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Bergman




Lavia e Guerritore: Scene da un matrimonio di Bergman alla Corte(dal 17-2 al 1/3 1998)

COPPIA NELLA VITA E SULLA SCENA


Dopo essersi cimentata con diversi capolavori del teatro russo (da "Il giardino dei ciliegi" a "Ivanov", fino al vibrante monologo di Gabriele Lavia ne "Il sogno di un uomo ridicolo"), la coppia Lavia-Guerritore, più che mai affiatata, si cimenta con un'opera di un celeberrimo autore svedese: "Scene da un matrimonio" di Ingmar Bergman. L'allestimento offre particolari motivi di interesse, in primo luogo perché Bergman è forse più noto al grande pubblico per la produzione cinematografica che non per il teatro. Interessante, a questo proposito, il fatto che "Scene da un matrimonio" sia nato come film per la televisione, adattato poi per il grande schermo ed infine rielaborato in versione teatrale. Il dramma copre l'arco di una decina d'anni della vita di una coppia, Johan e Marianne. Lui assistente universitario, lei avvocato, arrivano, tra tradimenti, incomprensioni, rappacificazioni, rimpianti e ritorsioni, ad un divorzio che non è in grado di separarli definitivamente, così come il matrimonio non lo era stato di unirli.
Lo spettacolo è articolato in sei scene (una in meno rispetto al testo), con titoli che ne sintetizzano i contenuti e anticipano le metafore, molto belle, di cui è costellata la pièce. I titoli sono, nell'ordine: l'arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto, il letto di chiodi, Paula, la valle di lacrime, gli analfabeti dei sentimenti, in piena notte in una casa buia in qualche parte del mondo. Molto evocativi, da quello gergale e pragmatico della scena prima, che anticipa, in contrasto con quanto Marianne dice sulla necessità di dirsi tutto, i conflitti ancora sotterranei che esploderanno nelle scene successive, a quello geniale della quinta scena, che ribattezza in maniera originale e suggestiva il dramma dell'incomunicabilità umana: gli analfabeti dei sentimenti. I titoli delle scene vengono riferiti di volta in volta da uno dei due personaggi, temporaneamente "fuori scena" rispetto all'altro, a sottolineare la dimensione di "teatro nel teatro" che campeggia fortemente nello spettacolo: Johan e Marianne stanno vivendo presentemente il loro dramma ma, contemporaneamente, lo stanno raccontando, recitando agli spettatori, aspetto, questo, evidenziato anche in dettagli scenografici, quali la sistemazione di alcuni riflettori in bella vista sul palco, tra i mobili che costituiscono la scenografia. Inoltre, quando Marianne e Johan discutono o litigano, non è mai possibile stabilire con certezza se siano sinceri o se cerchino di sopraffare l'altro, guadagnandosi la parzialità del pubblico; non c'è avvallo esterno delle loro parole, ci sono i loro due punti di vista, tra i quali il pubblico si trova spiazzato e combattuto. I rapporti umani (e in particolare quello uomo-donna) risultano perciò teatrali, nel senso che le persone non sanno (o possono) mostrarsi quali sono e perciò fingono, recitano; il completo disvelamento di sé non è possibile: "Sempre finta. Sempre. Finta nei miei rapporti con le altre persone. [...] Dovevo piacere a tutti i costi. Era uno sforzo disperato per piacere a tutti" scopre di sé Marianne in cura da uno psicologo. Come in una catena di cause di cui non si può trovare il capo, l'incapacità di aprirsi veramente agli altri è vista come conseguenza della difficoltà nel conoscere se stessi: "...all'improvviso prendo coscienza di qualche cosa che è là, in quella fotografia, e che mi sfugge da sempre. E' sorprendente: io non so chi sono. Non ne ho la più pallida idea", confessa sempre Marianne. L'inesausta ricerca della propria personalità porta a trasformarsi: da tenera ed insicura moglie che si aggira in casa scarmigliata, in goffi camicioni e collant arrotolati alle caviglie, nella cui voce trema sempre una nota di pianto represso o sorriso forzato delle prime scene, alla donna, ancora piacente, che vorrebbe riconquistare il marito ma teme di soffrire ancora (scena quarta), fino alla donna realizzata e spregiudicata, piena di astio e spirito di rivalsa delle ultime scene. Parallelamente, Johan passa dall'uomo composto e contenuto, oppresso dalle convenzioni familiari e infedele per evadere da esse, dal tono di voce sempre misurato, rispetto agli accorati accenti della moglie, alla persona cui Paula, la nuova compagna, ha insegnato a "urlare e litigare", fino all'uomo invecchiato e stanco, disilluso dalle speranze di carriera accademica, delle scene quinta e sesta. Uno splendido rovesciamento di ruoli, però lo spettacolo si conclude come era iniziato, con i due protagonisti a letto, teneramente abbracciati: qual è dunque il senso di questa evoluzione, visto che non c'è crescita comune, né ricostruzione di un rapporto che non potrebbe mai funzionare? Johan e Marianne, infatti, si trovano sempre da parti opposte della barricata: nella terza scena, quando il marito le confessa il tradimento con Paula e che vuole lasciarla per partire con l'amante, Marianne lo supplica inutilmente di darle un'altra possibilità; nella quinta scena è lui a chiederle di tornare insieme e lei rifiuta: insomma, Johan e Marianne non "si incontrano" mai, non sono mai in sintonia. Quello che ci mostra Bergman è lo strazio di due persone che, benché incapaci di rinunciare l'una all'altra, non sanno stare insieme. Questo, in primo luogo, perché uomo e donna rappresentano due universi separati: proprio in apertura di dramma, di fronte alla contrarietà della moglie per un impegno familiare, Johan le chiede se abbia le sue "maledettissime" mestruazioni, l'attribuisce alla differenza fisiologica uomo-donna; poche battute dopo, il dramma dei due protagonisti è in nuce nell'affermazione di Marianne "Sai qual è la tua forza, amore mio? Che non riesci mai a capire quello che dico". Più volte, nel corso dello spettacolo, si fa riferimento al diverso approccio alla vita dei due sessi: più semplice ed immediato quello femminile, più razionale e mediato quello maschile; ma in Bergmann ciò non comporta completamento, ma incompatibilità.
A tutto ciò, si aggiunge un ulteriore elemento, caratteristico della seconda metà del secolo (la pièce è del '81, ma la versione televisiva data 1973): i ritmi imposti dalla società moderna, che costringe le persone a "rimandare" la propria vita, a trascurare i rapporti umani. Osserva Johan "L'affetto ha bisogno di tempo. E tempo non ce n'è"; e ancora "Nessuno di noi ne riceve abbastanza. E non ne diamo abbastanza" e quando decide di abbandonare la famiglia rinfaccia alla moglie il peso degli impegni di famiglia, spesso necessari più per soddisfare le apparenze, per le consuetudini sociali, che non per il loro effettivo valore; le due figlie si lamentano del fatto che la madre non trascorra più tempo con loro, tutta dedita com'è al lavoro per mantenerle (quinta scena). Un mondo ben lontano dall'essere a misura d'uomo, dunque, ma, d'altro canto, al vortice della vita quotidiana e della sua pianificazione è difficile sfuggire: "E' come la mappa di una città, la nostra vita. Divisa in tanti quadratini, tanti settori, tante caselle. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, una casella. E in ogni quadratino c'è scritto quello che dobbiamo fare, tutto programmato con grande anticipo. E se all'improvviso si presenta un quadratino vuoto, siamo tutti sbalestrati e presto presto gli piazziamo dentro qualcosa" .
Un altro elemento fondamentale della pièce è il sesso che, vissuto in maniera non sana, contribuisce in larga misura alla crisi della coppia; nella seconda scena, gli spettatori scoprono che Johan e Marianne hanno rinunciato ad avere una vita sessuale: "Non ci posso fare niente se non mi piace più come una volta [..]. E' perfettamente naturale", commenta Marianne, e Johan "Tutta questa faccenda del fare l'amore è irrilevante, dopo tutto." A sua volta, però, questo problema affonda le radici nei ritmi imposti dalla vita di ogni giorno: l'impossibilità di prendersi una vacanza da soli, l'incombenza degli impegni, l'essere troppo assorbiti dal lavoro. Il sesso è basilare nel rapporto amoroso e perciò affiora nelle situazioni più diverse; può trasformarsi in un'arma: nella concitata quinta scena, prima è lo strumento cinicamente usato da Marianne per verificare che non ama più il marito, poi è Johan, con toni brutali, ad accusarla di aver fatto "commercio" del sesso, da lei subìto allo scopo di ottenere la gentilezza del marito, oppure semplicemente per adempiere ad un dovere penoso ma necessario. Tutte le frustrazioni (ormai retroattive, perché i due si sono separati da anni) della coppia vengono fuori in questa scena: al tormento dell'indifferenza che Johan afferma di aver patito, Marianne contrappone il peso dei sensi di colpa che lui le ha insinuato, in un doppio sfogo emotivo così vibrante che il pubblico difficilmente può prendere posizione. In altri casi, il sesso diventa indice dell'unicità dell'amore: Johan, all'inizio del suo rapporto con Paula non riesce a fare l'amore con lei, perché ormai il suo modo di vivere l'erotismo si è modellato sulla vita sessuale con la moglie, anche se questa significa astinenza; Marianne prova ad andare con altri uomini, ma poi li trova ridicoli (quarta scena), perché è ancora innamorata del marito, e nell'ultima scena confida a Johan che il suo nuovo matrimonio è solo una questione di sesso. Il dirompere della componente sessuale è, inoltre, elemento propulsivo del teatro borghese scandinavo del '800, da Ibsen a Strindberg, per citare autori molto noti e le cui opere sono state allestite innumerevoli volte da Bergman. Si pensi a "Casa di bambola", commentata da Johan e Marianne, che sono andati a teatro (!) ad assistere alla rappresentazione del dramma di Ibsen (e la scelta non è casuale: il testo di Bergman presenta evidenti parallelismi con la pièce dell'autore norvegese, che mostra la graduale presa di coscienza della protagonista, Nora, che finirà per lasciare il marito): Nora, dopo aver capito finalmente che tipo di persona sia il marito, "si farebbe a pezzi" all'idea di aver "fatto dei figli con un estraneo"; oppure, si pensi alle forti pulsioni erotiche di Hedda Gabler, o all'ossessione strinderghiana per il desiderio sessuale, che, solo, rende l'uomo soggetto ad una creatura infernale come è la donna.
Johan e Marianne, nonostante gli anni di separazione, il divorzio ed i nuovi matrimoni, sono legati indissolubilmente per la vita, come è magistralmente mostrato nel finale, in un colpo di scena che in realtà non ribalta nulla, come tutti gli altri della pièce: dopo la spaventosa lite della quinta scena, che sancisce la ratifica del divorzio, ritroviamo Johan e Marianne teneramente abbracciati, consapevoli di non poter fare a meno l'uno dell'altra quanto di non poter condividere la vita. L'amore è questo: "Io sono qui che ti abbraccio. E siamo tranquilli, così, in piena notte, in una casa buia, in qualche parte del mondo. [...] Io credo che questo sia amore... se poi invece è un'altra cosa... non lo so, non ho abbastanza fantasia per immaginarlo". C'è quindi una sorta di sacralità dell'amore (le luci che, pudicamente, si spengono sul rapporto amoroso della quinta scena), che suona però anche come una condanna, a causa dell'incomunicabilità: un tratto delicatissimo e significativo, a questo proposito, è il particolare, amaramente ironico, di Marianne che legge a Johan il suo diario (la sua anima, cioé) e lui l'ascolta in silenzio, finché non scivola nel sonno (quarta scena), episodio specularmente riprodotto nella scena successiva, quando Johan le parla dell' "analfabetismo dei sentimenti delle persone" e lei a sua volta si distrae e si assenta.
L'interpretazione dei due protagonisti, che, quasi a sottolineare l'intreccio teatro-vita, sono uniti nella vita come sulla scena di questo spettacolo, è superlativa: la Guerritore ha toni vibranti, accorati, come custode del focolare domestico, le emozioni le tremano nella voce, è piena di slanci, per conferire invece accenti taglienti, che trasudano compiaciuta sicurezza, alla Marianne delle ultime due scene, dalla voce ferma, il riso non più venato di pianto, ma sicuro. Anche l'interpretazione di Lavia è fluida, mutevole come il testo richiede: al tono quasi "piatto", alle battute pronunciate con un controllo che fa immaginare sentimenti repressi, delle prime scene, succederanno gli sfoghi liberatori delle scene successive e poi la stanchezza e la disillusione di un uomo che si sente ormai vecchio, accantonanto dalla società, che rivorrebbe la sua famiglia per dare di nuovo senso all'esistenza, uomo cui dà corpo un Lavia dalla voce nasale, tutto infagottato e circondato da cleenex, per far corrispondere, grottescamente, al suo tracollo emotivo anche il tracollo fisico a quello emotivo. Permette di godere appieno lo spettacolo una fine autoironia, un po' alla Woody Allen, che riesce a sdrammatizzare lo spettacolo, senza intaccarne tutto il pessimismo di fondo, nello spirito dell'autore; dice Marianne: "La mia vita non è mai stata un dramma. Non sono portata per il dramma". Questo viene attuato non soltanto tramite certe battute che intervengono al culmine della tensione, per riportarla a livelli di guardia (per esempio, nella seconda scena, Johan conclude la sua tirata antifemminista con un improvviso "Non credo a una parola di quello che ho detto"), o attraverso il ricorso a luoghi comuni della vita quotidiana, più che della letteratura, come attribuire le tensioni familiari alla suocera; ma attraverso una recitazione sempre in equilibrio tra il grottesco e il tragico. Non si cade mai direttamente e definitivamente nella disperazione: ogni volta che ci si avvicina al non-sense dell'esistenza, qualcosa trattiene dallo sprofondare definitivamente: si parla della solitudine, l'atmosfera si incupisce...ecco la battuta "La solitudine con Paula è peggio della vera solitudine", buttata lì con tono canzonatorio, evidenziata da un'espressiva gestualità ricca di sottintesi. Un'impostazione, dunque, che si adatta perfettamente ad un testo in cui il dramma non scatta mai, non avviene niente di risolutivo perché così è la vita ed i "colpi di scena" dello spettacolo in realtà sono solo apparenti: si pensi al passaggio tra quarta e quinta scena: lasciamo Marianne che chiede a Johan di passare la notte da lei -e, nell'ambiguità che contraddistingue lo spettacolo, la risposta di Johan non è riportata-, poi ritroviamo i due protagonisti che si sono dati convegno per firmare le carte del divorzio; la quinta scena sembra scavare una frattura insanabile e definitiva, dopo anni di tentennamenti, ed invece la sesta si apre sulla coppia in tenera intimità.
Gli aspetti lieti "della vita appaiono come vagheggiamento di un passato ormai irrecuperabile: Marianne ricorda la felicità di Johan quando lei "si trascinava" per casa con il pancione, il tempo che lui passava a giocare con le bambine, sente che quelli erano privilegi, ricchezze, che lei e il marito hanno buttato via. Johan, solo e disilluso, sente una grande nostalgia di casa, non ne ha saputo costruire una propria. Che cosa resta? Nulla. "La solitudine è assoluta. [..] Qualche volta si può essere attratti dall'idea di poter creare un rapporto umano. Non dimenticare mai che è un'illusione". Rimane l'amarezza degli anni che avanzano, il fallimento sul lavoro (Johan viene accantonato dalla facoltà, come elemento improduttivo; ma anche Marianne, dopo aver tante volte messo in guardia le mogli dal restare sole con i mariti "colpevoli", commette quest'errore e viene malmenata); su tutto, l'impressione, tormentosa, di aver, ad un dato momento, preso la strada sbagliata. Ma la strada sbagliata è poi "sempre la solita strada", che si percorre "meccanicamente, senza pensare", ma alla fine ci si ritrova in "una discarica piena di spazzatura".
La scenografia si compone di mobili disordinatamente ammassati in scena, una sorta di "accampamento", con carattere temporaneo e disordinato rispetto al tradizionale concetto di casa: vi traspare insomma la stessa precarietà che caratterizza il rapporto di coppia. Lo spazio non è circoscritto da pareti, e richiama così l'ampiezza del mondo: si tratta di un accorgimento per sottolineare la generalità di ciò che avviene in scena, l'universalità dei problemi trattati. Inoltre, la disposizione dei mobili per definire, in maniera vaga, le stanze (la cucina, la camera da letto, lo studio etc.) dà corpo ad una sorta di "labirinto" fatto di spazi virtuali e pareti d'aria, evocate dai protagonisti nei loro spostamenti da un "ambiente" all'altro. Muri d'aria che "visualizzano" (per dir così) quelli che si frappongono, metaforicamente, Johan e Marianne e che, impalpabili, dividono proprio in virtù della loro rarefazione, che non permette il transitare della parola.
In "Scene da un matrimonio" campeggia il tema dell'amore, indagato nelle sue sfumature, ma anche nelle sue conflittualità, nella sua grande contraddizione: la necessità di amare ed essere amati e l'incapacità di farlo, rese nella splendida metafora della "stradina stretta stretta, terribile" dell'incubo di Marianne che bisogna percorrere aggrappati l'uno all'altro, salvo il terrore di ritrovarsi, al posto delle mani dei moncherini. Per sugellare una messinscena intensa come quell' "amore mio" che percorre lo spettacolo dall'inizio alla fine, anche nei suoi momenti più tesi, niente di più calzante di un commento dello stesso Bergman: "Ho impiegato tre anni per scrivere le "Scene da un matrimonio", ma è stato necessario un tempo assai più lungo della mia vita per viverle".

di Irene Liconte