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Debutta in prima nazionale al Duse Der totmacher "Il mostro di Hannover"

(dal 12/1/2001 al 21/1/2001)

DALLA CRONACA NERA DEGLI ANNI VENTI ALL’OMBRA DEL GENOCIDIO

Nota: data l’indisponibilità del testo, le citazioni sono da considerarsi approssimative, ovvero parafrasi

Un pugno nello stomaco: crudo ed essenziale Der totmacher, il mostro di Hannover, di Romuald Karmakar e Michael Farin, allestito in prima nazionale al teatro Duse dallo Stabile di Genova, cn la regia di Marco Sciaccaluga. La trama si snoda a partire da un antefatto desunto dalla cronaca nera di metà degli anni ’20, quando decine di ragazzi furono massacrati ad Hannover dal "mostro".

Trasposizione teatrale della sceneggiatura dell’omonimo film, la messinscena ci offre il ritratto di un assassino psicopatico ben lontano dalla scontata figura di serial killer dalla monolitica e pertinace vocazione al sadismo, che inonda di sangue tanti film americani –e ben pochi, tra l’altro, riscattati da interpretazioni memorabili come quella di Anthony Hopkins ne Il silenzio degli innocenti.- Ed infatti, per quanto orrore desti, il pluriomicida si guadagna anche pietà dal pubblico, disponibilità a cercare di capire, se non comprensione.

Se l’originario spunto da cronaca nera si presta perfettamente per una versione cinematografica, lo scavo psicologico su cui si impernia la resa teatrale è estremamente funzionale al palcoscenico. Lo sviluppo dello spettacolo procede con l’indagine per redarre la perizia psichiatrica che lo psichiatra Schultze conduce su Fritz Haarmann, colpevole di svariati omicidi di adolescenti tra gli undici e i vent’anni. L’interrogatorio evolve da una sorta di esame di geografia, storia e matematica, per stabilire la sanità mentale di Haarmann –con efficace rievocazione del bambino, pur zelante a scuola, ma disprezzato dal padre come "cagone"-, ad una serie di domande sempre più incalzanti sulle sue pulsioni sessuali - l’influenza freudiana sulla psicologia dell’epoca marca pesantemente l’interrogatorio-, fino a dibattere apertamente sulle accuse di omicidio e cannibalismo. Emerge il ritratto di un uomo instabile e provato, in cui si annida ancora il ragazzo ossessionato dalla minaccia di essere di nuovo rinchiuso in manicomio, esperienza giovanile shockante e mai superata, tanto da preferire la condanna a morte all’ospedale psichiatrico, perché "lì c’è davvero da diventare pazzi". Dalle battute, spesso troncate su determinati argomenti tabù (il manicomio, la pazzia), dal confronto di versioni discordanti degli stessi fatti, sempre al limite tra verità e contraffazione, non si può dedurre se l’internamento sia stato conseguenza di squilibri mentali o, piuttosto, causa innescante di tali squilibri (il protagonista accusa il fratello delle perversioni verso un bambino che hanno sancito il proprio ricovero). E la risposta non è comunque determinante: da questo oscuro inizio, il seguito è un’esistenza di desolata solitudine. Prima il disprezzo familiare e l’abbandono della fidanzata, poi l’emarginazione durante il servizio militare, l’adescamento e "l’iniziazione" del ragazzo da parte di un omosessuale di pochi scrupoli. Ancora, respinto dai datori di lavoro per una non meglio precisata invalidità di guerra, il culmine tragico di questo deserto umano è la morte della madre, l’unica che nutrisse affetto per lui, evento trumatizzante al punto di non accettarne la morte, come splendidamente metaforizzato dall’allucinazione di sentirla battere dei tocchi contro la bara come se fosse stata sepolta viva. E quasi con candore, in una momentanea percezione degli orrori commessi, egli afferma che, dopo morto, le racconterà di essere caduto in guerra, " perché tanto di lassù lei non vede".

Insomma, ne scaturisce un quadro, clinico ed umano, estremamente articolato, sconvolgente ma anche sfuggente. Fritz si apre via via a scandagliarsi, a raccontare, per cercare di capirsi: "io non volevo..." mormora più di una volta. Si scopre così che rimpiange i rapporti sessuali con la fidanzata: lui non è un omosessuale, semplicemente fa sesso con gli unici disposti ad accettarlo e, con orgoglio, ricorda che i giovani che lo frequentavano lo definivano "un brav’uomo". Descrivendo questi ragazzi come "bagascette", egli bolla, inconsciamente, il suo stesso modo di essere: la Bibbia che condanna la sodomia colpisce loro per mano sua. E perché lui no? Da qui nasce l’ansia che anche a lui venga finalmente tagliata la testa?

La morte che egli commina è una sorta di rituale: gli atti giudiziari parlano di strangolamento delle vittime; egli afferma invece –e non importa che ciò sia reale o frutto della sua immaginazione sconvolta- di averli uccisi mordendoli alla giugulare: un novello Dracula che vive del sangue delle sue vittime, che cerca di sottrar loro quella giovinezza per lui così devastante? L’eliminazione dei cadaveri comporta un graduale smembramento, la dissoluzione di un essere umano: "Non è poi gran cosa un uomo; può stare in una grossa borsa, come quella". C’è un tentativo, fisico e brutale, assurdo, di "studiare" l’umanità da cui è segregato, di vederne "il dentro": non si riesce a svelare l’anima, ci si accontenta della disamina degli organi. L’orrore dell’assassinio e dello squartamento, a cui soltanto si allude per quasi tutta la durata dello spettacolo, esplode in circa dieci minuti di accurata descrizione di dissezione anatomica, conati di vomito allo stenografo, sguardo di lucida follia del protagonista. Il raccapriccio vibra grottescamente nella domanda che i bambini pongono a Fritz, intento a gettare i suoi sinistri involti nel fiume, "è cibo per i vostri pesci"; l’orrore si smorza poi nel particolare della benda posta sugli occhi della testa mozzata delle vittime, perché "i morti possono vedere e sentire", infine agisce anche sul protagonista, assalito da un’angoscia insostenibile nei giorni successivi all’omicidio.

Contemporaneamente, affiora man mano e si delinea la pesante influenza della società sui fatti. Dice Haarmann: "se mi fossi sposato con Erna, non sarebbe successo nulla", " se avessi avuto un amico non sarebbe successo nulla". Emarginato, Fritz si rifà a sua volta su altri emarginati, ragazzi disposti ad andare a letto con lui perché "già avere un posto dove dormire era una ricompensa sufficiente", per dei garzoni o studenti ridotti alla fame nella disfatta economica della Germania del primo dopoguerra.

Schultze, antagonista del personaggio principale, è caratterizzato come un rigido tutore delle norme sociali, sapientemente intrecciate ai precetti religiosi, da cui discendono tutti i parametri di giudizio. La valutazione dello specialista è quindi già pronta, preconcetta: Haarmann è un astuto criminale che finge stupidità per agire indisturbato, è "il più orribile mostro che sia mai esistito"; sotto i riflettori di questa società Fritz Haarmann è un assassino che "nemmeno prova vergogna" dei suoi racconti scabrosi, da mettere a verbale e dimenticare in un cassetto, per questioni di decoro. Ma la società che ha partorito questo "mostro" non è esente da colpe: essa è il risultato delle carneficine legalizzate della Grande Guerra, di cui, non a caso, Fritz non ricorda nemmeno una battaglia; è una società ancora acritica sulla storia, per cui Napoleone non è il responsabile della morte di migliaia di soldati, sacrificati alla propria ambizione, ma "un grande uomo", come afferma Schultze, quando Fritz paragona la propria prigionia a quella dell’imperatore a S. Elena. E’ una società che segue morbosamente la storia del "mostro", tra una spensierata canzone tradizionale e l’altra, gli indirizza lettere improntate allo scherno, " da Haarmann entri uomo ed esci wurstel", più che allo sdegno, lettere in cui deliranti filastrocche ne dipingono grottescamente le atrocità – buffo contrappasso per lui che, nella sua esistenza dimenticata, non aveva mai ricevuto una lettera-; una società che ne trarrà addirittura dei romanzi. E’ innegabile la megalomania del protagonista: i suoi crimini lo hanno segnalato nella massa, non è un "buono a nulla", può coltivare il sogno di un grande monumento che commemori quanto ha fatto. Egli non sa che la fama a cui agogna sarà presto oscurata da un altro sterminatore, che in quegli anni stava rapidamente conquistando popolarità, "un altro che grida" come lui, che avrebbe reso il massacro e il genocidio programma di un regime. E se per Haarmann rimane dubbio se i particolari cannibalistici siano un macabro particolare inventato, magari dalla stampa, Hitler ricaverà davvero sapone dal grasso degli Ebrei sterminati. Gli eccidi di Fritz prefigurano sinistramente il nazismo, in lui si anticipa l’anima nera dell’uomo che esploderà come un mostruoso bubbone da lì a vent’anni, "il verme che rode il cuore". Non c’è spiegazione al male fine a se stesso: lo spettacolo ci dice che, forse, ci può essere solo una difficile, doppia pietà.

Alla fine dell’istruttoria Schultze prende coscienza dell’umanità ferita dell’imputato, cerca di convincerlo ad avallare in tribunale la tesi dell’incapacità di intendere e volere: il giudizio umano si dissolve, si demanda tutto a Dio, a quel Cristo che, "immobile inchiodato su una croce" raccoglie in sé le vittime di Fritz e forse Fritz stesso: "tutti andiamo in cielo", riscatto di una vita che accomuna nella sofferenza vittime e carnefici. Ma questo cielo tanto desiderato esiste davvero? Solo squarci angusti se ne colgono attraverso alte finestre, parzialmente precluse da ali in mattoni; spesso nuvoloso, piovoso, privo del sole che Fritz ama tanto.

Non mancano suggestioni che legano il dramma alla grande tragedia classica: il racconto di orripilanti smembramenti e perversioni cannibalistiche, non mostrati sulla scena, è già tecnica senecana. Ed anche le tematiche si riannodano risalendo i secoli: già nel Tieste campeggia il male inflitto per il guto di esercitarlo. L’aspersione d’acqua al volto che Fritz ripete due volte è suggestivo richiamo al sangue indelebile dalle mani di Lady Macbeth, la rievocazione disgustata dei vermi sviluppatisi in uno dei cadaveri rimanda alle celebri battute di Amleto –altro "pazzo assassino"!- sulle spoglie di Polonio; le membra umane gettate in pasto ai pesci del fiume Leine ricordano che le viscere di un uomo (nell’esempio di Amleto, un re) possono viaggiare in quelle di un altro.

La scenografia immaginata da Guido Fiorato sostituisce il cielo con pareti a piastrelle blu, pilastri che terminano a scivolo, respingono infallibilmente verso ogni anelito di ascesa, conferiscono alla scena un senso di risucchio verso il basso. Al puzzle rigoroso e perfetto delle tessere di mosaico non corrisponde affatto l’individuazione di caselle nette in cui classificare ogni sfumatura dell’animo umano, come vorrebbe Schultze. Né ormai è più in grado di rispecchiare la deformità umana un vecchio specchio corroso dalla ruggine, appeso sopra un lavandino che ha usurpato il posto di una acquasantiera a forma di conchiglia, misterioso simbolo del sacro. Così come simbolo del sacro è la colonna che si erge nel mezzo della scena, commistione di sacralità e legge: i cristiani trasformarono i tribunali romani -le basiliche- in chiese: il processo qui è inverso,le leggi umane incalzano quelle divine, chi ha ucciso è a sua volta vittima di un omicidio. La scenografia è completata da due scrivanie, una per lo psichiatra, l’altra per lo stenografo, al caso anche giaciglio per Fritz: ormai la sua esistenza si perpetua solo nell’interrogatorio. L’atmosfera è poliziesca: non c’è il lettino dello psichiatra, una luce livida penzola sui due antagonisti divisi dalla scrivania, alternata a sferzate di albe grigie ed inquietanti dall’estro di Piero Niego.

Valido e ben diretto il cast: Jurij Ferrini conferma la sua rapida maturazione interpretando un Haarmann diviso tra squilibrio e disperazione, a tratti preda di crisi isteriche, a tratti lucido rievocatore dei propri orrori, ricorrendo ad una gamma gestuale molto ricca, dal tremito alla goffaggine del movimento, dagli scatti nervosi al pianto. Vero tedesco quadrato e tutto d’un pezzo lo Schultze di Massimo Mesciulam, dall’iniziale distacco professionale (sottolineato dal gesto studiato dell’inforcare gli occhiali, dall’azionamento del "timer" a pendolo, per non sgarrare sul tempo nemmeno quando il lavoro di scavo psicologico è ben avviato) al progressivo coinvolgimento umano. Centrale la figura dello stenografo -Massimo Rigo-, benché non pronunci nemmeno una parola: sobbalza quando "il mostro" lo guarda ammiccando e notando la sua bella mano, vomita al racconto particolareggiato delle atrocità compiute da Haarmann, ne constata l’umano abbandono al sonno. Con i suoi calzettoni alla bavarese rimboccati al ginocchio, in tono con le ballate tedesche che si inseriscono in alcune scene, è un rappresentante del pubblico, è l’interlocutore muto di ogni vicenda che approdi dalla vita al teatro. Irene Liconte