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William Shakespeare 

Grande successo di pubblico per il coinvolgente Re Lear di Glauco Mauri

(al Teatro della Corte dal 3-5 al 13-5)

UN LEAR A MISURA D’UOMO NELL’ESSENZIALITA’ DEL GLOBE

Un uomo sale sul proscenio dalla platea, scosta i due tendoni del sipario, arringa il pubblico con le parole del prologo dell’Enrico V, spronando la fantasia degli spettatori a raffigurarsi le sterminate brughiere, le imponenti scogliere di Dover, gli eserciti schierati, laddove campeggia un nudo palco di legno. Poi si siede ad assistere allo spettacolo, in un angolo. È l’incipit di Re Lear di William Shakespeare, portato in scena al Teatro della Corte da Glauco Mauri, regista e protagonista. Il vecchio re Lear spartisce il suo regno tra le due figlie maggiori, Gonerilla e Regana, escludendo dall’eredità la più giovane, Cordelia, che non conosce, come le sue sorelle, l’arte dell’adulazione. La giovane viene condotta in Francia come sposa dal re francese. Ben presto Lear sarà ricompensato con l’ingratitudine dalle due figlie e sostenuto solo dal fedele Kent e dal buffone di corte. Questa trama si intreccia con le vicende del conte di Gloucester e dei suoi due figli: Edgar, il figlio legittimo, viene abilmente calunniato dal fratellastro Edmund ed è costretto a fuggire dalla casa paterna. I due drammi procedono inesorabili verso la fosca conclusione della tragedia.

La sventura di Lear gli è gridata con dolore dal suo pazzo, il giullare che gli rimane devoto anche nella disgrazia: "Perché sei diventato vecchio prima di diventare saggio?". Shakespeare ci mostra una vecchiaia lontana dallo stereotipo della saggezza maturata con gli anni, ed invece dissennata ed impulsiva, come potrebbe essere il temperamento di un giovane; non è l’astuzia cortigiana e pomposa di Polonio, consigliere del re nell’Amleto, ma una grandiosa ribellione al tempo che passa. Lear cede il suo potere, non la sua dignità regale: egli non vuole rinunciare al suo seguito di cento cavalieri, con cui dedicarsi a spensierate scorribande di caccia, e continua a definirsi "re", parola su cui Mauri si sofferma quasi ossessivamente, in una pausa carica di significati. La sua stoltezza, tanto più esecrabile sotto la capigliatura bianca, si rivela già nell’episodio iniziale, fulcro della tragedia: il ripudio della figlia Cordelia, tema ispirato forse al cliché della principessa che non sa lusingare il padre con iperboliche espressioni d’affetto, comune a molti racconti del Nord Europa (si pensi alla fiaba del principe del sale, per esempio, oppure al rovesciamento della stessa tematica ne La bella e la bestia, in cui è la figlia a richiedere un dono umile al padre, a fronte degli sfarzosi regali che hanno chiesto le sue sorelle). E l’autore dà maggiore consistenza alla propria rappresentazione della decadenza della vecchiaia: Lear non è un caso isolato, non si tratta delle bizze di un monarca capriccioso. Il conte di Gloucester, infatti, rappresenta un "doppio" del re: mentre ne critica la follia che l’ha indotto a scacciare Cordelia, grottescamente anch’egli disconosce il figlio Edgar in base ad accuse poco credibili e, comunque, senza nemmeno verificarle. La vecchiaia, ci dice Shakespeare, non è, nemmeno per i potenti, lo stato di grazia che descriveva Solone, la quiete delle passioni e il raggiungimento della saggezza, ma un penoso stato di ottundimento mentale. Il vecchio è nelle mani dei figli (o in loro balia); egli rappresenta solo un intralcio al conseguimento di potere ed eredità: un soggetto da odierno ospizio. Paradossalmente –e tragicamente- Gloucester riuscirà "a vedere" veramente quando sarà cieco, con un’evidente ripresa del mito edipico, con la differenza che la scena dell’accecamento mostrata alla ribalta era inconcepibile nel dramma antico: nell’Edipo re di Sofocle essa si svolge nel chiuso del palazzo di Tebe, è un messo a riferire l’episodio, con toni e parole di orrore che, forse, trascendono anche la crudezza dell’atto rappresentato dal vivo. Più sottilmente, la "cecità illuminante" di Lear è invece la follia. A questo proposito, è centrale la figura del pazzo, splendidamente interpretato da Roberto Sturno: questa figura, classica nella drammaturgia shakespeariana, rappresenta l’uomo del popolo, che può permettersi di dire la verità anche in faccia al re, perché protetto dall’equivoco della verità irriverente scambiata per inoffensiva e divertente stramberia. In questo senso, è interessante anche il suo "travestimento" da spettatore in buffone: scende lentamente dalla scena, indossa un tight bianco, si trucca, cerone spalmato sulla faccia ed eye liner sulle sopracciglia, si cala nei panni del pagliaccio che, in quanto tale, può parlare liberamente. Tale prerogativa del fool è suggestivamente sottolineata, in questa messinscena, dal partner del pazzo, cioè un burattino da ventriloquo, animato dalla mano del buffone: è un modo per dissociare da sé la battuta troppo azzardata. La versatilità interpretativa di Sturno alterna efficacemente i momenti di buffoneria, che esplode in piroette e motti in falsetto, ma che è pur sempre venata da riferimenti alla realtà – si pensi alla battuta dell’uovo, in cambio del quale egli darà a Lear due corone: al di là dell’abilità da prestigiatore con cui l’attore separa in due sottili corone il berretto da giullare del suo pupazzo e ricava i due diademi, il riferimento è metafora dell’avventata decisione del re di spartire il regno tra le figlie–, ed i momenti in cui il fool parla seriamente: la voce si fa drammatica e piena, potente, tra i suoi lazzi emergono stoccate dirette in maniera dichiarata contro la sconsideratezza del re. Resta ferma la sua devozione per Lear, che si esprime talora tacitamente, in abbracci riverenti, inginocchiato davanti a lui. L’ultima attenzione prima di uscire definitivamente di scena: mentre Lear giace addormentato nella capanna in cui ha trovato riparo dalla tempesta, il pazzo lo copre amorevolmente con il suo tight, depone il suo cappello da giullare sul grembo del re.

La pazzia del sedicente Tom (è in realtà Edgar, sfuggito alla collera del padre nella brughiera) è perfetto contraltare della saggezza, propinata in battute stravaganti, del pazzo del re. Edgar deve rendersi irriconoscibile e finge una pazzia –come aveva finto il principe di Danimarca!– ma da indemoniato, in modo tale da tenere lontana la gente.

Infine, ecco il terzo pazzo, il protagonista. La follia di Lear, nelle infinite gradazioni dell’animo umano che Shakespeare sa cogliere e dipingere, è la conversione di un grande dolore in una sorta di pietoso oblio; la regia connota questo turbamento mentale, modernamente, anche di sintomi da demenza senile: che sia poi stata essa la causa del ripudio della figlia prediletta? In questo senso, l’interpretazione di Glauco Mauri è ricca di sfumature ed attuale, l’immortale personaggio shakespeariano vive in una performance vitale ed originale: non c’è il grande re, dal portamento solenne anche nella vecchiaia e maestosamente sprezzante del creato che si accanisce contro di lui, che affronta incurante di sé la tempesta, come nella memorabile interpretazione di Laurence Olivier; Mauri è un povero vecchio disperato, a tratti vibrante di collera, ma dimesso, meno eroico e più umano, a tratti quasi grottesco. La tempesta che si abbatte su di lui è riflesso di quanto lo turba interiormente, lo scatenarsi delle forze della natura appare quindi surreale: ecco l’eccesso di furia nella caduta della grandine e l’assenza delle urla del vento, ecco che la burrasca tace quando il re deplora l’ingratitudine delle figlie. La pietosa meschinità dell’uomo emerge qui proprio nella figura del re: gioca quasi a rimpiattino con Kent, che cerca di portarlo al riparo sotto l’evanescente copertura di un lenzuolo; con tono divertito osserva che il pazzo Tom può essere stato ridotto così solo dall’ingratitudine delle figlie; nella capanna, tra Tom, Kent e il pazzo imparruccati con bioccoli di lana, emuli di una corte giudiziaria, inscena un processo alle due figlie (viene in mente il processo intentato al cane dal vecchio Filocleone ne Le vespe di Aristofane, dove un’analoga "follia" senile spinge i vecchi ad occuparsi solo di cause giudiziarie). Storce regalmente il naso, come un nonno di oggi di fronte a certe stranezze della moda, di fronte all’"eccentrico abbigliamento" di Tom (mentre questi indossa solo un perizoma); ricompare in scena con Gloucester, indossando le vesti fuori misura del buffone, con una ghirlanda d’erba sul cappello da pazzo. A tratti balena un lampo di ciò che egli è stato: una sospensione nei dialoghi, la mano dimenticata in aria: "Io sono … il re?"; non è il vaneggiamento di una mente confusa, è una ricerca d’identità, del proprio ruolo. Re stolto che ha scacciato una figlia che lo amava, diviso il suo regno, mettendolo nelle mani di due rapaci regine che fanno guerra tra di loro e con la Francia, Lear cerca il senso della propria vita; lo scoprirà nel ritrovato amore di Cordelia, nel ruolo di padre amato.

Un altro personaggio condivide questa stessa necessità di cercare il proprio posto nell’esistenza: il bastardo Edmund. Egli, figlio illegittimo, rivendica la parità dei propri diritti rispetto al fratello, in nome della Natura –un monologo simile le aveva già dedicato Riccardo III–; dato che la società non riconosce le sue ragioni, le farà valere con la frode. Lo spettacolo dedica acutamente una speciale attenzione a questa figura ed accentua alcune battute che mettono in luce –e in discussione, da parte di questi– l’ordinamento sociale e le sue conseguenze che può scatenare. L’autore non ci racconta niente delle vicende familiari dei Gloucester, dalle battute iniziali possiamo solo desumere che il duca ama suo figlio; eppure è sottintesa una sua condizione di inferiorità all’erede legittimo, contro cui Edmund si ribella. La battuta "Un bastardo non può avere pietà", pronunciata quando consegna il padre nelle mani del duca di Cornovaglia e di Regana ed esce di scena di corsa, getta nuova luce sul personaggio e sulle terribili ripercussioni del suo status sociale sulle sue azioni; così come invece un riscatto, la dimostrazione di poter essere amato anche lui, il "bastardo", emerge nella battuta con cui muore, accanto ai corpi di Gonerilla e Regana: "Eppure Edmund è stato amato! L’una avvelenò l’altra per amor mio e poi si uccise!". Dà sostanza al personaggio un Graziano Piazza in gran forma, insinuante e infido senza parere, guizzante come una serpe, che dice dando ad intendere di non voler dire, si fa strappare di mano senza troppe resistenze la lettera che compromette Edgar, conquista il cuore delle due sorelle per procurarsi un trono.

La regia dello spettacolo ribadisce, ispirandosi alle battute che aprono l’Enrico V, i mezzi limitati della scena rispetto alle storie grandiose rappresentate. Coerentemente, la scenografia, curata da Mauro Carosi è semplice ed essenziale: un palco di legno, recupero della scenografia strehleriana per La tempesta, in cui la sobria pedana rappresentante l’isola era animata dal drappeggio di veli e lenzuoli e da sfondi che si accendevano di diversi colori, come accade anche in questo allestimento. Pochi utensili per caratterizzare ambienti e situazioni: la rozza sedia portata al centro della scena è simbolo della sala del trono, tra una lancia ed un’alabarda piantate per terra è teso un drappo in cui campeggia una tela di Bosch , il trionfo della la morte su una brulicante umanità sterminata dalla guerra. L’immagine rappresenta la sanguinosa battaglia tra Francesi ed Inglesi e fa da sottofondo alle meste parole del coro-spettatore: tanti sono i morti che non importa chi siano i vinti e chi i vincitori. Questo ruolo di affabulatore, un’invenzione rispetto al copione, è sostenuto da un grande Roberto Sturno: egli è, insieme, narratore e rappresentante del pubblico, spesso relegato in un angolo a seguire in silenzio l’evolversi dei fatti, una variante del ruolo di testimone affidato ad Orazio da Amleto nel finale della tragedia omonima. In linea con quanto lui stesso, in apertura di sipario, aveva declamato dall’Enrico V, Sturno copre anche il molteplice ruolo di "factotum teatrale", che sopperisce, in maniera dichiaratamente artificiale e con disinvoltura, alle esigenze sceniche, come era necessario fare al Globe di Shakespeare, senza che ciò infrangesse la finzione scenica, che stipula un silenzioso patto di accettazione di determinate convenzioni tra spettatori e attori (si pensi che allora, addirittura, i morti dovevano talora abbandonare la scena sulle proprie gambe! Nello spettacolo di Mauri, almeno, Oswald, il sicario di Gonerilla ucciso in duello, non è costretto a tanto e viene solo gettato con malagrazia nell’apposita botola di scena). Così è Roberto Sturno che si occupa degli attrezzi di scena, da quelli suddetti alla lancia che pone nelle mani del sicario Oswald. Interpreta, inoltre, le parti delle "meteore" della pièce, degli uomini comuni che vi compaiono per pochi istanti: il contadino che soccorre Gloucester dopo la sua "caduta" dalla scogliera di Dover, il medico che Cordelia consulta per il padre finalmente giunto all’accampamento francese, il capitano delle guardie cui Edmund consegna Lear e Cordelia in catene per sopprimerli. Trae anche, da rudimentali strumenti, un commento sonoro al dipanarsi degli eventi: il cadenzato suono del corno, cupamente rimbombante, con cui evoca prima la battaglia, e poi il confronto mortale tra le due sorelle, entrambe innamorate di Edmund. E da una sega da falegname, sollecitata con un archetto, ricava sibili stregati quando interpreta il contadino che fa incontrare il cieco Gloucester con "il pazzo Tom". E come ha aperto, fisicamente e metaforicamente, il sipario all’inizio della tragedia, così lo richiude sulle note delle magie che ormai che si sopiscono ne La tempesta, il testamento letterario di Shakespeare: "E come questa visione –edificio privo di fondamenta- così anche le superbe torri, i sontuosi palazzi, i templi solenni, lo stesso immenso globo e tutto quel che racchiude si dissolveranno e, come l’immateriale spettacolo che abbiamo veduto, non lasceranno traccia alcuna. Noi siamo formati con la materia di cui son fatti i sogni": come ribadito più volte nello spettacolo, la vita è un immenso palcoscenico, la distanza tra la scena e la platea è nulla. L’inconsistenza della rappresentazione teatrale è la stessa di cui è intessuta la nostra vita: "La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena e poi cade nell’oblio: la storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di foga, e che non significa nulla" (Macbeth, atto V). La scenografia è semplice, completata, per i palazzi delle due sorelle, da massicce pareti color torba, invalicabili e poste accanto a un singolare intreccio di tralci d’edera, su sfondo rosso cupo, mentre il palazzo di Gloucester è stilizzato in un porticato con vaghe reminescenze megalitiche; l’unica eccezione a tanta sobrietà è la ruota della tortura, realistica e funzionante, per sottolineare la precisione della crudeltà umana. L’essenzialità di arredi è corredata da tutti gli espedienti per arricchire la messinscena: oltre agli esempi già esposti, si notino la panca da cui Gloucester spicca il salto per precipitare dalla scogliera di Dover, da cui "atterra" a piedi uniti, altra grottesca lettura della situazione tragica; le funi della capanna in cui trova riparo il re, su cui si abbarbicano Tom e il buffone; la gogna applicata alle gambe di Kent, inviato come messo a Regana, che lo obbligano a scalciare ridicolmente; la carriola, che diventa la lettiga su cui il re addormentato viene portato via dalla capanna dove gli intenti omicidi delle figlie potrebbero raggiungerlo, usata poi nel finale per portare in scena il corpo di Cordelia; i due uncini legati da una catena con cui si affrontano nel finale i due fratelli Edgar ed Edmund, indistinguibili nel buio che li riduce a due ombre cinesi: sono due fratelli che combattono, la morte dell’uno equivale a quella dell’altro, la parità che rivendicava Edmund. I costumi, curati da Odette Nicoletti, sono dominati dal rosso: le vesti di Lear, del duca d’Albany e di Edmund, la livrea di Oswald. Le due regine rivali sono vestite in provocatori abiti da sera, neri ma lambiti in basso da fiamme: l’inferno che si manifesta in loro? Molto originale l’idea del manto regale di Lear, che si apre in uno stralcio di mappamondo, divisione metaforica del regno tra le figlie (ma con una buona pregnanza fisica: si pensi a Regana e Gonerilla che, rimaste sole nella sala del trono, strappano in due metà la parte destinata a Cordelia). Questa figurazione rappresenta il rovescio dell’astuzia di Didone –regnante accorta, non sprovveduta come Lear, ci suggerisce il regista–, che, ottenuta da re Iarba la promessa di poter regnare su quanta terra sarebbe riuscita a coprire con una belle di bue, ne ricavò sottili striscioline con cui perimetrò un ampio regno.

Un capolavoro la scena finale: Lear abbraccia piangendo la figlia priva di vita, oscilla sulla sua bocca una piuma, esclama un vano "E’ viva!", per risprofondare nella disperazione, accarezzare il proprio mento barbuto con la mano inerte di lei. Poi, la desolazione: sopravvivono solo il duca d’Albany, straziato dalla tragedia che ha innescato la moglie, Kent, che si augura di raggiungere presto il defunto re, e Edgar, a cui la regia affida, mettendogli in bocca l’ultima battuta (che nel copione è di Albany), il compito di raccogliere i morti, di radunare e guidare i vivi, perché questo è il destino dei giovani: "Dobbiamo sopportare il peso di questi tristi tempi. [..] I più vecchi hanno sopportato di più; e noi che siamo giovani non vedremo mai tanto, né vivremo così a lungo": un congedo illuminato da una pallida speranza, dopo tanti orrori? O la constatazione – che le azioni umane riescono purtroppo sempre a smentire– che nulla di più tragico e sanguinario potrà più accadere?

 

 

di Irene Liconte