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In scena la Duse fino al 25 novembre la rilettura di Sanguineti del canovaccio gozziano

DALLA POLEMICA DI GOZZI E GOLDONI ALLA SATIRA SUL NOSTRO PANORAMA TELEVISIVO

 

Tra cumuli di spazzatura un Prologo in panni settecenteschi polemizza contro il teatro "Nuovo", le trovate "gustose" che il pubblico ormai predilige, rivendica la superiorità dei soggetti di fantasia. Si ritira poi accigliato, senza cercare di accattivarsi il favore della platea. È l’incipit de L’amore delle tre melarance, riadattato da Edoardo Sanguineti dal canovaccio dell’omonima favola teatrale di Carlo Gozzi e rappresentato al teatro Duse fino al 25 novembre. È quanto la regia di Benno Besson concede alla contrapposizione del teatro "tradizionale" del conte Gozzi e la rivoluzione teatrale ispirato al "Mondo" del suo rivale, l’impresario" Carlo Goldoni.

La trama è fiabesca: il principe Tartaglia, ammalato di malinconia, viene sottoposto ad ogni tipo di cura dal padre, ma senza risultati. Complotta contro di lui, per succedere al trono allo zio, la cugina Clarice, appoggiata da Leandro. Ella non può contare su una repentina morte naturale di Tartaglia: "Ho visto malinconici spegnersi centenari/ se proprio, disperati, non fanno i volontari." Viene ingaggiato Truffaldino, famoso a corte per le sue trovate esilaranti, per guarire il principe; quando tutto sembra risolto, interviene a sorpresa la fata Morgana e lancia una maledizione su Tartaglia, istillandogli un inestinguibile passione per le tre melarance, alla cui ricerca parte affrontando una serie di avventure fatate.

La relegazione dei soggetti fantastici di Gozzi nella massa di rifiuti, da cui emergono i personaggi dopo l’uscita del Prologo, non riflette effettivamente una sconfitta patita dal teatro anti-goldoniano: la partenza del grande drammaturgo da Venezia per Parigi alla fine della sua carriera fu, almeno in parte, dovuta agli attacchi tutt’altro che blandi del conte drammaturgo e dell’abate Chiari; inoltre, le commedie di Gozzi riscossero, in molti casi, successi a discapito dei lavori goldoniani. Il riferimento di Besson pare quindi più ampio, accenna alla riscoperta di un teatro di pura fantasia e divertimento, soppiantato, specie in età moderna, da filoni "impegnati". Il regista non si limita però a rispolverare vecchi soggetti e personaggi, ma li reinventa scatenando sul palco l’accolita di personaggi da Commedia dell’Arte in uno spettacolo quasi aristofanesco. Il richiamo alla tradizione della Commedia è espresso nella ripresa di personaggi caratteristici di questa -da Tartaglia a Brighella, da Truffaldino a Pantalone- e, ancor di più, dalla tipizzazione quasi espressionista che trasforma comunque ogni personaggio in una maschera: il Re di Coppe, padre dell’ipocondriaco Tartaglia, è un vecchio che sospira ciclicamente sulla sorte del figlio con un fischio da foca; Tartaglia stesso -che, in aggiunta al copione originale ed "in obtemperanza" al suo stesso nome (il legame nomen/omen, caratteristico della tragedia antica e ridicolizzato da Aristofane, è rievocato proprio dal Re di Coppe)- è caratterizzato da una lamentosa nenia sui suoi mali in un Napoletano piagnucoloso di sicuro impatto; la perfida nipote del re, Clarice, mal dissimula il proprio complotto; il mago Celio si distingue per il suo magico percuotere il suolo, facendo emergere ora un diavolo, ora magici strumenti per aiutare Tartaglia e Truffaldino a superare ostacoli stregati, salvo la possibilità di "bussare" inutilmente alle porte degli Inferi - come quando interpella le "atre forze" per contrastare il cappio fatato che minaccia i due eroi improvvisati.- Contribuisce all’effetto anche l’invenzione di maschere che coprono interamente il viso, grottesche, realizzate in gomma aderente al viso, con appositi fori per gli occhi e la bocca e dotate, inoltre, di opportuni ritocchi (il naso adunco di Pantalone, le orecchie a sventola di Truffaldino). L’elemento che più ci riporta alla commedia aristofanesca è la componente sessuale, lo sbandieramento fallico: il diavolo che insegue Tartaglia e Truffaldino pungolandoli con un mantice (richiamo in chiave farsesca della folle fuga di Io, inseguita dal tafano di Era, nel Prometeo di Eschilo?) è iperdotato (di un palloncino rosso ed oblungo che si impenna al muoversi del mantice); la fornaia della maga Creonta ha due "poppe" eccessive e quindi ridicole con cui ripulire il forno; il povero neo-cerbero a guardia delle melarance ha addirittura un orgasmo di fronte al tozzo di pane che gli viene lanciato, dopo anni di digiuno. Anche la delicata nudità della Principessa della Melarancia, Ninetta, ha carattere funzionale all'azione: per coprirla ad occhi indiscreti Tartaglia corre a procurarsi una veste e la lascia sola: Smeraldina può così sostituirsi alla promessa sposa. La tematica sessuale, presente nel testo, viene sviluppata nella rilettura di Sanguineti: si allude alla vita sessuale del Re, si enumerano le infinite perversioni che possono aver causato il male del figlio, in un elenco incalzante. Unici episodi stridenti sono la scena in cui la fata Morgana, mutatasi in vecchia popolana, cade a gambe all'aria, suscitando l'ilarità di Tartaglia, e quella in cui, a parte, Brighella si fa massaggiare il membro da Smeraldina: in quest’ultima non c'è la giocosità che animava gli altri momenti "osceni", né la scena innesca conseguenze nella commedia. La gratuità dell'esibizione sessuale può trovare spiegazione in una particolare chiave di lettura del personaggio di Smeraldina, che meglio emerge nel finale. Quando infatti viene smascherata come falsa sposa di Tartaglia, si spoglia completamente -nella finzione: è rivestita di una specie di tuta attillata che simula le nudità- e minaccia i presenti: assume cioè una connotazione quasi ferina, bestiale. Del resto non ha pari dignità con gli altri, nemmeno con i servi: nelle parole della principessa-colomba, venuta per impedire le nozze, è descritta come "la mora, brutto muso "; e qui si inserisce l'episodio con Brighella. Smeraldina è, in tono minore e en passant, il corrispettivo di Calibano de La Tempesta nella celebre lettura di Strehler, cioè lo schiavo, l'essere inferiore in quanto appartenente ad un'altra razza.

Per quanto riguarda l'episodio di Morgana, esso è presente nell'originale, dove Gozzi intendeva stigmatizzare i personaggi popolari di Goldoni (da Il Campiello a Le baruffe chiozzotte); nello spettacolo del Teatro di Genova lo scoppio di risa di Tartaglia di fronte all’orribile sesso della vecchia è, probabilmente, retaggio delle grottesche immagini che spesso ci fanno ridere –ma è un brutto riso, e temporaneo- in TV.

Sanguineti enuclea tematiche d’attualità: l’elenco che il re fa di tutte le terapie a cui è ricorso per il figlio spazia oltre la psicanalisi di Freud e Jung; il male del principe, quando Truffaldino gli fruga in gola, si rivela una stratificazione di trasmissioni televisive, dal grande Fratello a Blob: non è necessariamente la condanna in toto e a priori del panorama televisivo, ma il risultato di stimoli troppo simili a bombardamenti di notizie ed immagini. È interessante notare che, nell'originale, il vomito del principe era costituito dai versi martelliani delle tragedie di Goldoni e dell'abate Chiari, contro cui la favola-commedia era stata composta da Gozzi, che, nella sua esposizione della trama, fa numerosi richiami ai suoi antagonisti teatrali e, in particolare, adombra nelle due figure del mago Celio e di Morgana, i cui interventi sono poco meno che fallimentari, rispettivamente Goldoni e Chiari: due ciarlatani dell'arte teatrale, insomma. E anche nella scena in cui il principe si congeda dal padre e tronca, esasperato, le lamentele di lui con fosche visioni di genitori barbaramente trucidati dai figli, le minacce, presenti nell’originali, sono però rincarate nella nuova versione e connotate secondo gli orribili episodi di cronaca che troppo spesso hanno infittito le nostre pagine di cronaca nera. Un po' "facile", da parte di un poeta del calibro di Sanguineti, la battuta su Berlusconi come fonte di riso che, incredibilmente, non guarisce Tartaglia: considerato il livello della nostra classe politica, il riferimento sarebbe stato più elegante se generico –e troppo facile la concessone alla propria fazione politica.-

Vivaci e colorati i costumi, atti anche a connotare i personaggi: la camicia da notte con mutandoni di Tartaglia arricchisce la caricatura del principe-figlio viziato e malaticcio; la veste del Re di Coppe, solare, è dotata di un prolungamento che raffigura la parte rovesciata della carta. Ma rappresenta anche il rovescio del re benevolo, il tiranno a cui il re stesso allude nel finale. Fantasioso il costume di Truffaldino –più noto come Arlecchino-: non il vestito a pezze classico, ma un abito liso color carta da pane -che ben si adatta allo "scudiero" affamato di Tartaglia, che pensa solo alle sue melarance, novello Sancho Panza!- con fili colorati intessuti sopra: un Arlecchino in costruzione o in "sfilacciamento"? E i fili colorati rendono poi bene l'idea dell'ingegno versatile del personaggio. Evocativo anche il costume della fata Morgana, i capelli verdi raccolti in due "fusi" da estrosa pettinatura settecentesca e l'abito nero trapunto di stelle, richiamo alla sua condizione di maga. Con tanto colore, le scene della festa del I atto, organizzata per distrarre e far ridere Tartaglia, dalla sfilata di maschere carnevalizie alla tradizionale battaglia tra Quaresima e Carnevale, possono tranquillamente essere anche solo raccontate dalla platea regale e da Truffaldino in groppa ad una scopa con la testa di cavallo. Qui cade la quarta parete, cui aveva fatto cenno, tra i lamenti Tartaglia: il pubblico viene identificato con la plebaglia che assiste ai giochi. Importante l’oggettistica, sempre legata all’animazione che ne scaturisce: non solo nel caso di oggetti animati, come il portone e il cappio del palazzo di Creonta, ma anche per oggetti "più tradizionali": le scarpe di ferro che indossa Tartaglia per la sua spedizione non avrebbero lo stesso "peso" se non contrastassero comicamente con il soffio del mantice diabolico che lo solleva come un fuscello. La scenografia è tanto fantasiosa quanto efficace: pannelli dipinti si succedono per ritrarre ora la sala del trono, ora il palazzo dove sono custodite le tre melarance, ora la cucina del castello, cadendo in avanti come pagine di un pesante manoscritto. Lo sfondo con scorci di pavimenti alla veneziana, più che un rimando geografico, sono una suggestiva sottolineatura del surreale del racconto: il Re appartiene ad un mazzo di carte, la storia potrebbe svolgersi su un pavimento cosparso di carte, o intarsiato di mosaici: del resto, la fata Morgana non si vendica del re perché la sua carta le ha causato perdite al gioco? Insomma, uno spettacolo che è un calderone di idee e generi: non per niente il diavolo evocato da Celio si chiama Farfarello e "del cul faccia trombetta". Né è casuale che la principessa-colomba si definisca "dal mio voler portata": il favoloso e il comico della Commedia (l’ennesima, quella dantesca) si inseriscono a meraviglia.