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Euripide




Medea a Ellis Island al Teatro della Corte (4/3-9/3 1997)

L'ENIGMATICA MEDEA DI RONCONI E BRANCIAROLI


Per il secondo anno consecutivo la tragedia greca è tornata alla ribalta sul palcoscenico dello Stabile di Genova: dopo l'Edipo di Sofocle, (comprensivo di "Edipo re" ed "Edipo a Colono"), proposto da Glauco Mauri nella stagione 1995-1996, nella scorsa stagione è stata messa in scena "Medea" di Euripide, nella versione di Luca Ronconi.
Lo spettacolo, fin dalle prime battute (e ancor prima dell'ingresso in scena di Franco Branciaroli nei panni della protagonista), si presenta come una lettura atipica e stimolante della tragedia di Euripide, lettura sempre in equilibrio tra richiami classici ed influenze moderne, sia registiche che speculative. L'esemplificazione più lampante è costituita proprio dal personaggio di Medea: che la parte dell'eroina venga assegnata ad un uomo può apparire, a tutta prima, come un omaggio al teatro antico, che affidava i ruoli femminili ad uomini, mentre, in realtà, è una scelta che va analizzata più a fondo. Gli altri ruoli femminili della piece (la nutrice, le coreute) vengono infatti interpretati da donne, quindi la "motivazione classica" dell'assegnazione del ruolo si contraddice nella sua eccezionalità in seno all'allestimento: già in questo Medea stride, viene isolata ed evidenziata tra gli altri. E', una volta di più, la diversa, la donna barbara tra le Greche del coro, una straniera male accetta, un'extra-comunitaria, diremmo noi; ecco quindi la prima splendida intuizione registica, la prora della nave Argo che fa da sfondo all'azione, insieme minaccioso foreshadowing della misera fine di Giasone profetizzata dalla protagonista nell'epilogo e concreto ricordo, incombente sulla scena, della passata devozione di Medea verso il marito, ma soprattutto suggestiva visualizzazione della condizione di straniera di Medea. In particolare tale espediente scenico puntualizza efficacemente la non avvenuta integrazione: è come se la nave fosse appena approdata, Medea appena sbarcata, ancora divisa tra il paese d'origine, che non le appartiene più, e quello d'arrivo, a cui non riesce ad appartenere, in un'atmosfera di segregazione da perenne Ellis Island.
In quest'ottica assumono nuovo peso le battute in cui Medea constata con amarezza che è "il suo sapere" a procurarle tanti guai. Non si fa tanto riferimento alle pratiche magiche di Medea quanto al suo generico "sapere": esso è semplicemente il bagaglio culturale dell'immigrato, che suscita diffidenza. Nel caso specifico comunque, c'è una connotazione misteriosa (esotica, in quanto relativa ad una straniera) della conoscenza di Medea in quanto maga, conoscenza vista, tra timore e scetticismo, come misterioso strumento per ottenere uno scopo, un po' come la danza della pioggia di uno stregone indiano di fronte agli assetati. Così è da leggersi la scena in cui Medea offre il suo aiuto ad Egeo, desideroso di prole (III episodio): i gesti plateali ed innaturali della protagonista, preda della trance profetica, sono beffardo illusionismo da baraccone, ironico contrappunto al "terribile sapere" che attira a Medea tanto odio, e culminano in un'ironica caricatura di "padre in fieri" nella figura di Egeo, seduto su una sedia getatoria, con il ventre gonfio come quello di una donna incinta.
Il tratto più inquietante della protagonista è la sua inafferrabilità. Il regista sottolinea oltre misura l'ambiguità necessariamente insita in un personaggio tanto conflittuale, in modo da lasciare sempre in dubbio gli spettatori circa le motivazioni della protagonista: ama davvero i suoi figli? Soffre o no per il suo crimine? Medea è enigmatica come la sfinge; la gamma vocale esibita da Branciaroli accentua la polivalenza del personaggio: si passa dai toni in falsetto ai toni rochi, cupi, dai "ruggiti" ad intonazioni piene. L'identità della protagonista fluttua da scena a scena: non sdegnosa con Creonte, ma piagnucolosa, lo supplica di concederle ancora un giorno, con un'enfasi tra il lamentoso ed il mellifluo; quando il re si è allontanato, diviene minacciosa, lo irride. E' subdola con Egeo, sorniona ed ironica senza parere, lo lusinga con la promessa di figli. Con Giasone ha parole di biasimo, da vecchia coppia logora, non si vede l'ardore dell'odio che ha sostituito il fuoco della passione, solo rancore, guidato dall'astuzia, con lucidità: la vendetta appare così più terribile, perchè elaborata a mente fredda. Quando finge di riconciliarsi con il marito, si mimetizza tra le donne del coro, sbucciando patate, dove il sinistro riverbero del coltello è tragica anticipazione del delitto. Solo nel celebre monologo in cui si tortura se uccidere i figli, Medea appare scossa, tormentata, ma in generale è controllata, pare sempre "recitare" e non "vivere" le sue battute, se alza la voce lo fa in maniera gracchiante, da satira sulla donna.
Il personaggio di Egeo viene rappresentato con tratti grotteschi, come un vecchio cadente, ridicolo nel proprio desiderio di avere figli a tutti i costi in così tarda età, in evidente contrasto drammatico con la sofferenza che tocca a Medea (e Giasone, anche) proprio per il fatto di aver messo al mondo dei figli. Si può cogliere inoltre, da parte della regia, una critica nei confronti delle gravidanze in tarda età, così frequenti nella nostra società, che generano tanti genitori-nonni. La condizione di straniero "di passaggio", contrapposta a quella di immigrata di Medea, è sottolineata dal fatto che Egeo non poggia concretamente i piedi sul suolo straniero, in equilibrio su zeppe simili a trampoli. Creonte, poi, è un ricco esponente della borghesia, il cui potere vacillante è metaforicamente reso dalla sedia, su cui prende posto, malferma in cima ai bauli accatastati dai suoi sgherri per "sfrattare" Medea; la sua posizione è effettivamente sopraelevata, ma è anche un ritirarsi, un fuggire da Medea che lo assedia di suppliche e minacce dal basso. Difficile, invece, caratterizzare Giasone più di quanto abbia fatto l'autore: egli è il classico seduttore opportunista, un arrampicatore sociale senza scrupoli.
Un altro aspetto dell'allestimento è la contrapposizione tra il singolo e le masse. Le "masse" presenti in scena sono due: le donne del coro e i sudditi di Creonte, tutti in impeccabile completo scuro, ciecamente obbedienti al re. Sono proiettate immagini di folle frenetiche in città svettanti di grattacieli, grigie e depersonalizzanti. I personaggi, nella migliore tradizione del teatro moderno, non comunicano, monologano semplicemente, con una tecnica recitativa volutamente bassa, che abbassa il tono della tragedia: toni cantilenanti, goffa enfasi, gesti plateali e grotteschi; è l'alienazione operata dalla nostra società. I protagonisti appaiono come svuotati di passioni reali, privi di consistenza, piegati ai dettami di una società che priva della propria identità: ecco la crisi dell'uomo moderno, come Euripide denunciava quella dell'uomo del V secolo. La celebre scena del dilemma di Medea, se uccidere o no i figli, viene vista secondo questa particolare chiave di lettura: Medea, la diversa, esita se cedere i suoi figli ad una società che, inevitabilmente, li sottoporrà alla propria omologazione. Significativo, a questo proposito, è l'accostamento di immagini di folle frettolose, in strade gremite, ai bambini che tornano dalla reggia vestiti come i sudditi di Creonte; a tale componente si somma evidentemente la riluttanza della protagonista a consegnare i propri figli a stranieri a lei ostili, che finiranno per alienarglieli. Il dubbio materno è concretizzato dal vagare scomposto di Medea, tra sedie e sedili, verso i figli che le sfuggono; l'atteggiamento di Medea è di amaro rimprovero, più che di struggimento:-Creature mie, adesso avete una città, una casa nuova- quasi brusisce rabbiosa Medea (V episodio). Un elemento estremamente interessante dell'allestimento è l'impostazione scelta per il coro, punto nevralgico delle messe in scena di tragedie greche ai giorni nostri. Se infatti è difficile rendere al pubblico odierno la valenza sacrale del coro, se non in tragedie incentrate sul tema religioso (si pensi a "Le Baccanti"), è possibile invece conservarne il ruolo di portavoce di una comunità. Le versioni classiche della "Medea" vedono rappresentate nel coro le rivendicazioni femminili contro la supremazia dell'uomo; ecco quindi che il coro è composto di casalinghe, le donne cioè che, nel contesto moderno, presentano una qualche affinità con la donna greca "sacrificata" in casa. Inoltre, il coro costituisce così un elemento di contrasto con la protagonista, la cui femminilità (ed, unitamente, la consapevolezza di propri diritti di donna, primo tra tutti quello coniugale) è visualizzata dalla sottoveste nera che indossa.
Ronconi arricchisce però la lettura del testo di altre implicazioni sociali. Il regista concentra la propria la propria attenzione su una caratteristica specifica dei cori euripidei, ovvero l'inattività, la relegazione a passivi spettatori del dramma. Per tutto lo svolgimento della tragedia, il coro non partecipa direttamente al dramma dei protagonisti: durante gli episodi, esse prendono posto su sedili da cinema, assembrati davanti ai protagonisti, per seguire meglio le "puntate" del dramma di Medea; nello stasimo successivo allo scontro Medea-Giasone, le donne del coro commentano i fatti sulle note di canzoni di Battisti, volteggiando dietro scope e stracci per pulire i pavimenti, come farebbero davanti ad una soap; nel quarto stasimo, la corifea, dedita alle pulizie di casa, racconta cantando l'atroce fine di Creonte e della figlia; quando Medea rivela al coro i propri propositi omicidi nei confronti dei figli, le donne, invece di incalzarla perché desista, le rivolgono frasi distratte, cantilenanti, come non credendo alla terribilità della situazione, come se si trovassero di fronte ad una finzione, per poi ritirarsi di nuovo nella platea loro destinata per seguire gli sviluppi del serial (o gli aggiornamenti del notiziario). Insomma, l'atteggiamento del coro non è di passiva ma sofferta trepidazione, bensì di blanda partecipazione emotiva, distaccata curiosità, predisposizione ad ascoltare in silenzio. E' questo l'aspetto più shockante dell'allestimento, perchè emerge il ritratto di una società assuefatta a veder svolgersi sotto i propri occhi i drammi più disparati, dalle tragedie di massa alle disgrazie dei singoli, di cui sono infarciti purtroppo non solo i telegiornali (e spesso con toni sensazionalistici che nulla hanno a che vedere con la sobria esposizione di una notizia), ma anche talk-shows e pretesi programmi di attualità. Spiccano anche figure isolate a sottolineare tale atteggiamento: il messo riferisce la raccapricciante morte di Glauce e Creonte tra orrore e stupore, con punte di sconvolgente leggerezza: intercala alle frasi sorrisi incoscienti, tutto preso dall'eccezionalità del racconto; commenta i momenti più orribili con un compiaciuto "Che spettacolo!".
Il coro incarna quindi un pubblico abituato a lasciar scivolare via la terribilità degli avvenimenti con la sigla del TG; in un certo senso ci troviamo di fronte ad un tacito ipòrchema (cioé un'illusorio ottimismo sugli esiti del dramma), con un occhio alla tecnica teatrale di Sofocle, in quanto il coro non si rende conto della gravità della situazione e soprattutto della realtà di quanto sta accadendo. L'atto finale della tragedia, il massacro dei figli, viene così consumato in un'atmosfera allucinante: su una pedana (palcoscenico sul palcoscenico!), un telo bianco da proiezione simula la porta della casa di Medea; su di esso si muove l'ombra cupa e minacciosa di Medea. Le donne del coro, preso posto sui sedili del cinema, si addormentano tutte, dalle ultime file alla prima, cioè dalle meno alle più interessate allo "spettacolo", mentre sullo schermo Medea si accinge a trucidare i bambini; "Amiche...", chiama il coro, annuncia l'imminenza della strage, ma esse dormono, sorde alle grida dei piccoli: un sonno inquieto, popolato da incubi (V stasimo). E' un sonno agitato perchè colpevole, culmine del mancato intervento del coro durante l'intera tragedia? O è una suggestiva metafora della nostra tendenza a chiudere gli occhi di fronte a ciò che non vogliamo vedere, a relegarlo nel sogno, al confine tra realtà e fantasia? Insomma, di tutto si può tacciare questa messinscena (impostazione straniata della recitazione, degradazione della nobiltà della tragedia classica, eccessiva cerebralità di alcuni simboli e richiami, sfumature dirette ad un pubblico sciente della mitologia), ma non di non aver restituito il complesso ruolo del coro.
-Armati, mio cuore.[..] Per questo breve giorno almeno dimentica le tue creature e poi piangi senza fine.- Così Medea chiude il sofferto monologo del quinto episodio, evidenziando che è ben consapevole, ancor prima di compierlo, che non sfuggirà mai alle terribili conseguenze del suo crimine. In questo senso, la fuga ad Atene costituisce un'illusione di impunità, perchè Medea non potrà mai sfuggire a se stessa. L'impossibilità della fuga, tematica costante della letteratura del '900, è visualizzata nella vacuità del rifugio, nello stridente contrasto tra la celebrazione idialliaca di Atene del coro (III stasimo) e la realtà che appare agli occhi degli spettatori: Egeo ed i suoi sono un gruppo grottesco, -Sempre cammina con grazia la gente di Atene...- proclamano le donne, mentre Egeo incespica sulle sue ingombranti calzature, -...[Gli Ateniesi] intrisi di sapienza famosa al mondo...- e in scena un vecchio macilento vaga a consultare oracoli astrusi.
La messinscena è ricca di suggestioni scenografiche; la nave incagliata nel palcoscenico è simbolo dell'impossibilità di sottrarsi alla condizione di dolore cui è condannato l'uomo, in una tragedia fitta di metafore nautiche, per contrapporre lo spostamento fisico della protagonista e il suo permanere nell'inganno e nel delitto. L'incapacità di Medea di uscire dalla spirale di omicidi è efficacemente resa dalla proiezione di immagini che fanno da contrappunto alla rievocazione delle traversie e dei crimini della sua padrona, da parte della nutrice, in apertura di dramma: viscere frugate dal bisturi, sia visualizzazione degli assassini commessi sia fosco presagio dei futuri; contemporaneamente, in primo piano campeggiano immagini di terre lontane, spazi aperti e liberi, insieme ricordo e rimpianto della patria perduta ed aspirazione all'evasione, che, per contrasto, rendono ancor più soffocante ed opprimente il cupo scantinato in cui si svolge l'azione. La casa di Medea è uno squallido seminterrato con finestre alte, che non lasciano trapelare la luce, ancora ingombro dei bauli degli esuli, dove il letto nuziale offeso da Giasone è una misera branda con tavole di legno e materasso arrotolato, richiamo più alla dura esistenza dell'immigrato che al tradimento del legame coniugale. Il sonno tormentato del coro e le battute da sonnambule nell'ultimo stasimo ricordano le Eumenidi di Eschilo che, addormentate, bofonchiano le proprie minacce contro Oreste nell'omonima tragedia. Particolarmente accorato e toccante, in coda al quarto episodio, il canto della nutrice, l'unico personaggio che trepidi per la sorte di Medea e dei suoi figli.
Il finale è una summa dei pregi e dei difetti dell'allestimento: Medea non inganna più Giasone, gli sibila in faccia il suo odio; sibila, non grida, è crudele e sprezzante, ma pacata, mostra i cadaveri dei figli senza nemmeno un sussulto, la famosa battuta -Sì, soffro anch'io, ma mi consola sapere che tu soffri- perde spessore e convinzione, mentre ironicamente la protagonista indossa un abito da sposa: macabramente, Medea è di nuovo l'unica moglie di Giasone. A ribadire la sua ambiguità, Medea porta una maschera, tributo alla tradizione della tragedia antica; il carro alato è sostituito da un seggio che poggia su una vasca da bagno in sezione, rossa del sangue dei due corpicini, Medea non si innalza in cielo, ma scende a terra, si allontana con i bambini per mano.
Nel complesso, insomma, un allestimento molto interessante e stimolante, caratterizzato dalla straordinaria prova di Franco Branciaroli; ma lo spettacolo è reso a tratti pesante dallo sforzo elucubrativo della regia, che porta lo spettatore ad indagare su ogni dettaglio, su ogni deflessione dalle letture tradizionali; questa cervelloticità incide poi purtroppo sull'intensità drammatica della piece, che risulta irrimediabilmente fredda. Ciò è dovuto soprattutto al fatto che è scomparsa l'eroina passionale, combattuta da opposti sentimenti. Euripide aveva infatti privato gli eroi della loro grandezza, ma aveva riservato grandi passioni e grandi gesta, nel bene e nel male, ai personaggi femminili; nella versione di Ronconi invece la meschinità è il marchio generale dell'agire umano e il regista rinuncia, consapevolmente, a tutto il pathos che una figura come Medea può sprigionare. Esemplificativo, in questo senso, è lo scontro Medea-Giasone (II episodio), tratteggiato con toni grotteschi: le invettive della protagonista contro il marito sono simili a grida strozzate e Medea, mentre accusa Giasone di averla abbandonata, si stringe a lui piagnucolando, in un clima da becera lite coniugale; così (I episodio) non sono dignitose le preghiere a Creonte da parte di Medea, costretta a tacitare l'orgoglio per disperazione: Medea avvinghia le ginocchia del re che, non riuscendo a scrollarsela di dosso, se la trascina dietro, aggrappata ad un piede, mentre lui, a sua volta, si aggrappa alle guardie.
Certo, si rinuncia a molto: ma se si accetta la sfida di questa "Medea" moderna che dimostra, al di là dell'indiscutibile attualità che deriva ai classici dalla loro universalità, come l'allestimento di una tragedia antica, fedelissimo alla lettera del testo, possa presentarsi attuale, in forma e contenuti, come un dramma del nostro secolo (penso in particolare alle torbide, morbose atmosfere, agli scoppi di violenti conflitti del teatro Tennessee Williams), lo spettacolo lascia un segno profondo. Del resto, Euripide, con le proprie rivoluzionarie modifiche apportate al genere, già consolidato dai predecessori, della tragedia, non si alienava forse spesso le platee?

di Irene Liconte