: la difficoltà di comunicazione. Il protagonista si lamenta più volte di non avere la capacità di spiegarsi, tanto che ha affidato ad un oratore l’incarico di proclamare il suo messaggio, la vecchia non può fare a meno di fare l’eco al marito, un bel "qua qua qua" che smorza la tensione.

Ma la delega non è possibile, come forse, pur "inconsapevolmente", sanno o temono anche i due protagonisti, che si consegnano, finalmente paghi, alla morte prima dell’annuncio dell’oratore. Il sipario si chiude sui suoni inarticolati, roboanti fino a stordire, ma inintellegibili, di questi; forse egli pure non ha capito il messaggio del vecchio; o, forse, non sa nemmeno lui esprimerlo: la condanna del vecchio è, in realtà, estesa a tutta l’umanità. Una battuta di lei sembra avallare questa interpretazione: "riuscire a vivere nelle nostre parole": significa colmare l’abisso tra l’essere e l’agire, obiettivo irraggiungibile.

Questa vecchiaia, spinta agli estremi dell’eternità per trovare il senso della vita, viene vissuta con rimpianto da lui; da lei, invece, con una sorta di incoscienza, tra cui trapelano sprazzi di dubbio in coincidenza dei gorgoglii che preannunciano una catastrofe finale che non vuole venire.

In questa desolazione, lui si aggrappa ai ricordi –la donna amata in gioventù, che ritrova al convegno, ma con "il naso più lungo, le orecchie a punta", cambiamento in cui si adombra la metamorfosi quasi diabolica che il passare degli anni comporta-; lei, che il marito chiama Semiramide, abbina alla lussuria del nome della regina asiatica una grottesca concretizzazione di essa nei fatti: le sue reazioni alle avances di un invisibile corteggiatore sono meno che scandalizzate, grottesche le sue smancerie ed i suoi abiti da ragazzina.

Semplice la scena, bianca contro il fondo scuro che avvolge tutto; dalle concavità della cavea si estraggono sedie e sedie e sedie: tutte vuote, non c’è forse simbolo più disperato della solitudine. Il pubblico, identificato con "gli avanzi dell’umanità", viene coinvolto dalla presentazione che la vecchia fa del programma dell’evento preparato dal marito, aggirandosi in platea, in una stridente alternanza tra il ruolo di promotrice della conferenza e venditrice di snack in un cinema.

Entrambi bravi i protagonisti, Adriana Asti e Giorgio Ferrara, astratti nel loro parlare di nulla, eppure palpitanti. Uno spettacolo molto "statico", come era indubbiamente nelle intenzioni dell’autore; ma anche "freddo". Lo spettacolo tiene come a distanza, manca il coinvolgimento profondo del pubblico, non dal punto di vista razionale –lo spettacolo è stato attentamente seguito e lungamente applaudito-, ma emotivo: la rappresentazione trasmette un senso di straniamento da quanto accade sulla scena, realtà vissuta e rappresentata non riescono a fondersi, ci si sente unicamente spettatori. Che il regista abbia voluto prendere le distanze da una dimensione sì affascinante, ma terribilmente angosciante?

 

di Irene Liconte

 

Le citazioni del testo costituiscono delle parafrasi dell’originale.