Non
hanno intenzione di starti dietro se non è veramente interessante quello
che fai, questa è una delle cose più importanti che abbiamo imparato lavorando
con i bambini rom. Sono persone dirette, fluide, che stanno al gioco se
il gioco li attrae, ma sono anche pronte a comunicarti, se accade, che
stai seguendo un progetto che è solo nella tua testa. Sono un specchio
dei tuoi errori e misurano la tua concentrazione. Questo avviene spesso
con i bambini, ma i rom, con meno sovrastrutture ed inibizioni a far da
freno, amplificano questo aspetto terapeutico per l'educatore. Il nostro
lavoro è del tutto gratuito. L'elemento della scelta consapevole è sempre
stato molto forte. Questo ci ha spinto continuamente a ricercare un senso
in quello che facevamo e a trovare soluzioni sempre nuove che ci permettessero
di portare avanti il lavoro in maniera soddisfacente. L'altra faccia della
medaglia è stato il dover fare i conti con la loro abitudine a 'conquistare'
le persone per ottenere qualcosa. Di solito è quello che fanno per avere
i soldi quando chiedono l'elemosina, ma è anche il modo talvolta con cui
si rivolgono a te per convincerti a fare qualcosa per loro: ti adulano,
ti fanno sentire importante e tu non riesci a dire di no e a staccarti
da loro. Anche questa è una tecnica terapeutica: chi non si sente amato,
soffre di carenze affettive, dopo una giornata al campo si sentirà sicuramente
meglio. In realtà lasciarsi andare a simili effusioni è molto rischioso,
immediatamente i bambini capiscono che ti hanno preso nel sacco e sei
completamente nelle loro mani. Condurli verso un percorso di lavoro diventa
così molto difficile, e l'attività insieme rischia di trasformarsi in
un rincorrersi senza tregua. In più fortifica in loro l'idea che questa
modalità ammaliatrice sia vincente, facendoli sentire sempre più dei piccoli
seduttori e non delle persone valide con le quali lavorare con profitto,
ricchi di cose da dare ed esprimere. E' un meccanismo pericoloso che accresce
il distacco e la sfiducia nel fatto che con l'altro, il gagè, si possa
comunicare, dialogare, che lo si possa sentire vicino e complice e non
solo 'animale da catturare'. L'attenzione all'elemento 'carità' è un punto
centrale nella nostra relazione con i bambini del campo. E' il loro lavoro
quindi non è possibile ignorarlo. E' una chiave di accesso alla comprensione
del rapporto che hanno con l'esterno: o si sta al campo con gli altri
rom, a volte nemici, ma comunque complici, oppure si sta fuori interpretando
il ruolo del poveraccio da aiutare. Girare la città, frequentare luoghi,
conoscere persone senza dover necessariamente 'lavorare' è stato uno dei
primi obiettivi da raggiungere e continua ad essere un elemento guida
di ogni nostra attività . E' stato il motivo per cui da una baracca-gioco
nel campo dove si facevano i primi laboratori ci siamo spostati fuori.
Fuori dal campo significa nella città: nei parchi, nei cinema, per le
strade; significa comunicare da pari con gli altri, esprimere la propria
opinione. Un esempio forte di questo tipo di comunicazione è "Mucca Pazza",
il giornale fatto nel corso di un ciclo laboratoriale. I bambini hanno
espresso la loro opinione su un argomento molto vicino alle loro vite,
su cui hanno poi intervistato i passanti per strada. Rivolgersi ad una
persona per chiedergli cosa pensa del fatto che i bambini che chiedono
l'elemosina vengono presi dalla polizia e portati negli istituti, pretendendo
una risposta ragionevole, anziché chiedere "dai qualcosa, Dio ti benedica!"
è stato un passaggio forte ma nello stesso tempo naturale; è stato il
risultato di un lungo periodo di lavoro rivolto al contatto con l'esterno.
I bambini hanno avuto lo spazio per esprimere un'esigenza e lo hanno fatto.
Un altro aspetto che ha forgiato il nostro lavoro è il senso che i bambini
rom (come i loro genitori) danno al tempo e alla sua organizzazione. Sembra
che le giornate siano vissute un po' come capita, aspettando e seguendo
gli accadimenti. Difficile è pensare cosa si farà domani o dopodomani;
i primi tempi sembrava addirittura impossibile capire cosa fossero 'domani'
o 'dopodomani', mercoledì, giovedì. Nonostante avessimo preso un appuntamento
a volte non trovavamo nessun bambino, altre volte inaspettatamente l'orda
ci assaliva. Ci siamo così abituati a non essere rigidi nei progetti,
a definire le linee del lavoro ma a modificarle con i bambini, ci siamo
abituati ad essere elastici e a non pretendere risultati immediati, a
sforzarci comunque per tirar fuori il meglio dalla situazione così come
si presentava in quel dato momento con quei bambini. Ci siamo sforzati
a cercare percorsi di attività che non dovessero necessariamente essere
proseguiti dagli stessi bambini in ogni incontro; ogni laboratorio doveva
essere un tutto finito ma anche il pezzo di un puzzle più grande. Con
il tempo le cose sono andate sistematizzandosi. Da un lato noi abbiamo
sentito l'esigenza di strutturare meglio i tempi e la divisione per gruppi
d'età. Dall'altro i bambini, hanno "contratto l'abitudine", miracolosamente:
venerdì era diventato venerdì e guai a mancare! I due gruppi di bambini
sono andati definendosi e, salvo assenze sporadiche e qualche presenza
più saltuaria, i membri-capisaldo non mancavano mai. Altro obiettivo del
percorso di crescita di questi anni è stato il lavoro sulle dinamiche
relazionali interne al gruppo di bambini. Una delle difficoltà che emergeva
inizialmente, specchio dei rapporti esistenti tra gli adulti del campo,
era la tendenza a vivere l'esperienza 'laboratorio' individualmente: ognuno
cercava di accaparrarsi di più, maggiori attenzioni, più pennarelli, più
spazio a danno degli altri, con gli immancabili litigi senza fine e il
ricorso alle mani. Rotto ogni equilibrio della giornata laboratoriale
ci trovavamo così costretti ad abbandonare i nostri bravi propositi costruttivi
e a dedicare tutte le nostre energie alla risoluzione di diatribe varie.
L'unico antidoto trovato è stato uno sforzo costante rivolto a chiarire,
nei fatti, che la relazione nel tempo laboratoriale è soprattutto condivisione,
confronto e collaborazione in un qualcosa da fare insieme. Si è parlato
dell'uscita dal campo, dell'importanza che ha avuto questo tema nel nostro
lavoro, quello che però è importante sottolineare è che il processo di
uscita non è stato sollecitato artificiosamente da noi a fronte di una
resistenza dei bambini; è nato come risposta ad un'esistenza sentita.
Nell'ultimo "incontro di redazione" di Mucca Pazza, dove abbiamo invitato
i bambini a descrivere cosa era cambiato nella loro vita con il passaggio
nel nuovo campo autorizzato dislocato molto lontano dal centro abitato,
è emerso chiaramente che soprattutto quelli più grandi (7-10 anni) quando
abitavano nel campo vecchio frequentavano regolarmente pizzerie, McDonald's
e altri luoghi di ritrovo per 'normali', riuscendo a raggiungerli facilmente
con gli autobus o con la metropolitana. Quello che è evidente è che un
bambino rom di 10-12 anni, molto più autonomo di un suo coetaneo italiano,
è ormai a buon punto nella strutturazione della sua personalità di adulto.
Nel vecchio campo era riuscito a fatica ad abbattere molti muri che gli
impedivano di vivere in una città respingente, semplicemente prendendo
un autobus e raggiungendo la pizzeria del centro. Con gli interventi istituzionali
imposti, barattati con il sogno di un luogo sicuro dove poter utilizzare
l'acqua, la corrente e i servizi igienici, quel percorso di formazione
viene deviato. Lo spostamento non è stato solo un allontanamento dai luoghi
familiari ai bambini e dalla città in genere, è stato il trauma di un
insediamento dove nessun tipo di relazione autonoma è più possibile se
non con gli stessi zingari, non essendoci altri abitanti nella zona. La
scuola con i suoi "progetti di sostegno per i rom" non può ovviare all'impossibilità
per i bambini di incontrarsi con i loro coetanei semplicemente per giocare
a pallone. Le scelte politiche istituzionali schizofreniche degli ultimi
anni, con pomposi "Progetti di integrazione" che accompagnano la realizzazione
di insediamenti-ghetto, hanno creato grosso disorientamento nei bambini
che conosciamo acuti e intelligenti. In alcuni consolidando la sfiducia
nell'altro, l'italiano, il gagé (leggi dispersione scolastica), in altri
provocando l'asservimento, la sottomissione alle scelte di chi decide
dove devo vivere, se devo lavorare, cosa devo fare dopo la scuola, annullando
così ogni capacità propositiva e creativa.
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