da "Il Manifesto" del 13 Giugno 2002
Tra la fame e la Monsanto
di Gianni Minà
Cuba apre agli ogm? Il giovane ministro degli esteri cubano Perez Roque, al vertice Fao
al posto di Fidel Castro, spiega l'approccio di un paese povero ma non misero: «Le
conoscenze per produrre alimenti che salveranno di milioni di esseri umani non dovrebbero
mai essere considerati una merce»
GIANNI MINA'
Sei anni fa il discorso più applaudito del vertice Fao sulla fame nel mondo fu quello di
Fidel Castro che fu molto simile negli argomenti e nello sdegno a quello di Giovanni Paolo
II tanto da essere equiparato, nei consensi dei paesi poveri, con quello del Papa e da
mettere in ombra l'intervento di Jang Zemin, il presidente della Cina, il paese dove vive
un sesto dell'umanità. Questa volta, però, Fidel Castro è rimasto all'Avana «perché
l'aria che tira in questo momento in America latina per le strategie imposte dal governo
di George W. Bush, Jr. non è delle più rassicuranti», mi ha spiegato Felipe Perez
Roque, il trentasettenne ministro degli esteri, che lo ha sostituito al summit sulla fame
nel mondo e che, con il giovane ministro dell'economia Carlos Lage e con il ministro della
cultura Abel Prieto (scrittore pubblicato anche in Italia) segnala che il domani di Cuba,
il cosiddetto dopo-Fidel, è gia cominciato da tempo anche se i mezzi di comunicazione del
mondo occidentale continuano spesso a non accorgersene. «Sono un apprendista, anche come
rappresentante del mio paese - ha affermato sorridendo Felipe che fu il leader della Ujc,
l'unione dei giovani comunisti di Cuba, prima di diventare uno dei collaboratori più
stretti di Castro - penso tuttavia che sia sbagliato circoscrivere la rivoluzione cubana,
il suo legame col popolo, esclusivamente ad una figura, anche se Fidel è un leader
dall'autorità morale e dalla capacità di convocazione immensa. Pensare che la
rivoluzione cubana è un processo che morirà con lui è un'ingenuità politica, forse
frutto dell'ignoranza del fatto che la maggioranza dei dirigenti attuali del mio paese
sono nati dopo la rivoluzione». Il ministro degli esteri cubano martedì era curioso di
capire come sarebbe stato recepito il suo intervento alla Fao, il discorso di un quasi
esordiente, che però aveva giàmostrato il suo temperamento in varie occasioni come nel
2000 e nel 2001 all'assemblea dell'Onu a New York, quando aveva convinto ancora una volta
più di centosessanta paesi a votare contro l'embargo a Cuba. Contrari solo Stati uniti,
Israele e Isole Marshall. Che viene a dire alla Fao un rappresentante di Cuba sei anni
dopo Fidel Castro? gli ho chiesto. «Vengo a dire che è un crimine il fatto che, mentre
inizia il terzo millennio ci siano ancora più di ottocento milioni di affamati nel mondo,
più di undici milioni di bambini sotto i cinque anni annientatati da malattie curabili e
centinaia di milioni che diventano ciechi per mancanza di vitamine. Ma è ancora più
vergognoso che gli accordi del vertice precedente non siano stati rispettati dai quei
paesi ricchi che oggi, in molti casi, hanno disertato questa sala. Sei anni fa Fidel disse
che era un traguardo molto modesto quello di arrivare a ridurre nel 2015 a quattrocento
milioni le vittime della fame. A quel traguardo si sarebbe arrivati se la cifra di chi non
può sopravvivere si fosse ridotta di venti milioni all'anno. Negli anni trascorsi dal `96
ad oggi il numero è sceso solo di sei milioni all'anno, e unicamente perché paesi come
la Cina hanno compensato l'aumento delle persone che non hanno nulla nella maggior parte
dei paesi del terzo mondo, specialmente in Africa. A questo ritmo ci vorranno più di
sessant'anni per raggiungere il "modesto" traguardo di assicurare il cibo alla
metà degli affamati del mondo. Credo che purtroppo ci sia stata ultimamente una totale
mancanza di volontà politica».
Al giovane ministro ancora scottava la recente censura nei riguardi di Cuba ottenuta dagli
Stati uniti, per 23 voti a 21, nell'ambito della Commissione diritti umani dell'Onu, dopo
una battaglia diplomatica rocambolesca nella quale solo nella notte inoltrata della
vigilia della votazione l'amministrazione Bush aveva ottenuto che un governo
latinoamericano, l'Uruguay, proponesse la mozione contro Cuba. Una mozione che prima la
Repubblica Ceca, poi l'Argentina (anche se ricattata dal Fondo monetario internazionale) e
infine il Messico e il Perù (i cui governi erano stati sconfessati dai rispettivi
parlamenti) avevano rinunciato a presentare. L'Uruguay era stato convinto con un prestito
inaspettato per salvare l'economia disperata del paese: «D'altronde - spiegava Felipe
Perez Roque - gli Stati uniti avevano sempre perseguito l'illusione di far censurare Cuba
per iniziativa di una nazione sorella latinoamericana. E senza alcun pudore per la realtà
inquietante fatta di repressione, desaparecidos e squadroni della morte che riguarda quasi
tutte le nazioni del continente esclusa Cuba. Questa volta, però a causa del fallimento
sociale che l'America latina vive, si erano create le condizioni adatte per puntare a
questo obiettivo strategico. Eppure, fino all'ultimo minuto, il loro piano ha rischiato di
saltare».
A questo punto mi veniva in mente come gli Stati Uniti avessero tante volte salvato paesi
alleati o soci (come il Guatemala del genocidio maya degli anni ottanta) dalle condanne
dell'Onu e come un senatore influente avesse una volta argomentato l'ambiguità degli
Stati uniti nell'ignorare le violazioni ai diritti umani della Cina con queste parole:
"Non possiamo certo perderci un mercato di un miliardo e trecento milioni di
persone". Felipe scuoteva la testa perplesso: «A Cuba non c'è un gruppo di madri
che vanno in piazza della Rivoluzione tutte le settimane a reclamare i figli desaparecidos
e non ci sono, come in tanti paesi della nostra America offesa, esecuzioni
extragiudiziali. Malgrado il paese abbia dovuto subire svariati atti di terrorismo
organizzati e diretti da strutture come la fondazione cubana-americana di Miami, nel mio
paese non c'è mai stato un desaparecido e nemmeno un giornalista o un sindacalista
assassinato. E non abbiamo nemmeno leggi dell'obbedienza dovuta e del punto
finale per le quali tanti criminali sono impuniti in Argentina, in Uruguay, in
Guatemala. E tanto meno esportiamo strumenti di tortura e di violenza, come la Commissione
diritti umani di Ginevra ha sostenuto fanno gli Stati uniti. Purtroppo il paese leader del
mondo ha smarrito da tempo l'etica politica e usa una doppia morale. C'e stata una
parentesi durante la presidenza di Jimmy Carter, ma poi questi valori si sono persi per
strada. Come dobbiamo giudicare infatti un paese che, unico, vota contro il dovere di
proclamare l'alimentazione come un diritto umano fondamentale?» Il ministro degli esteri
cubano avrebbe più tardi ripreso il concetto nel suo intervento alla Fao: "Non
potrà essere eliminata la fame fino a quando milioni di famiglie del terzo mondo
continueranno ha coltivare la terra con gli stessi metodi usati secoli fa, fino a quando
non riceveranno sementi geneticamente migliorate, fino a quando non avranno accesso a
nuove tecnologie per l'irrigazione, la fertilizzazione e la lotta alle malattie già oggi
disponibili nei paesi sviluppati." Molti mezzi d'informazione ne hanno subito
approfittato per denunciare che Cuba apriva sul tema degli ogm, estrapolando una
sola frase e ignorando queste altre affermazioni: "Le conoscenze per produrre
alimenti che salveranno la vita di milioni di esseri umani non dovrebbero mai essere
considerati una merce. I paesi sviluppati, padroni di nove brevetti su dieci devono
rinunciare al loro dominio monopolistico della conoscenza, devono trasferire gratuitamente
tali tecnologie ai produttori dei paesi sottosviluppati." Insomma con la scienza, non
con la Monsanto.
Ma la singolarità di Cuba ha corso sempre rischi di essere strumentalizzata e così
l'elogio di Fidel Castro al sistema italiano basato, da mezzo secolo, sulle piccole e
medie aziende che spesso hanno salvato il nostro paese dai grandi insuccessi della
macroeconomia, può diventare in un titolo del Corriere della Sera un elogio alla
politica di Berlusconi "che sa difendere l'Italia dalla crisi". Grottesco. Per
questo il giovane ministro ha tenuto a dire qualcosa anche sull'Europa: «Come cittadino
dell'America latina e del sud del mondo mi rammarico per la mancanza d'indipendenza che
spesso traspare dall'esitazione dell'Unione europea. Avete un sistema capitalista, ma
anche valori morali, e una tradizione nella tutela dei diritti fondamentali delle persone,
nel ruolo che lo stato deve avere per garantire la sicurezza sociale di tutti i cittadini.
Così molti paesi che penano da tempo aspettano che l'Unione europea dia una prova
d'indipendenza ed esprima una posizione diversa da quella che sta allontanando gli Stati
uniti dal resto del mondo. Ma notiamo con amarezza che l'Europa segue spesse le decisioni
del governo di Washington come il vagone di coda di un treno, appoggiando decisioni
ingiuste, guerre senza spiegazioni, dogmi o dottrine imbarazzanti come quella della
"guerra continua". Mi rincresce per l'Europa, per il ruolo che ha e che dovrebbe
giocare nel mondo». Ho ricordato che l'Europa aveva respinto il Plan Colombia, la
strategia ideata dagli Stati uniti per controllare non tanto il narcotraffico ma le
risorse petrolifere e il patrimonio biogenetico della Colombia ma anche della Bolivia,
dell'Ecuador e del Perù. Quel piano era stato rifiutato perché giudicato dalla Ue
"troppo militare". Felipe Perez Roque mi ha guardato ironico: «E contro il
progetto Alca (l'Alleanza per il libero commercio dell'Americhe), che significherebbe una
virtuale annessione dell'America latina agli Stati uniti, cosa farete?». Ho insistito
allora sul fatto che i pregiudizi verso Cuba spesso sono basati sull'incapacità della revolución
di uscire dalla sindrome dell'assedio e di perseguire, talvolta, chi nemico non è: «Non
potreste, una volta per tutte, risolvere questo problema dei dissidenti che voi chiamate
controrivoluzionari, un problema che spesso spiega molta sfiducia nei vostri confronti?».
Il giovane Felipe non ha dubbi: «Se gli Stati uniti rinunciassero all'idea di sovvertire
lo stato cubano, l'ordinamento politico che ci siamo dati, il diritto di scegliere da soli
il nostro destino, forse saremmo capaci di aprirci. Ci sentiamo orgogliosi del paese cha
abbiamo costruito, ma non è ancora quello che vogliamo. Sogniamo infatti un paese più
giusto, più tollerante, con più opportunità per tutti. Ma quello che abbiamo costruito,
non dimenticatelo, lo abbiamo fatto malgrado l'assedio che subiamo da quarant'anni,
malgrado l'embargo, malgrado la guerra sporca. Il giorno che saremo liberi di poter
costruire una società senza paura, edificheremo un paese con più opportunità per tutti.
Oggi facciamo grandi sforzi, in questa situazione di crisi economica internazionale, ma
non abbiamo ancora raggiunto quello che vorremmo. Il principale insoddisfatto è proprio
Fidel».
g.mina@giannimina.it
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