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In prima mondiale la commedia polacca I reverendi al Duse (27/2-18/3)

REVERENDI, SATANISTI E BIGOTTI ESUBERANTI

Il giovane reverendo Richard Bloom è stato assegnato ad una parrocchia vacante. E’ ancora sottoposto all’interrogatorio della signora Simpson, presidentessa del comitato parrocchiale, che suonano alla porta: nemmeno il tempo di aprire ed ecco entrare un altro candidato allo stesso "posto", valige alla mano e notifica di assegnazione fra le labbra. Già ce ne sarebbe a sufficienza per imbastire una situazione comica scoppiettante, ma l’autore non si accontenta: il secondo aspirante è la "reverenda Gloria Barton. E’ l’incipit, brillante ed inaspettato, di I reverendi dell’autore polacco Slawomir Mrozek, per la regia del compatriota attore-regista Jerzy Stuhr.

La trama è incentrata sull’iniziale rivalità, molto ben orchestrata dalla regia e dai due protagonisti, tra i due giovani ecclesiastici designati entrambi per la stessa parrocchia, a causa del classico disguido burocratico, che non risparmia, ormai, nemmeno le autorità religiose; si scivola poi, nel corso della rappresentazione in una dimensione più interiore – le preoccupazioni di zia Bloom, le confidenze tra i due giovani-, pur sempre nella levità della commedia, per precipitare, infine, in un finale quanto meno inatteso.

La commedia è giocata sui paradossi: la signora Simpson, presidentessa del comitato parrocchiale, deve scegliere tra un reverendo donna ed un reverendo ebreo; Rosa Bloom, venuta a recuperare il nipote rinnegato, si duole che la sua conversione alla confessione protestante non gli impedisca nemmeno di sposare una donna non ebrea; uno scapestrato diciottenne metallaro satanista si aggira sotto la chiesa e la casa parrocchiale con un cartello inneggiante all’inferno e fa brillare bombe (–ma di piccolo calibro-, specifica uno dei personaggi), a seconda dell’estro del momento. Anche il salvataggio finale dalla setta di perversi sadomasochisti che si rivelano essere i parrocchiani, "mission impossible" della dinamicissima vecchia zia, corrobora questa atmosfera surreale: la sua voce giunge dall’alto, i due malcapitati reverendi si chiedono se ella non li chiami a sé, nelle immensità del cielo… prima di vederla scendere in tuta da aviatore da una scaletta metallica calata da un elicottero. Nonostante questi elementi, la commedia non si può definire "dell’assurdo", come è stata presentata nelle anticipazioni. Questo genere teatrale presuppone, come base, che l’assurdo dell’esistenza si sprigioni dal grigiore quotidiano, con un senso di impotenza, di "inchiodamento" alla realtà (si pensi ai personaggi di Beckett, sia che emergano da bidoni della spazzatura come in Finale di partita, sia che siano materialmente conficcati nel terreno, come Winnie di Giorni felici, splendidamente interpretata nella scorsa stagione da Giulia Lazzarini, riproposta secondo la regia di Strehler). Un altro elemento basilare nel Teatro dell’Assurdo è l’accettazione, da parte dei personaggi, della dimensione irreale dell’esistenza come fosse la normalità, la loro partecipazione, piuttosto "interna" che non passiva, a questa condizione: le situazioni sono sì "assurde", ma tali non appaiono ai personaggi, perché vi appartengono, ne sono impregnati; il dialogo è sfilacciato, spesso è costruito a monologhi che si attorcono l’uno all’altro, spezzettati in battute. Nella pièce di Mrozek, invece, non è così: le situazioni descritte sono paradossali, non "assurde" nel senso sopra specificato; i parrocchiani accettano, effettivamente, come normali le reciproche stramberie, ma queste ultime strabiliano i due reverendi, totalmente sconcertati da una realtà che percepiscono prima strana, poi pazzesca; ossia, Gloria e Ricky vedono dall’esterno l’assurdo. E la loro implicazione negli eventi ne esclude l’assimilazione ad "osservatori", rappresentanti del pubblico. Dall’altro punto di vista, quello dei parrocchiani, perfino il quadro del precedente reverendo, oltre alla signora Simpson, sembra scandalizzato dalla "assurda novità" della chiesa moderna, che consacra reverendi ebrei e donne (la foto del quadro ritrae Fernandel nei panni di Don Camillo). E’ interessante anche notare che il teatro dell’assurdo si basa sull’esternazione immediata del pensiero che attraversa, anche fugacemente, la mente, senza il filtro della ragione: ricordo o invenzione, non importa. Ne I reverendi, invece, l’autore cerca di incanalare l’assurdo negli spiragli dei precetti dei benpensanti, nel perbenismo e nella bigotteria di facciata, con alcuni momenti davvero felici –per esempio l’orgia, che sta per scatenarsi durante la presentazione dei reverendi ai parrochiani, si ricompone a causa dell’arrivo di Cico, il ragazzo satanista, "per non turbarne l’innocenza"; la combattiva signora Bloom scappa di corsa all’esplosione di un ordigno –ma piccolo-, come precisa il nipote, augurando agli aspiranti parroci "felici bombe".- Nei dialoghi si ravvisano alcune battute dettate dalla poetica dell’Assurdo, come quando la signora Simpson imputa la preferenza di Ricky per il thé zuccherato alla sua origine ebraica. Ma la predominanza dei dialoghi verte su un realismo spesso venato di sarcasmo: accusato di aver partecipato all’assassinio di Gesù Cristo, Ricky ribatte con evidente ironia –Non che io mi ricordi-; l’arringa di Gloria per dimostrare il proprio diritto su quello di Ricky, arrivato per primo, per quanto un po’ capziosa, è un piccolo capolavoro di logica aristotelica, seppur "logica dell’estremo". Il suo arrivo dopo Ricky è un avvenimento più prossimo all’evento cui tende il mondo cristiano, cioè il Giudizio Universale; da questo Gloria acquisisce priorità sul rivale. L’obiezione di Richard è tanto scontata quanto refutabile: la Genesi non può ritenersi più importante del Giudizio finale, in quanto il cristianesimo, tendendo alla salvezza dell’anima, è progressista, quindi proiettato al futuro.

La rivalità dei due reverendi mette di fronte a due condizioni estreme e all’originale motivo dell’incarico di reverendo come posto di lavoro o rimedio a problemi personali. Ricky Bloom si è convertito al Cristianesimo ed è diventato reverendo per non essere bollato dalla designazione di "Ebreo", bruciante quanto la stella che veniva cucita sugli indumenti degli Ebrei nei campi di concentramento: -Se fossi diventato medico, o professore, sarei sempre stato un medico ebreo, un professore ebreo. Ma, per assunto, non può esistere un reverendo ebreo!- Perché, per essere Ebrei, ci vuole coraggio: -Se togliessero a tutti i generali, di tutte le guerre che sono state combattute, tutte le loro medaglie e le dessero ad un bambino ebreo, non basterebbero per ricompensare il suo coraggio. Perché è un coraggio obbligatorio.- Si desume chiaramente che il drammaturgo, pur ambientando la vicenda in una indeterminata comunità parrocchiale degli U.S.A., ha davanti a sé la situazione di un est europeo in cui l’antisemitismo conserva ancora radici molto profonde. Non a caso durante tutta la rappresentazione, perlomeno nella versione italiana, si parla sempre di "reverendi": l’insistenza della parola da parte di Gloria è certo dovuta alla contestazione del suo diritto di ricoprire una carica all’interno della Chiesa in quanto donna, ma la totale mancanza di sinonimi, specie del termine "pastore", particolarmente usato in ambiente anglicano, indica che l’ambientazione è funzionale solo a rendere plausibile il sacerdozio femminile -ancora esuliamo dai principi del Teatro dell’Assurdo, in cui ogni cosa è possibile solo per il fatto stesso che è rappresentata.- Indirettamente, così, l’autore chiama in causa tutto il mondo cristiano. Si discute anche delle due religioni, ebraica e cristiana: ne emerge che il Dio ebreo schiaccia i suoi fedeli con la durezza dell’Antico Testamento, mentre Ricky avverte il bisogno di un Dio d’amore, non giudice inflessibile. Un’altra tematica estremamente attuale toccata dalla pièce è il problema delle vocazioni, drasticamente in diminuzione, in maniera particolare in Italia. Se per Ricky la "vocazione" consisteva nello sgravarsi del pesante fardello dell’Ebraismo, anche Gloria non ha ricevuto la chiamata celeste, ma ha pianificato il sacerdozio a tavolino. Lei ha cercato nella Chiesa la salvaguardia di qualche valore, la possibilità di opporsi al degrado che minaccia anche le istituzioni religiose: -Insomma, può sembrare patetico, ma l’ho fatto per servire l’umanità.- La ricerca di un posto nella vita, di un’identità, non è perseguita solo dai due giovani protagonisti: anche la stramba signora Amie Wilkinson, un’appassita figlia dei fiori con lunghi capelli bianchi e bandana sulla fronte, è stata tormentata da questo rovello. E qui si innesta la seconda parte dello spettacolo, decisamente più inquietante: è godibilissima, ma allarmante, la scena in cui, deprecata la propria solitudine, Amie la definisce "attributo divino"; infatti la sua ricerca è approdata alla conclusione di essere Dio. Un Dio un po’ minaccioso, che raccoglie adepti con la minaccia di un pugnale (che prostra in adorazione Ricky), e sanguinario, che caldeggia riti sacrificali e cannibalistici, possibilmente da esercitare sui bambini. E il resto dei parrocchiani si rivela infine non meno pericoloso. La signora Simpson aveva affermato di essere la peggiore peccatrice della parrocchia, sottolineando l’affermazione con atteggiamenti lussuriosi poco fraintendibili (prima con Ricky, poi con il bacio di fuoco, proiettato sulla parete dell’anticamera come un’ombra cinese, a Tom, classico bulletto danaroso dedito al golf); già nel primo incontro con i reverendi Betty aveva sfoderato la propria sensualità, facendo emergere qualcosa di scabroso che pullulava nella comunità, abbandonandosi come un manichino ad un inizio di spogliarello. Nella seconda parte dello spettacolo, questa componente diventa predominante: i parrocchiani si rivelano infine per quello che sono, una setta sadomasochista che ha ucciso il predecessore dei reverendi durante "giochi" portati al limite: torture, perversioni sessuali. La rivelazione di Ned Wilkinson è però tardiva: il resto della setta irrompe nella casa parrocchiale armata di tutto punto, mitragliatrici e kalashnikov, il volto coperto dal passamontagna, cattura i due reverendi e decide di ucciderli. Il tono umoristico, ma sostanzialmente realistico della prima parte, si ribalta quindi in un misto di storia di gusto pulp incrociata con le immagini visivamente shockanti di violenza di certi fumetti per adulti, da cui sembrano saltati fuori questi assassini improvvisati e feroci. Si scopre addirittura che il ritratto del reverendo precedente, che tanto infastidiva Ricky, era una specie di "occhio", vigile sui nuovi venuti, anzi, addirittura prezioso informatore: come conferma la sua testa conservata in formalina, tramite barbagli fosforescenti di fuochi fatui da film horror, egli ha svelato ai suoi ex compagni di lussuria, il tradimento di Ned Wilkinson (questi aveva infatti confidato tutto a Gloria, proponendole di scappare con lui). Il finale risulta quindi posticcio, in contrasto con lo stile della prima parte: se l’autore voleva sottolineare il marcio che sta spesso dietro il perbenismo, la soluzione scenica non appare la migliore: la violenza raccontata e sottintesa nelle "gesta" dei parrocchiani è quella classica da cronaca nera dei telegiornali, cui siamo, purtroppo, più che abituati. Non c’è un tentativo di approfondimento della situazione, di spiegare "perché", ma solo la denuncia della depravazione che serpeggia tra gli uomini. Anche la battuta finale, che adombra il fallimento della parrocchia, intesa come ultimo microcosmo umano, scavato all’interno della dimensione cittadina (ormai da tempo non più proponibile come solida compagine), rivela lo sfascio: –Noi volevamo solo un po’ d’amore!- si rammarica Mary Simpson, le braccia alzate verso l’elicottero che porta in salvo i due protagonisti. Anche l’ultima isola di salvezza, che Gloria cercava nella Chiesa, è un’amara disillusione.

Il salvataggio in extremis, il repentino sbocciare dell’amore tra i due "reverendi", le bizze della zia che non vuole salvare la promessa sposa del nipote, perché cristiana, i patteggiamenti sul nolo dell’elicottero sono espedienti piuttosto prevedibili e un po’ facili. Il noir del finale risulta spurio, poco convincente e non in tono con il resto. "Gli orchi" cui fa allusione Wilkinson, svelando i perversi segreti della commissione, sono pallida parvenza rispetto ai protagonisti in nero, designati con lo stesso termine, de Il paradiso degli orchi di Daniel Pennac. La ferocia e la crudeltà fini a se stesse appaiono coerentemente in tutta la loro crudezza, pur in un romanzo a tratti ironico e divertente, nei personaggi dello scrittore francese. Nella pièce, invece, anche la perversione sembra posticcia: Ned cede con troppa facilità al fascino di Gloria, pur senza aver ricevuto il minimo incoraggiamento da lei e ben sapendo il pericolo che corre nel farlo; gli altri, armati fino ai denti, incappucciati come terroristi e pronti ad uccidere, dissimulano le loro intenzioni davanti alla vecchia signora indifesa.

La scena è essenziale ed in accordo con la bivalenza dello spettacolo: un ambiente da parrocchia di provincia, vista sulla torre campanaria –bombardata e rasa al suolo dall’innocuo satanista-, vetri e porte intarsiati di tessere di vetro colorato, che sono insieme richiami delle decorazioni delle finestre di molte chiese e potenziali luci psichedeliche nel buio dell’orgia interrotta da Cico e in quelle rievocate nel finale. L’espressione scandalizzata, nella foto incorniciata sulla parete, di Don Camillo/ Fernandel poco si adatta, poi, alla condanna del progressismo della Chiesa: il suo sguardo ricorda quello scandalizzato con cui guardava i suoi "giovani d’oggi" nell’omonima raccolta di racconti, espressione dietro cui si celava bonarietà ed uno spirito più moderno di quanto lui stesso volesse ammettere, per controbilanciare rimbrotti e tirate passatiste.

I personaggi sono ben tratteggiati: Luigi Saravo dà corpo ad un giovane reverendo idealista, la cui maggior aspirazione è l’uguaglianza, problema particolarmente sentito dalle minoranze etniche che non si integrano e non sono destinate ad integrarsi. Gloria Burton è interpretata efficacemente da Pia Lanciotti, una reverenda decisa e determinata, pragmatica, come tutte le donne che hanno vissuto in prima persona le nuove frontiere schiuse al mondo femminile –basti pensare alle difficoltà per una donna ingegnere trent’anni fa; a volte anche più recentemente, purtroppo.- Una Gianna Piaz in gran forma interpreta una zia che dà già pepe alla commedia nelle battute iniziali, quando la sua telefonata bruscamente interrotta dal nipote con l’esclamazione –E’ finita!- viene immediatamente equivocata; una figura secondaria, ma tratteggiata con i tocchi giusti, dalla sua avarizia ebrea alla fuga a gambe levate di fronte "all’inoffensivo bombarolo", alla drammaticità eccessiva con cui esprime le paure per il nipote -Un Ebreo che si espone nella maniera più eclatante!- e, nel colmo del suo sfogo, invece di strapparsi i capelli si sfila la parrucca; infine, nelle contrattazioni per accogliere sul suo aeroplano anche la "cristiana" fidanzata di suo nipote.

Uno spettacolo divertente e, soprattutto, promettente nella prima parte, decisamente sottotono e deludente nella seconda, a causa dell’abbinamento di registri espressivi opposti ed anche dell’accantonamento delle tematiche d’inizio commedia. Resta la considerazione che Mrozek dipinge un mondo dove non esiste ombra di principi etici e religiosi, un mondo da cui si può scappare solo verticalmente (ma diretti dove?) e da cui non salva nemmeno l’abito talare: la commedia si era aperta con due neo reverendi, si chiude su due vocazioni fasulle che costruiscono un legame d’amore. Forse la speranza, non originalmente ma efficacemente, sta tutta lì.

di Irene Liconte

 

Le citazioni del testo costituiscono delle parafrasi dell’originale.