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DUE COLOSSI DELLA LETTERATURA FRONTEGGIANO IL MOSTRUOSO COLOSSO DEL MITO DI ULISSE



Sbarbaro e Pirandello fronteggiano il mostruoso Ciclope di Euripide, unico dramma satiresco greco pervenutoci integro dall'antichità. Il tema è stato brillantemente sviluppato dal Prof. Paolo Zoboli, nell'ambito del ciclo di conferenze "Leggere e rileggere", organizzato dal Teatro della Tosse. Il dramma è incentrato sull'episodio di Ulisse e Polifemo, tratto dall'Odissea, e contrappone l'orrore della vicenda alla gaiezza dei satiri, che sono servi del ciclope ma rimpiangono la vita allegra al seguito del dio Bacco. Basandosi sulla traduzione del grecista Romagnoli, Pirandello scrisse, in dialetto agrigentino, "'U ciclopu" (1918), che ben si inseriva nel teatro dialettale e di ambientazione siciliana con cui l'autore esordì sulle scene con la compagnia di Martoglio. Il contrasto tra comico e tragico, inoltre, racchiudeva già la poetica pirandelliana dell'umorismo, che egli avrebbe definito in alcuni saggi del '20.
Più sofferto e radicato il rapporto tra Il ciclope e Camillo Sbarbaro. Il poeta ligure tradusse il dramma in prosa durante la guerra, sfollato a Spotorno e poi nella vicina Borsana: "il vino più schietto di Euripide, che travasai per mio uso, nel paese dell'origano e delle farfalle, l'estate del '44", scrisse, identificando nella Sicilia di Euripide il paesaggio assolato del Finalese e trovandovi un rifugio dall'angoscia che lo tormentava. La traduzione in versi è del 1960; Sbarbaro rievoca serenamente la sua ultima fatica poetica: "Il contatto della terra mi ringiovanisce. In vista, laggiù, le arme: i monti di pietra rosea di Finale. Sfaccendato mi provo a mettere in versi Il ciclope; a un tavolinetto che sposto sotto l'unica finestrella (con impannate di carta) tra nugoli di mosche; felice." Il poeta insiste in più occasioni sul "divertimento" con cui aveva lavorato al Ciclope; in realtà, la gioiosa levità del coro di satiri esorcizza l'assurdità e l'atrocità a cui è condannata l'umanità. Il mostro divoratore di uomini, negli anni del conflitto mondiale, è per Sbarbaro metafora degli orrori della guerra. A Polifemo ubriaco il poeta mette in bocca un "alalà" che, nel Greco delle origini era un grido di guerra; sinistramente, esso riecheggia "l'alalà di scherani" della Primavera hitleriana di Montale. E la metafora dilaga dalla storia alla città, fonte di solitudine ed alienazione, dipinta così: "M'affaticava la città col suo/ ansito/ quale andare di fiume che non trovi/ foce; mi impauriva con la mole/ quasi colosso che non abbia luce di sguardo". Chissà che cosa gli suggerirebbe la sua sensibilità poetica se si aggirasse per la Genova caotica, fitta di cantieri e code di macchine, in cui a volte ci sentiamo spaesati anche noi. Chissà se, nella Genova che ben conosceva, Sbarbaro abbia mai incontrato con sollievo l'occhio di luce della Lanterna, colosso amico degli Ulisse di oggi.

Irene Liconte