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Shakespeare


La prima al Teatro della Tosse di Otello della compagnia Teatro Out Off (27/11-2/12)

OTELLO MARITO VIOLENTO EQUILIBRA UNO IAGO TORMENTATO



Un fato bizzoso che gioca nella vita degli uomini sull'angusto piano del tavolo da biliardo al centro della scena, su cui si avvicendano i personaggi e si tendono le stecche a capricciose traiettorie. Il sipario si è aperto così sulla prima di Otello, allestito al Teatro della Tosse dalla compagnia Teatro Out Off, per la regia di Antonio Latella. E' una delle più celebri tragedie di Shakespeare, incentrata sui luttuosi sviluppi dell'intrigo che l'alfiere Iago tesse ai danni di Otello, "il Moro", generale al servizio della Repubblica di S. Marco. Questi, roso dal sospetto, abilmente insinuato da Iago, del tradimento della moglie Desdemona, la scopre innocente troppo tardi.
La tragedia è giocata sulla dialettica tra la smodata gelosia di Otello e l'astuto raziocinare di Iago, a tutti gli effetti comprimario del dramma. Il regista estrapola però un nucleo comune ai due personaggi: "l'anima nera" dell'uomo, la naturale tendenza umana al male ed alla violenza, che si esprime, nei due personaggi, in comportamenti complementari. La gelosia di Otello assume connotazioni di brutalità, fino all'aggressione fisica, mentre Iago si contraddistingue per la sua fredda determinazione nell'ordire il male; la regia, comunque, rimarca che anch'egli non è esente da sotterranee pulsioni irrazionali. La battuta di Iago "..la mia natura rifugge dall'assassinio premeditato. Al momento buono mi manca la cattiveria necessaria", che nell'originale è rivolta ad Otello e non è quindi necessariamente rivelatrice dell'intimo del personaggio, nell'adattamento acquista nuovo valore, in quanto proferita in un "a solo"; verrà poi ribadita nei fatti nel finale, dalla crudele esitazione e dalla compostezza di Iago nel trafiggere la moglie Emilia. Lo Iago di questa versione non ostenta, però, la calma incoercibile ed il dominio di sé che caratterizzano classicamente il personaggio: egli depreca con veemenza la mancata promozione, disprezza aspramente la condizione servile, se non dedita al proprio interesse (in fondo, il fedele Sganarello non perde il salario arretrato, quando Don Giovanni precipita all'inferno?). Sempre negli "a solo" sfiora, talvolta, la perdita dell'autocontrollo; se ne riprende poi prontamente. Nel momento culminante della sua tresca, sulle note furtive del Notorius hitchcockiano, con il cappello da giullare calzato in testa, inventa una danza sfrenata in cui ripete ossessivamente "Sarà la nostra fortuna o la nostra rovina!". C'è una doppia assimilazione alla figura dei fools shakespeariani: a livello linguistico, l'elusività delle parole dei buffoni di corte è tratto essenziale anche di Iago; inoltre, egli partecipa dell'esternamento della pazzia "giullaresca". Nei fools, essa si manifestava nel rivolgersi senza troppe cerimonie anche al sovrano, in Iago è invece l'occasione per evadere dalla simulazione: il colpo di spada a Cassio può vibrarlo proprio lui. La regia, infatti, risucchia in Iago il Roderigo shakespeariano: l'operazione scenica è interessante, in quanto evidenzia che Roderigo non è che la "longa manus" di Iago, non personaggio autonomo, ma strumento delle sue macchinazioni; in più, essa permette di accentuare certe sfumature appena accennate dal drammaturgo. Nel testo originale Iago si dice innamorato di Desdemona "per restituire le corna al Moro", quindi per vendetta; nello spettacolo, invece, una battuta in cui Roderigo esprimeva il suo amore per Desdemona è in bocca a uno Iago visibilmente turbato. Le possibilità del personaggio aumentano: la lettera da Venezia che esautora Otello è recuperata dall'infido alfiere da una bottiglia con messaggio che ristagna nella pozza in mezzo alla tavola scenica. Lo spettatore dubita: anche questa notizia sarà una sua malvagia invenzione? Il personaggio rimane comunque difficile da decifrare, mostruoso nelle proprie azioni perché immotivate: Iago è l'impersonificazione del male per il male, non c'è possibilità di spiegazione: "Non chiedetemi nulla. Quello che sapete, sapete. E da questo momento non dirò più una parola" è la battuta con cui egli conclude lo spettacolo.
Se Iago è il deus ex machina della tragedia - non a caso egli ordisce il suo inganno seduto su una poltrona senatoriale, ribaltando la condizione servile che biasimava nelle battute iniziali-, Otello è la sua antitesi: Iago fa compiere il male, Otello lo compie materialmente. Il Moro -cui la regia nega i connotati tradizioneli del personaggio, la pelle nera e l'età avanzata- è sanguigno, percuote più volte la moglie, amplificando l'episodio dell'unico schiaffo immaginato da Shakespeare, aggredisce lo stesso "onesto Iago". Egli è "la bestia", come viene insultato da Emilia e, nel finale, anche da se stesso. Il personaggio incarna l'istintività dell'uomo in quanto animale. E' vano perciò il suo "travestimento" per le nozze, quando coglie panciotto, guanti, tight e tuba dalle stecche tese verso di lui, mentre si muove al ritmo afroamericano del jazz. Esordisce, infatti, con una battuta desunta dall'atto IV, in cui racconta del fazzoletto magico donatogli dalla madre: nel momento stesso in cui l'uomo si incivilisce, strappato dalla sua rozza vita militare dalla chimera dell'amore, evoca amuleti, magie, ataviche tradizioni tribali. Il leone d'oro che campeggia in mezzo alla pedana sopraelevata non è tanto simbolo della Serenissima Repubblica -lo sfruttamento e poi l'accantonamento politico di Otello non sono temi sviluppati nell'allestimento-, quanto evocazione della ferinità del protagonista. Masolino D'Amico osservava acutamente il palese disinteresse dell'autore per la verosimiglianza dei tempi drammatici in questa tragedia: Desdemona, partita una settimana dopo Otello da Venezia, giunge a Cipro prima di lui. La tesi di D'Amico è che i tempi devono essere serrati per non permettere ad Otello di pensare: Otello non è un vero geloso, solo la precipitazione dei fatti, la mancanza di tempo per riflettere, può indurlo a cadere nella rete di Iago. Qualcosa di analogo si può dire per la lettura della tragedia da parte di Latella: Otello non pensa, in quanto travolto dalla propria istintività. L'immagine finale, con i due amanti stretti in un abbraccio di morte, suggestivo ricordo della scena culminante dell'ultimo atto di Romeo e Giulietta, ci mostra un Otello nudo, cioè nel suo stato ferino, primordiale. La scena stessa dell'amplesso, che sostituisce lo strangolamento ed è visualizzazione scenica delle battute iniziali del dramma "un vecchio caprone nero sta coprendo la vostra pecorella" -l'allarme per la fuga di Desdemona dalla casa paterna-, è il risultato di questa chiave interpretativa. In tal senso Otello è il "Moro", con una valenza selvaggia, bestiale. Il personaggio appartiene alla categoria, non certo circoscritta al '500-'600, dei mariti violenti, che si sfogano picchiando le mogli: anche se qui non ci si ubriaca di alcool, ma di gelosia, il risultato non cambia. E le nozze di Desdemona non sono davvero avventate? Ella, al contrario degli altri personaggi fin dall'inizio sempre sulla scena, è seduta su una poltrona, di cui il pubblico vede il solo schienale; entra in scena in abito da sposa, il volto velato: un matrimonio contratto alla cieca, una giovane affascinata dal principe azzurro che ha affrontato tante disavventure? Un drammatico presagio del velo disteso su di lei sul letto di morte? O una specie di shador islamico, che trova il suo corrispettivo nel fazzoletto-talismano che ella porta poi al seno? Prima di consumare l'assassinio Otello prega prostrandosi a terra come i musulmani; un'attualizzazione della tragedia può far assumere a Desdemona l'identità di una donna afghana, soggetta ad ogni vessazione. Così pure ella incarna la dolente remissività di tante donne che subiscono passivamente i maltrattamenti dei mariti, giustificandoli perché angustiati dai "problemi sul lavoro" (per Otello, affari di stato).
La regia ha inserito molti particolari interessanti: le invettive del padre di Desdemona e dei senatori sono rimpallate tra i quattro personaggi in scena all'inizio, compreso l'attore che interpreta Otello: è un'anticipazione di Otello rovina di se stesso? Durante la perorazione, da parte del Moro, della propria causa davanti al senato veneziano, lo sciabordio dell'acqua dei canali ricorda il Ponte dei Sospiri, che dovrà attraversare se giudicato colpevole. Il copricapo da giullare, se indossato da Otello, ribadisce la sua condizione di burattino nelle mani dei Veneziani, di reietto (i giullari erano oggetto di dure persecuzioni); ma evoca anche Il berretto a sonagli pirandelliano, dove Ciampa attua quello che Otello, straziato dalla gelosia, invoca per sé: il non sapere del tradimento e non soffrirne. Lo sfondo rosso su cui si staglia la poltrona dove i due sposi si scambiano tenerezze diventa, nel secondo tempo, il giaciglio macchiato di sangue innocente di Desdemona, circondato da candelabri da veglia funebre. Alcune suggestioni ricordano particolari di altri testi shakespeariani: le noci che Otello fa crocchiare nelle mani, amplificate durante l'intervallo per mantenere viva la tensione, rievocano il guscio di noce che, a detta di Amleto, potrebbe costituire per lui un regno vastissimo, se riuscisse a vincere l'angoscia esistenziale.
Gli approdi delle navi a Cipro sono simulati con modellini sospinti dalle stecche da biliardo in una cavità piena d'acqua, che trasforma Cipro in un angusto atollo, spazio scenico inventato da Annelisa Zaccheria, in cui si può solo girare in tondo e che taglia le vie di fuga, forse con un ricordo dell'isola ideata da Strehler per La tempesta. Semplice e d'effetto, quindi, la grande tavola da biliardo su cui o intorno a cui -Otello non vi sale più dove aver dato credito alle insinuazioni di Iago, non è più lui il padrone- si svolge l'azione. I costumi, curati sempre dalla Zaccheria, variano dall'elegante completo da sera di Otello all'abbigliamento da rambo nel furore della gelosia, dall'abito da sposa/camicia da notte di Desdemona al severo costume militare di Iago, mentre varie suppellettili passano da una mano all'altra: berretti a sonagli, mascherine nere, cappe. Ben affiatato il cast: sopra tutti, lo Iago di Giovanni Battaglia, subdolo ed ambiguo negli "a parte", rivolti a un pubblico che egli vuole (e, a tratti, riesce) a guadagnarsi come complice, quanto è schiettamente rude e apparentemente leale nei dialoghi; innamorato come un adolescente e poi furioso più di Orlando l'Otello di Danilo Nigrelli, mentre Silvia Ajelli interpreta una soave Desdemona, con tocchi di ribellione repressa che esplode in crisi isteriche. Si pensi alla concitazione della scena che mostra, a destra Otello mentre si scaglia contro Iago, a sinistra la crescente inquietudine di Desdemona per la perdita del fazzoletto magico, tanto da trasfigurare un deferente segno di saluto al suo signore in una danza del ventre da incubo.
Sulla scena si spengono tutte le candele, le luci: saranno riaccese l'indomani per Cassio, nuovo signore di Cipro, ma non per Desdemona: "Una volta spenta la tua luce [..], non so dove potrei trovare il fuoco di Prometeo per ridestarti".


di Irene Liconte

Altre opere di quest'autore recensite nelle passate stagioni:

Sogno di una notte di mezza estate