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FINO AL 12/01 AL TEATRO DELLA TOSSE

La rinascita del teatro dopo la caduta dell’impero romano: il Bene e il Male si affrontano in scena

COINVOLGENTE SPETTACOLO ALLESTITO DALLA TOSSE, TRA STORIA DEL TEATRO E SPERIMENTAZIONE

Si spalanca il portale della chiesa di S. Agostino. Si avanza nella penombra, fino a trovarsi davanti ad una nicchia da cui prende vita una statua. È l’Autore, avvolto in un fastoso drappeggio rosso: ossia l’Autore del Creato e, insieme, Pedro Calderon de la Barca, autore de La sacra rappresentazione del mondo, allestita da Tonino Conte ne Il gran teatro del mondo come sacra rappresentazione, per il Teatro della Tosse; il testo è arricchito di spunti tratti dalle sacre rappresentazioni italiane, per uno spettacolo composto di tredici momenti, suddivisi tra quadri e canzoni, in scena fino al 12 gennaio 2002. La sacra rappresentazione del mondo, uno degli "autos sacramentales" (sorta di atti unici di contenuto religioso) di Calderon de la Barca, portava in scena l’assegnazione, da parte della personificazione del Mondo, dei ruoli sociali, con una breve performance per ogni figura: il ricco, il mendicante, il re, il guerriero, il contadino, la donna bella e quella saggia. Ecco l’allegra sarabanda che si scatena attorno ad un baule pieno di vesti e suppellettili durante la messinscena, dopo che l’Autore (un "venerando" Giancarlo Ilari) ha convocato il Mondo (Pietro Fabbri) e lo ha messo a parte del suo progetto: realizzare uno spettacolo. "Un altro diluvio universale?" (*) replica ironico il Mondo; "Ma no! Niente catastrofi, questa volta!", ribatte l’Autore, ma uno spettacolo che mostri il tragico e il comico della vita: uno dei punti cardine della poetica del ‘600, dove i registri del ridicolo e del luttuoso non sono mai disgiunti (perfino nelle più nere tragedie shakespeariane affiorano episodi grotteschi; e le parole pronunciate dall’Autore a proposito del parallelismo tra la scena e la vita riecheggiano la celebre definizione che Shakespeare dà dell’esistenza nel Macbeth, atto V: "La vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena un’ora sulla scena e poi cade nell’oblio.") Così, entrati nel "Gran Teatro del Mondo" attraverso un’arco monumentale, il primo quadro ci mostra gli ingenui Re Magi che raccontano a mo’ di filastrocca la loro storia ad un truce, ambiguo Erode, fanciullescamente cullati dalla voce della balia: "Ninna nanna, ninna nanna, miei Re Magi di gesso e di panna"; il verso ha un suo fascino surreale, perché allude all’aspetto per noi più comune dei tre personaggi, cioè quello di statuine del presepe, e richiama quindi una "sacra rappresentazione" ancora oggi praticata.

"Io vi ho dato la nascita e la morte" precisa l’Autore: il resto è lasciato al libero arbitrio di ciascuno. Come illustrato nella visita al Museo di S. Agostino, propedeutica allo spettacolo, le sacre rappresentazioni nacquero, nell’Alto Medioevo, proprio con lo scopo di richiamare al cattolicesimo le folle insidiate dai movimenti eretici; la dialettica libero arbitrio/predeterminazione del destino umano era uno dei problemi più scottanti che contrapponevano eresia ed ortodossia (qualche secolo dopo il pensiero calvinista verterà proprio sulla predestinazione). I Francescani "propagandavano" il credo cattolico presso le classi più umili tramite rappresentazioni teatrali a soggetto sacro, che illustravano episodi salienti delle scritture o davano concretezza scenica ai complessi concetti teologici, mentre i Domenicani si rivolgevano ai ceti più colti, cui destinavano sermoni "esemplari" o vite dei santi (su tutte, La leggenda aurea di Jacopo da Varagine, già fonte di ispirazione per gli artisti della Tosse). L’esortazione al Bene ed alla Fede è inesausto: "Pace in terra agli uomini giusti" proclama il coro di angeli sulla stalla di Betlemme; S. Eulalia "china la testa solo per la messa". Ma è sempre incombente la labilità della natura umana, combattuta tra Bene e Male, quest’ultimo rappresentato concretamente sulla scena dal Diavolo. I pastori pronti ad adorare Gesù, dopo un primo scambio di battute amichevoli in un clima da commedia di Ruzante, si azzuffano per intervento del demonio. La strage degli innocenti punta una luce fosca sull’aberrante malvagità di Erode, ma svela anche la meschinità delle madri che, con in braccio il proprio bambino assassinato, provano ancora l’impulso di schernire le altre donne, ormai orribilmente private della loro ragione di vanto. Già nel prologo il Diavolo aveva precisato di essere indispensabile per "dar pepe" alle vicende rappresentate sulla scena, in modo che il pubblico non si annoiasse. Ma la morbosità con cui seguiamo su quotidiani e riviste certe notizie di cronaca nera può farci riflettere se l’insidia del fascino esercitato dal male si limiti esclusivamente all’evasione teatrale.

L’ambientazione non richiede commenti: l’emozione che un simile evento teatrale suscita sotto le volte di una delle più belle chiese di Genova è potente. Come suggestivo è il pellegrinaggio tra i quadri allestiti nelle varie nicchie e cappelle, quasi fossero le stazioni di un’altra sacra rappresentazione, la processione del Venerdì Santo.

L’allestimento offre molti esempi degli elementi di cui si avvalevano le rappresentazioni religiose per raggiungere il loro obiettivo: il dialogo è spesso scandito da rime, per renderlo più orecchiabile; una storia "impegnata" e narrata senza l’animazione di attori, come quella del concepimento e della nascita di Gesù, viene arricchita di particolari curiosi che fanno sorridere: la perplessità dell’arcangelo Gabriele quando vede in quale tugurio abiti la futura madre di Dio; la buona volontà profusa dall’asinello di Giuseppe, che, nonostante tutto, è proprio male in arnese, tanto da aumentare la diffidenza verso la malconcia coppia che non trova asilo a Betlemme; la stessa semplicità di Giuseppe, che non capisce esattamente ciò che l’arcangelo gli dice in sogno, ma si affida al volere di Dio: ha fede, appunto quanto si voleva ottenere portando in scena un repertorio sacro. Le storie vengono sfrondate di complicazioni superflue: non ci si addentra nello scandalo suscitato da Maria, vergine impura perché incinta; lei è già sposata a Giuseppe quando concepisce Cristo. Componenti essenziali sono la scenografia (curata da Emanuele Luzzati) e i costumi (di Bruno Cereseto): l’angelo che annuncia ai pastori la nascita di Gesù è ammantato di una veste lucente, ali ricamate d’argento, boccoli biondi: un’apparizione d’effetto, insomma, e dal nulla -la figura compare da dietro un telo azzurro-, annunciata da rumori mai uditi. Il regno di Erode, compiuto il massacro degli Innocenti, è ridotto ad un cumulo di sedie accatastate, un regno svuotato di sudditi dal suo stesso re, sedie in precario equilibrio su cui svetta, pericolante: il trono, solo un’altra sedia più fastosa. Per caratterizzare infallibilmente il Diavolo un mantello, un copricapo di velluto rosso con due lunghe penne per corna: e la parte è assegnata ad una donna. Forse perché nel Medioevo la donna era "speculum diaboli"? Il Mondo, di cui si celebra la sacra rappresentazione, è vestito proprio da ecclesiastico, lungo abito talare nero, gorgiera alla spagnola che evoca fantasiosamente il globo terrestre mentre, raggomitolato su se stesso, ascolta le parole introduttive dell’Autore. Non si tratta di un teatro realistico: così non importa che la canzone della Vergine sia intonata da un’attrice non più giovanissima (Antonietta Carbonetti, che passa con disinvoltura dai panni del Diavolo a quelli della Madonna). E l’avvincendarsi degli attori in parti anche stridenti tra loro non stupisce: dopo la Carbonetti, anche Enrico Campanati può tranquillamente interpretare la parte del crudele re Erode e dell’ispirato "cantastorie" che racconta la nascita di Gesù. Basta poi precipitarsi via da un palco all’altro per cambiare identità.

Altro espediente tipico della letteratura cristiana antica è la rilettura degli antichi in chiave biblica: Dante, smarrito nel suo cammino di fede, incontra Virgilio, che, nelle Bucoliche, aveva profetizzato, dopo la devastazione delle guerre civili, il ricostituirsi dell’età dell’oro grazie ad un misterioso fanciullo: una premonizione della nascita di Cristo? Questo processo di assimilazione della cultura classica è tanto più interessante se si pensa che in occidente il teatro antico, da Plauto e Seneca, era stato bandito all’avvento della nuova fede, che respingeva un genere culturale imperniato su soggetti "pagani"; per ironia della sorte, proprio il teatro diventa oggetto di propaganda del cattolicesimo in un’epoca in cui esso è in crisi. E, come era successo nell’antica Grecia, il teatro rinasce da spettacoli di carattere religioso. Nel finale, il cerchio si chiude con una legittimazione evangelica dell’arte dell’affabulazione: "In principio era la Parola…"

Emerge, in alcune narrazioni, il potenziale fiabesco delle vicende, anche in termini di "lieto fine" ultraterreno: S. Eulalia, come la più celebre S. Lucia, subisce più volte il martirio ed alla fine la sua testa mozzata si trasforma in una colomba. La levità -la sdrammatizzazione, quasi- con cui è trattato l’argomento si riflette nello strumento espressivo scelto dalla regia, una vivace canzone strimpellata sulla chitarra e cantata dalla martire stessa in coro con il suo carnefice.

Il ruolo che riveste la scienza nello spettacolo è minimo, eppure decisivo, nell’episodio di Afra, e ironicamente vistoso, in quello della visita dei Re Magi ad Erode. In quest’ultimo caso il sapere scientifico -il manipolo di luminari di Erode, con cappello alla Mago Merlino, equipaggiati di telescopio e pila di tomi- si fa beffare da tre re sempliciotti e da una cometa che rivoluziona i moti celesti, interrompendo a proprio piacimento la sua traiettoria; nella storia di Afra è il responso sbagliato di un medico sulla presunta sterilità di Flavio a spingere questi a rinnegare il figlio e la moglie. Nell’ambito di una sacra rappresentazione può esserci un intento sottilmente polemico -chiesa e scienza si sono faticosamente riconciliate solo di recente-; ma il tonfo della tecnica, del progresso che corre troppo, non è anche realtà dei giorni nostri, dalle biotecnologie alla clonazione, con le loro potenzialità positive e negative? Ed ha spiegato inoppugnabilmente, la scienza, il fenomeno della Madonnina napoletana che piange sangue o del bambino colpito da meningite fulminante e -forse- miracolato da Padre Pio?

Nel fulmineo intervento di un "impolitico" abbiamo un’inversione che ci riporta nel nostro secolo: proprio da un pulpito un uomo (Pietro Fabbri, il Mondo!) mette in discussione il messaggio del Vangelo: amare l’umanità intera è solo un’utopia, "Io non riesco ad amare nemmeno un uomo solo!" esclama, additando Erode che sta per accingersi a sterminare i piccoli Ebrei.

Si scivola inarrestabilmente nella nostra società: nelle note di La colpa è sempre degli altri, intermezzo alla chitarra cantato da Roberta Alloisio e Paolo Cauteruccio, possiamo facilmente riconoscere il nostro atteggiamento più comune di fronte a fatti privati e pubblici, piccoli e grandi: trarsi fuori dalla mischia, additare qualcun altro come responsabile.

E il tema della scelta, di parteggiare per il bene o per il male, si affaccia costantemente: Afra è sottoposta al giudizio della folla, se sia stata adultera o no, se il suo bambino sia legittimo o bastardo. Il bambino è il ritratto di Flavio, marito di lei, concorda unanime il popolo: che sia prosciolta. Abbandonata su un’isola deserta da Flavio, che non crede alla sua innocenza, la disperazione di non poter più nutrire il suo bambino e di lasciarlo preda delle belve spinge Afra a divorarlo lei stessa (con alti esiti poetici: "Torna nel mio ventre, dunque, che già conosci" e "il viso non ebbe la forza di guardare ciò che faceva la mano", nell’intensa interpretazione di Lorenza Pisano), con echi danteschi della vicenda di Ugolino della Gherardesca. Ma non c’è il giudizio perentorio di Dante: mentre il Diavolo rivendica per sé Afra, invece la voce narrante la proclama destinata al cielo per le terribili sofferenze che ha patito. E nuovamente si riaffaccia il giudizio, richiesto questa volta allo spettatore: Afra sarà dannata o beata? Il pubblico rimane muto. Forse è una delle maggiori differenze tra le consuetudini di rappresentazione su cui era imperniato quel teatro e quelle odierne: dibattito aperto, immediato, partecipazione attiva alla messinscena allora; partecipazione anche profonda ma solo emotiva oggi, quando altre sono le forme di spettacolo che coinvolgono attivamente il pubblico, lo "strappano" dalla passività della platea (si pensi ai concerti). Sotto questo aspetto la messinscena, emozionante ritorno ai meccanismi e alle ragioni d’essere del teatro delle origini, non può funzionare da macchina del tempo: il pubblico rimane quello del XXI secolo.

Irene Liconte (*) Le citazioni sono perifrasi del copione originale