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Questo testo è stato scritto a partire dalla riflessione sull'esperienza di un gruppo di volontari in un campo zingari.

Non amava altro luogo,
ma Casa non era casa per lui.
(Samuel Taylor Coleridge, Le tre tombe)

INDICE

Crescere in un campo ***

Il lavoro minorile ***

Nella nostra scuola ***

La retorica dell'intercultura ***

In conclusione ***

NOTE
1) Pier Paolo Pasolini,
Lettere luterane, Einaudi, 1976
2) Colin Ward,
Il bambino e la città, L'ancora del mediterraneo, 2000
3) Michael Loke, Moira Constable,
The Kids don't Notice, un rapporto Shelter sugli effetti sui bambibi di una cattiva condizione abitativa, Londra Shelter, 1974.
4) Grazia Fresco,
Anni magici al nido?, "La terra vista dalla luna", n. 1, febbraio 1995.
5) Paul Goodman,
La gioventù assurda, Einaudi, 1964.
6) Pier Paolo Pasolini,
Lettere luterane, Einaudi 1976.

"Ci dispiace per i bambini"
di Cecilia Bartoli e Marco Carsetti

Quando si parla di zingari si parla di comunità estremamente diverse fra loro, diverse anche per come stabiliscono relazioni con il "mondo circostante". Consideriamo le facili generalizzazioni, utilizzate per far fronte a questioni complesse, uno dei problemi fondamentali nel rapporto con queste persone e ne valutiamo ogni giorno gli effetti deleteri. Nelle nostre osservazioni facciamo riferimento agli zingari che abbiamo conosciuto, non ci sembra importante definirne l'etnia e la provenienza.
Di bambini zingari ne muoiono un discreto numero all'anno. Non per malnutrizione, ma a causa di specifiche condizioni abitative e igienico sanitarie. Muoiono a causa di incidenti, incendi e freddo. I dati di quanti se ne ammalano anche gravemente non vengono mai resi pubblici. Il sentimento comune che emerge anche di fronte a queste tragedie è la colpevolizzazione dei genitori, quasi fosse la morte dei propri figli un rischio calcolato e accettato nel loro stile di vita. I genitori zingari sono "irresponsabili e cattivi" perché continuano a generare figli persino nelle condizioni in cui vivono: "questi zingari la contraccezione proprio non la vogliono imparare!" A scuola un'insegnante di sinistra parlava con naturalezza di sterilizzazione delle donne zingare che "fanno figli come conigli".
Il pregiudizio razziale fa sì che la reazione a queste morti sia sempre quella di togliere i figli alle proprie madri. Di bambini nei campi zingari ne nascono di continuo e pochi sanno con quanta gioia vengono accolti i nuovi nati, qualsiasi sia la condizione in cui arrivano. I primi mesi di vita sono pieni di cura e attenzione, della presenza e della vicinanza della madre che li allatta a lungo al seno e li tiene sempre con sé. Le istituzioni si domandano di continuo che cosa fare con i bambini zingari perché sono un problema che se ne va a spasso per la città: magari sporchi e puzzolenti, vendendo le rose o facendo l'elemosina dietro o in braccio alla madre, magari rubacchiando nei negozi, magari prendendo in giro i passanti o vociando o toccando un po' troppo.
I bambini zingari appaiono e non solo a una prima impressione: abbrutiti, indisciplinati, pervertiti, esigenti, arroganti e presuntuosi, sporchi e trascurati spesso in maniera inaccettabile. I bambini zingari menano, sputano, ricattano, toccano, fanno gruppo per conto loro, imbrogliano, sono volgari e fanno i dispetti. Sono allegri zingarelli! Per questi bambini ci dispiace così tanto che prima di tutto è convinzione molto diffusa che sarebbe proprio meglio che non nascessero.

Crescere in un campo
"L'educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica, in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale, rende quel ragazzo corporeamente quel che è e che sarà per tutta la vita. Ad essere educata è la sua carne come forma del suo spirito. La condizione sociale si riconosce nella carne di un individuo, perché egli è stato fisicamente plasmato dall'educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo." 1) Che siano baracche, container, moduli abitativi o roulotte, che siano attrezzati oppure no, i campi zingari sono essenzialmente dei ghetti. Molti "campi sosta" di comunità ormai stanziali da decenni sono fatti di baracche e tutt'intorno è immondizia, terra, polvere e fango, topi, scarafaggi e cavi dell'elettricità sospesi pericolosamente da una baracca all'altra; in questi casi mancano del tutto acqua e servizi igienici. L'acqua di solito è fornita da un'unica fontanella o dalle autocisterne del Comune, i bagni, quando ci sono, sono quelli chimici, il gas è quello delle bombole, le baracche sono riscaldate da stufe a legna. Ma forse ciò che più caratterizza il campo zingari è la sua collocazione nella città. Si trovano in periferia, spesso dove l'urbanizzazione ha lasciato vuoti inutilizzati o inutilizzabili: vicino a discariche abusive, ai crocevia delle tangenziali o dei raccordi autostradali, sotto i cavalcavia. Spesso in zone non raggiungibili con i servizi pubblici.
Che cosa significa per i bambini nascere e crescere in queste condizioni oltre a rischiare quotidianamente la vita e la salute? Crescere in un campo vuol dire crescere nella ristrettezza degli spazi interni e nella pericolosità di quelli esterni. Un bambino piccolo prima di assimilare i modelli e i ritmi di vita degli adulti, prima cioè di conquistare la propria autonomia, passa il proprio tempo sul letto o davanti alla televisione. In baracca non c'è spazio per muoversi, un unico ambiente è organizzato per la sopravvivenza di un intero nucleo familiare. Quindici metri quadrati sono condivisi da adulti, figli adolescenti, bambini e neonati. L'ambiente si restringe allora in tale misura che lo spazio vitale per la crescita è insufficiente per tutti. La ristrettezza della baracca significa per un bambino piccolo non avere spazi alla sua "misura" e stimoli alla sua portata, così come significa per i bambini di poco più grandi non avere spazi propri, tempi propri, oggetti personali ecc. ecc.. La crescita in baracca è confusiva, caotica e simbiotica, dove non c'è alcuna possibilità di costruirsi un'intimità armonica con se stessi e con gli altri.
"La richiesta di una privacy personale e il senso di isolamento sociale non sono fenomeni opposti nell'esperienza del 'bambino di città'. Un bambino cui viene negato un luogo privato e personale è probabile che sia anche un bambino socialmente isolato" (2). Sappiamo dagli studi sull'apprendimento che molte delle difficoltà che frequentemente i bambini zingari incontrano nella scuola fin dai primi anni - l'orientamento nello spazio, l'acquisizione della successione temporale, la strutturazione dello schema corporeo, e in seguito la dislessia, la capacità di simbolizzazione, di pensare in astratto, di "tollerare" tempi e regole di un gruppo classe ecc. - hanno origine nelle condizioni abitative della loro crescita. "I bambini non ci badano'. Che vuoi che sia un po' di sporcizia per i bambini? O un pavimento sbrecciato? O delle macchie di umido sulle pareti? O dividere un letto con fratelli e sorelle? O non avere un posto dove andare a lavarsi? I bambini non paiono mai così felici come quando sono in mezzo a un po' di disordine. Sono o non sono adattabili? Affrontano volentieri un trasloco in una nuova casa? La gente ripete continuamente quanto i bambini abbiano capacità di ripresa. 'I bambini non ci badano'. Hanno immense doti di sopravvivenza. Ma invece i bambini ci badano eccome."(3)
Non appena un bambino zingaro raggiunge la propria autonomia (intorno ai sei sette anni), vive quasi esclusivamente gli spazi esterni in continuo contatto con tutti e con tutto. Il campo, la strada, il quartiere sono la sua palestra e la sua scuola. Ciò comporta apprendimenti straordinari come la capacità di risolvere problemi, di riconoscere le persone, coraggio, spericolatezza e agilità. Queste privazioni della crescita in baracca e queste capacità acquisite successivamente difficilmente vengono riconosciute dalla scuola. Da questo mancato riconoscimento viene meno per i bambini la possibilità di stabilire durante la crescita gli equilibri necessari al rapporto paritario con altri ambiti sociali.
Tutti i bambini riflettono con la trasparenza che gli è propria la realtà in cui vivono e sono cresciuti, la esprimono con il loro comportamento. La clandestinità, la precarietà, lo stato di bisogno, l'emergenza, non trova che la possibilità di una vita fatta di espedienti, giorno per giorno: vendita di fiori e oggetti, elemosina, raccolta di materiali da riciclo, ricettazione furti spaccio e così via. La pressione sotto la quale vivono gli adulti si trasferisce immediatamente sui bambini. La percezione della condizione svantaggiata della loro famiglia e dello stato di allarme continuo è appresa molto presto. I genitori possono essere costretti a ripetute e spesso lunghe assenze dovute a lavori stagionali, espulsioni, carcere, fermo polizia per accertamenti, ecc. ecc.. Così i bambini si ritrovano da subito ad essere responsabilizzati all'interno della famiglia per la sopravvivenza: dalla cura della casa a quella per i fratelli più piccoli, al lavoro. A tutto questo si aggiunge il dovere di integrarsi in una realtà così differente e distante come è la nostra scuola.
"Vattene via, non ci venire più a casa mia, non ti voglio vedere!" Violetta la mattina mi tira le scarpe dalla porta: "te lo giuro su mia madre che quando divento grande io me la bevo la droga, te lo giuro! La mattina mi svegli per la scuola che mia madre mi mena se non vado, torno a casa e devo pulire la baracca, quando è il pomeriggio vado per le rose fino a notte tardi, basta, vattene via, a casa mia io non ti voglio!" Violetta ha 8 anni, è magrissima e ha gli occhi velocissimi, nel dirmi queste cose urla. Il padre e la madre sono arrivati in Italia trent'anni fa. Per un irregolare sequestro dei loro documenti da parte della polizia nessuno ha il permesso di soggiorno. In famiglia ci sono cinque figli, il padre dopo la morte del maggiore con il quale lavorava il ferro e il rame diventa alcolizzato, la figlia maggiore sedicenne è tossicodipendente e ha un figlio di due anni che vive con loro, il figlio di dodici anni passa la giornata davanti ai videopoker. Violetta con sua sorella di sette anni, suo fratello di undici e con la madre mantengono la famiglia: vanno a lavorare, fanno la spesa, cucinano, lavano i panni a mano, puliscono la baracca. Violetta è molto veloce, non si ferma sulle cose, ma le coglie immediatamente, sa reperire risorse qua e là, comprende subito se una persona può esserle utile in qualche modo, non si fida di nessuno, sputa, insulta, picchia, abbraccia fino a soffocare, si fa tenere in braccio, vuole occhi solo per lei. Violetta è anche la trasgressione continua, la tachicardia e l'asma bronchiale, la dislessia e a scuola è l'iper motilità e il comportamento inaccettabile.
Un bambino cresce immerso nel mondo degli adulti, in una famiglia allargata, in quel mondo che fino a non molti anni fa era fatto anche per noi non solo dei nostri diretti genitori, ma anche dei nonni, dei cugini, degli zii, della vicinanza dei fratelli e di tutta l'umanità del vicinato che creava quella vita condivisa tra tutte le età. Molto della vita di queste persone è fatta di come sopravvivere. Oltre a essere il risultato di una condanna sociale e culturale vivere nel ghetto di un campo diventa anche l'unico modo di sopravvivere e di fare i conti con l'esterno. È proprio nel ghetto che la comunità, le famiglie allargate sono allo stesso tempo una risorsa imprescindibile e poi un qualcosa a cui si deve sopravvivere. Come per ogni comunità ristretta e coesa, caotica e frenetica anche qui ci sono le etichette insopportabili, sentimenti di rifiuto e di appartenenza, ruoli precisi assunti o assegnati, una coesistenza forzata e allo stesso tempo indispensabile. Gli odi fra le famiglie possono essere fortissimi, stratificati negli anni, ma c'è anche una forte condivisione, c'è ironia e c'è il sostegno dei parenti. Al campo l'acqua non esce dai rubinetti ma da un'unica fontanella. In questo punto a qualsiasi ora del giorno vengono e vanno uomini donne e bambini a bere, a fare rifornimento, a lavare le stoviglie, a lavarsi i denti e la faccia, a lavare i tappeti e i panni nelle bacinelle. Intorno alle baracche si accumula la roba vecchia, il necessario che non entra nella baracca, i resti del cibo, piatti e pentole sporchi, vestiti e scarpe.
Lo spazio esterno alla baracca è però anche il luogo dove si cucina quando è bel tempo, dove si mangia, si sbrigano le faccende di casa, ci si incontra e si chiacchiera, si allattano i bambini, si accolgono gli ospiti. Alcune baracche vengono attrezzate come bar o empori dove si ritrovano gli adulti. Al campo c'è un gruppo di bambini di tutte le età che trova in se stesso il gioco, la trasgressione, l'evasione e il divertimento, che ha molti animali da allevare e con cui giocare, che inventa giochi e giocattoli, che è curioso e avventuroso nelle sue escursioni nel campo e nel quartiere.
Frigoriferi, stufe, materassi, reti, carcasse di macchine, e via dicendo, è tutto materiale reinventato dai bambini per i loro giochi. Gli animali hanno un posto importante nei giochi e nella vita dei bambini. Spesso cuccioli di cane accompagnano i bambini a vendere le rose o durante l'elemosina. Per i bambini andare con i propri genitori a comprare il maiale o la pecora per la festa è un momento di gioia. Quando un gatto o un cane muore lo si seppellisce e questo rituale può durare per giorni; nessuno di loro perde mai l'occasione di portare uno "straniero" a far visita all'animale morto.
Quando guardiamo questi bambini non possiamo sottovalutare quanto la baracca, il campo, lo spazio fisico della loro crescita gli appartenga visceralmente. Nell'adolescenza questo rapporto si trasforma in rifiuto, insopportabilità e frustrazione. Nell'infanzia questi spazi sono imprescindibili e insostituibili, esattamente come per ogni bambino la propria casa e la propria famiglia. Noi pensiamo alla baracca come un luogo malsano e pericoloso, lo pensiamo perché lo è veramente. La baracca è però anche il luogo che risponde al bisogno di identificazione, protezione e intimità, è la loro unica casa a tutti gli effetti. Quando piove il campo diventa pressoché impraticabile tra fango e rifiuti trasportati dai rivoli di acqua piovana, ma di queste giornate di pioggia i bambini ci raccontano del piacere di stare sotto le coperte ad ascoltare la pioggia battente sul sottile tetto della baracca. Quando abbiamo portato per una settimana i bambini del campo a un soggiorno estivo in Abruzzo, quello che più è stato difficile affrontare con loro è stato proprio il distacco dalla famiglia e dal campo. "Voglio andare a casa", tutti i bambini le prime volte che si allontanano anche per un breve periodo accompagnati da operatori sconosciuti o non, almeno le prime notti, si sentono sperduti e cercano la mamma. I bambini italiani dicono di volere tornare a casa identificando la casa con la mamma. Per i bambini zingari invece la casa significa una dimensione molto più complessa. Ci aspettavamo che avrebbero vissuto con estremo piacere la possibilità di avere un letto tutto per sé, e invece fin dalla prima notte tutte le bambine tra gli otto e i dieci anni hanno chiamato nel loro letto le bambine più piccole per dormirci insieme. Solo così era possibile per loro sentirsi meno sole e addormentarsi. Alla colonia precedente la nostra altri bambini un po' più grandicelli tra gli undici e i tredici anni, provenienti da un altro campo di Roma, hanno dormito l'intera settimana nel pulmino che li aveva accompagnati invece che all'ostello.
Subito si penserà che questi comportamenti ci sono in quanto appartenenti alla cultura zingara, ovvero nomade. Gli zingari che vivono in Italia, almeno la maggior parte non sono più nomadi, e dai racconti di quelli che abbiamo conosciuto non lo erano neppure in ex-Jugoslavia, dove erano proprietari di case. Ad essere nati e cresciuti in baracche, roulotte e container non sono i genitori ma questi bambini, in alcuni campi di Roma anche alla seconda generazione. Quindi non possiamo parlare di cultura nomade, ma di una specifica condizione determinatasi con l'emigrazione in Italia. Forse può essere interessante sapere che molti degli zingari che abbiamo conosciuto, arrivati in Italia circa trent'anni fa, hanno trascorso i primi anni a Roma nelle baraccopoli abitate da tanti altri immigrati, a quel tempo dal sud Italia. Quegli stessi nuclei familiari nelle baracche continuano a viverci e i bambini a nascerci. Questo per dire che i bambini che abbiamo conosciuto sono nati e cresciuti in condizioni rese specifiche più che da un'appartenenza culturale da una condizione sociale. Il legame viscerale con il campo-ghetto rappresenta un'appartenenza resa ancora più forte e difficile da superare perché prima che dato culturale significa sopravvivenza, significa protezione della propria identità personale di fronte un mondo esterno stigmatizzante e per nulla accogliente. Questo è vero prima di tutto per i bambini che nella realtà fisica del campo trovano la possibilità di acquietare quello che scaturisce dal confronto difficilissimo tra loro e il mondo circostante. I bambini non chiedevano della mamma, ma chiedevano di essere riportati dove la loro identità si potesse sentire libera, a proprio agio, con un ruolo e un significato: la casa, la famiglia, ma anche il lavoro, l'aiuto alla madre, la cura dei fratellini più piccoli.

Il lavoro minorile
Il lavoro minorile ci indigna. Molti dei nostri genitori ricorderanno di aver condiviso con la loro famiglia il lavoro, da quello domestico a quello per il mantenimento della famiglia stessa. Ma l'opinione diffusa è che gli zingari non lavorano con i loro bambini, bensì li sfruttano.
I bambini hanno un ruolo all'interno della famiglia e sono coinvolti fin da piccoli nella sussistenza. Poiché la vita della famiglia è quella di doversi giorno per giorno arrangiare, i bambini condividono il tempo e le attività dei loro genitori, com'è inevitabile che sia.
La vita in una baracca comporta molte ore di lavoro al giorno: mantenere la pulizia in mezzo al fango non è facile, non è facile pulire i panni e le stoviglie in un'unica fontanella per un'intera comunità, d'estate e d'inverno, senza uno spazio per asciugare, la legna per la stufa va procurata giorno per giorno ecc. ecc.. Per forza di cose i bambini sono coinvolti in tutto questo, così come nella cura dei fratellini più piccoli, nel fare l'elemosina o nel vendere oggetti e fiori. Di per sé tutto questo non ha nulla di traumatico, viene accettato con la naturalezza con cui i bambini seguono la vita che viene loro offerta. Anzi, poiché hanno molto chiaro lo stato di bisogno perpetuo della loro famiglia, è anche molto importante per loro avere un ruolo, sentirsi utili, e spesso anche condividere qualcosa di avventuroso con i fratelli più grandi e i genitori. Andare a lavorare significa anche scoprire la città e le persone, osservarle, prenderle in giro, conoscerle e spesso diventarci amici. Il giudizio che questo sia vergogna glielo abbiamo insegnato noi, specialmente nelle nostre attente agenzie educative: scuole e parrocchie.
Come facilmente può accadere in queste condizioni di vita, se la famiglia va a rotoli i bambini si possono trovare sovraccaricati di responsabilità più grandi di loro e parallelamente costretti a condurre una vita "normale" da "bravi bambini integrati nella scuola al pari di tutti gli altri". I due contesti, la famiglia e la scuola, diventano entrambi opprimenti in maniera insopportabile, soprattutto perché nella loro contraddittorietà creano pressioni emotive "pericolose" per la crescita. La stanchezza fisica può diventare pericolosamente troppa in condizioni abitative che non concedono di certo il riposo e la cura della salute. L'equilibrio di un bambino che lavora è molto delicato, molti dei loro racconti sono di orgoglio e soddisfazione per un dovere compiuto e per i privilegi che il reddito concede, ben consapevoli di non avere altra scelta.
I bambini rispondono con il loro lavoro alla loro condizione di bisogno, ma qual è il prezzo che pagano? E come rispondono gli adulti a questo? Goran ha sei anni, la sera va a vendere le rose con il fratello più grande e con il cagnolino di sei mesi, nel centro di Roma. Il giro di ristoranti e bar è lo stesso che ha visto crescere il fratello ora adolescente. La famiglia vive del loro lavoro e di quello della madre con i fratelli piccoli davanti alle chiese. Il modo di fare di Goran è irresistibile, la sua simpatia e dolcezza gli hanno procurato molta amicizia da parte dei gestori dei locali dove va a vendere le rose. Il giorno del suo compleanno in uno di questi ristoranti lo hanno festeggiato preparandogli una torta. Goran è molto orgoglioso di avere i suoi soldi per comprare la merenda per la scuola a lui e ai suoi fratelli. Il lavoro comincia tutti i giorni dopo l'ora di cena e finisce intorno a mezzanotte. La mattina a scuola è stanco e per non scrivere usa tutta la simpatia di cui è capace.
La scelta di far lavorare i bambini piccoli per una famiglia zingara può essere l'unico modo per preservarsi onesta. Quando si è posto il problema ai genitori di Goran riguardo la sua stanchezza la risposta è stata proprio questa, anche se data con profondo dispiacere. Quando si è chiesto alla scuola di poter anticipare all'una l'uscita di Goran, iscritto al tempo pieno, per consentirgli maggior riposo e svago, la scuola ha risposto che il proprio programma didattico è svolto nell'arco di tutte le ore previste. Intanto Goran alla fine della prima elementare non scrive ancora il suo nome. La scuola nel momento in cui deve riempirci di retorica sui diritti dei bambini s'indigna contro il lavoro minorile dei bambini vietnamiti che confezionano le Nike, se però il problema riguarda i propri alunni, la marginalizzazione persistente delle loro famiglie, le loro condizioni di vita davvero difficili, quello che la scuola fa è ribadire le proprie regole, i propri orari, i propri confini, è proprio il caso di dire i propri limiti. Il lavoro minorile è incompatibile con la scuola e non si accetta, e i colpevoli sono un'altra volta i genitori. La scuola è un obbligo che non si misura con la realtà, dimenticandosi dei bambini e delle loro famiglie.
Alcune famiglie, per non mandare i figli a lavorare, scelgono il furto, lo spaccio, la ricettazione, alcune donne si prostituiscono. Nell'uno e nell'altro caso chi può dire cosa sia meglio per i bambini? In entrambi i casi sembra difficile parlare di scelta.

Nella nostra scuola
Nessun bambino è più perfetto
di quando sta zitto come una tomba.

(Blake Morrison, Come se)

Betta ha quattro anni. Il suo inserimento alla scuola materna, voluto dai genitori, è stato molto difficile. Ne era letteralmente terrorizzata e la sua maestra non era da meno, al punto di rifiutarsi di sbottonarle la giacca per lo schifo. L'ho accompagnata per giorni cercando di stare con lei il più possibile, le ho parlato molto: "la scuola non è poi tanto male, ci sono tanti giochi, tanti amichetti". Lei dopo un po' si è lasciata convincere e non ha più detto nulla. Molti giorni dopo sono al campo e lei insiste tirandomi per la giacca, "vieni, vieni, devi venire!", così alla fine la seguo fra le baracche, lei si guarda intorno, cercando un posto appartato che non c'è. Finalmente lo trova sugli scalini di un portone fuori dal campo: "la scuola è molto brutta e i bambini italiani sono molto cattivi, la maestra urla e mi fa stare sempre seduta su quella seggiola, tutti dicono che c'ho i pidocchi che non è vero perché mia mamma me li ha tolti tutti, perché mi ci hai portato?" Per la scolarizzazione dei bambini i Comuni investono ingenti somme di denaro. È l'unico intervento pianificato delle istituzioni per le minoranze zingare. Il comune di Roma stanzia per un triennio di scolarizzazione circa sei miliardi, gestiti dalle organizzazioni del terzo settore. A Roma i progetti di scolarizzazione per gli zingari ci sono già da circa un decennio.
Agli zingari la scuola è stata presentata come una minaccia: la legge dice che mandare i figli a scuola è condizione indispensabile per sostare nei campi. Per i genitori che non mandano i figli a scuola partono le diffide di vigili e carabinieri, fino al tribunale dei minori, la pena sono sostanziose multe. Il mandato attribuito dalle istituzioni alle agenzie del terzo settore che hanno vinto i bandi per la scolarizzazione è soprattutto quello della mediazione: "sensibilizzare le famiglie zingare al valore della scuola" e supportarle nel rapporto con questa. Come dire: mediatori di una minaccia istituzionale. I termini con cui si determina tale mediazione è il ricatto dell'aiuto.
Le strutture di terzo settore competenti per la scolarizzazione hanno assunto e da parte delle istituzioni e anche da parte delle comunità zingare la delega su tutto ciò che riguarda il loro "stato di bisogno". Gli operatori della scolarizzazione sono le figure istituzionali più importanti e più presenti all'interno di queste comunità. Gli zingari hanno imparato a rivolgersi a loro per tutto ciò che li riguarda: burocrazia, sanità, questioni legali per il soggiorno, mediazione dei propri bisogni, assistenza di base. La scolarizzazione, ma ancora di più la frequenza scolastica, diventa un vero e proprio ricatto per ricevere aiuto o più semplicemente per garantirsi la possibilità di esistere. Le mansioni ufficiali di un operatore per la scolarizzazione sono il trasporto e l'accompagno dei bambini a scuola, la mediazione e passaggio di comunicazione scuola famiglia, la medicina scolastica. Lo svolgersi di questo tipo di intervento negli anni ha prodotto visibilmente i suoi effetti: gli zingari sono sempre più separati dal resto del quartiere, non hanno nessun contatto con la scuola, spesso al di là del pronto soccorso non sanno proprio come muoversi tra le strutture sanitarie, non comprendono le istituzioni alle quali si potrebbero rivolgere, non parlano dei loro bisogni, non rivendicano i loro diritti. Questo genere di assistenzialismo ha decisamente contribuito all'isolamento psicologico e culturale in cui oggi vivono le comunità zingare. Dieci anni fa gli zingari accompagnavano i figli a scuola, le madri frequentavano le riunioni dei genitori e andavano a parlare con gli insegnanti, gli insegnanti andavano al campo e alcuni di loro partecipavano con le proprie classi alle feste zingare. Le maestre stesse, quelle rare che di mestiere fanno le maestre, lamentano di essere state private con i progetti di scolarizzazione della possibilità di svolgere appieno il loro lavoro, di comunicare con le famiglie. La maggioranza delle maestre è invece contenta di poter delegare a terzi problemi così spinosi, che credono non essere di loro competenza. Questa frattura, questa mediazione, permette alla scuola di deresponsabilizzarsi restando chiusa e autoreferente.
La scuola si permette la stessa ignoranza e lo stesso atteggiamento discriminante propri di tutta la società nei confronti degli zingari. La scuola è totalmente avulsa dal proprio contesto sociale, ma nello stesso tempo ne perpetua acriticamente gli stessi schemi discriminanti, passivizzanti e omologanti. La scuola si dice, è specchio della nostra società, ma di quale? La maestra mi viene incontro furibonda: "si può portare un bambino a scuola in queste condizioni?", lo tira per il braccio perché sia ben visibile a me e a tutti i suoi compagni, "poi parlano di integrazione, gli volete almeno lavare la faccia prima di portarli qui!" Nessuno stamattina gli ha potuto scaldare l'acqua per lavarsi, è gennaio, l'aria è così fredda che io porto ancora i guanti di lana alle nove di mattina. Dico all'insegnante che se ha qualcosa da dirmi, potrebbe farlo in privato. L'insegnante appare solo leggermente confusa: "ma lui lo sa, ormai è grande, è vero che lo sai come si deve venire a scuola? Lo sa che deve portare il grembiule, almeno copre tutto e via…".
Lo stato investe soldi per la scolarizzazione di questi bambini non curandosi delle condizioni estreme in cui vivono, non importa se rischiano ogni giorno la vita e la salute fra topi e scarafaggi, non importano le pressioni schizofreniche alle quali sono sottoposti, e non importa a nessuno se i nostri sistemi educativi radicano ben bene le "direttive" per la loro emarginazione e per la loro dipendenza. L'importante è sottrarli un po' all'irresponsabilità dei loro genitori che li costringono a vivere in quel modo. L'importante è inserirli, contarli, saperli omologabili e quindi presumerli salvi. La scuola italiana è fatta per bambini puliti e sani, di conseguenza il fatto che nella nostra società esistano bambini che non possono essere né puliti, né sani è una realtà inaccettabile e quindi una realtà negata. La scuola negando questa realtà non è in grado né di accettarla, né di contenerla. La scuola italiana è fatta per i bambini in grado di osservare determinate regole di comportamento, in grado di lunghi tempi di concentrazione, in grado di stare fermi per ore. Queste cose possono essere difficili per bambini abituati alla mobilità, allo stare all'aperto, assonnati e affaticati da altri numerosi impegni. La scuola italiana è fatta per i bambini in grado di capire e utilizzare simboli, di esprimersi con padronanza linguistica, di seguire i programmi didattici, ma i bambini zingari sono spesso dislessici in parte per come sono cresciuti, in parte perché possono parlare anche tre lingue. La loro capacità di simbolizzare e pensare in astratto è differente dalla nostra perché provengono da una cultura preminentemente orale e legata all'esperienza, il loro vocabolario italiano è povero a causa del bilinguismo. Sono bravi nella matematica perché questa la apprendono come utilità pratica, ovverosia contare i soldi. Questo ci scandalizza e invece ci dovrebbe far riflettere. La nostra scuola così esclusivamente nozionistica, che privilegia solo gli aspetti cognitivi e il pensiero astratto, dimostra il suo fallimento anche con i bambini italiani, sempre più demotivati e passivi.
Se ci ponessimo il problema di come avere una scuola più adeguata per i bambini zingari, probabilmente dovremmo porci anche il problema di come avere una scuola più adeguata per i bambini italiani, forse ci dovremmo chiedere se istruzione ed educazione sono proprio la stessa cosa, dovremmo ricominciare a chiederci chi è un insegnante, che cosa sono un rapporto educativo e un gruppo classe, cosa è utile imparare per stare nel mondo e come e dove lo si impara.
I bambini zingari ricevono fin dai primi anni di scuola messaggi svalutanti di ogni tipo: lo schifo per la loro persona fisica, l'inaccettabilità del loro comportamento, l'inferiorità delle loro possibilità di apprendimento, la svalutazione delle loro competenze, l'assistenzialismo per i loro bisogni e una tolleranza giudicante. Sappiamo (anche gli insegnanti dovrebbero saperlo) che il senso dell'identità è un delicato processo di costruzione sociale, l'immagine che noi abbiamo di noi stessi è fortemente condizionata da ciò che gli altri ci rimandano. Il giudizio di un adulto significativo, la posizione e il ruolo che ci attribuisce rispetto al contesto e al gruppo, hanno un peso determinante sull'idea che ci formiamo di noi stessi.
Tra loro i bambini sanno essere di una violenza spaventosa, nell'emarginare e nel giudicare, ma sanno anche difendersi, si restituiscono le offese, salvano la loro autostima, cercano alleati. Di fronte all'adulto invece le possibilità di difendersi sono ridotte e meno dirette. L'immagine inferiorizzata di loro stessi che i bambini zingari ricevono dalla scuola, fa sì che il desiderio di omologazione, di normalità sia fortissimo. Ci sono bambini che si fanno prendere da veri e propri attacchi isterici per non poter andare a scuola con i pantaloni o le scarpe pulite in un giorno di pioggia. Altrettanto colpisce l'enorme sfiducia che hanno in loro stessi, nelle loro possibilità di apprendere e di fare amicizie, il loro isolamento. I paradossi che psicologicamente si creano hanno poche vie d'uscita. Se la scuola è un luogo rifiutante non dovrebbe stupire che venga rifiutata con forza, se la scuola non offre che frustrazione non dovrebbero stupire il desiderio di trasgressione o un sano distacco nell'indifferenza, se la scuola tollera ma non si prende cura, non stupisce che risulti anche estremamente noiosa. Questo è vero per tutti, non solo per i bambini zingari.

I meccanismi dell'apprendimento non sono affatto scissi dalla sfera emotiva e sentimentale delle persone. La motivazione all'apprendimento, la gratificazione della conoscenza sono qualcosa di innato e naturale, se si assopiscono completamente è perché vengono resi estremamente sterili o perché i meccanismi di giudizio e di valutazione presenti nella scuola non consentono ai bambini di sentirsi all'altezza di poter accedere liberamente a un'esperienza, di potersi liberamente "misurare", in pratica di aver diritto di essere e di sbagliare. Molti studi, ricerche ed esperienze pedagogiche, sia che partano da prospettive più sociologiche, strettamente pedagogiche o psicologiche, esplorano e affermano la necessità di un rapporto fra adulto e bambino che possa essere nella sua asimmetria un rapporto alla pari, nella gestione del potere e nel diritto di espressione e partecipazione. È stata ampiamente sostenuta l'inefficacia di un rapporto educativo solo discendente, e sottolineato come fondamentale per l'apprendimento lo scambio all'interno di un gruppo. Ma di certe esperienze e di certi contenuti sembra anacronistico parlare. La scuola è solo e sempre frontale e discendente, l'attenzione alla relazione, che è l'origine di qualsiasi processo umano, anche dell'apprendimento, è assente nella scuola. Soprattutto se parliamo di relazione individuale e attenzione alla crescita dei singoli. L'insegnante ha un gruppo classe e un itinerario didattico da svolgere che è l'unica possibilità di partecipare al contesto e perciò chi non riesce, è automaticamente escluso. Il gruppo classe è come un'entità astratta, sulla quale incollare programmi altrettanto astratti. Ma "il bambino come astrazione non esiste. Esistono un bambino e una bambina, l'uno molto diverso dall'altra per età per sesso, per storia genetica e familiare, per epoca di nascita e modo di nascere, per salute più o meno salda, per accoglienza ricevuta o non fin dai primi istanti. Hanno tratti simili, ma sono preponderanti le differenze. Tutti hanno una grande capacità: sanno scegliere - persone, azioni, oggetti - che a loro convengono come ogni altro essere vivente. Li distingue il forte istinto ad agire in prima persona, insieme alla capacità di autocorreggere i propri sbagli. Ma chi tiene conto di queste abilità innate?" (4)
I bambini zingari finiscono la scuola dell'obbligo che nel migliore dei casi leggono e scrivono e fanno le quattro operazioni a malapena, succede anche che dopo otto anni di scuola nessuno si sia curato di una dislessia o di specifici disturbi cognitivi, che i bambini non sappiano la differenza fra un lago, un fiume e il mare e non siano in grado di scrivere in italiano una lettera a un loro amico. La maggior parte non terminano nemmeno la scuola media tanto i problemi descritti diventano sempre più insopportabili durante la crescita e l'isolamento sempre più forte. Ma soprattutto niente nell'arco degli otto anni di scuola sembra aver minimamente contribuito a rendergli più familiare e vicino il contesto sociale in cui vivono. Che siano le strade, gli autobus, i parchi, le altre scuole, le parrocchie, gli ambulatori, gli ospedali, i servizi in generale, il semplice recupero di informazioni ecc. ecc.. La scuola fallisce anche nel trasmettere quello che riconosce di propria competenza, perché affronta il problema dell'integrazione di questi bambini senza mai partire dalla loro situazione, senza mai realmente decentrarsi dal bisogno di mantenimento del proprio sistema, che dev'essere preservato prima di tutto, che è rivolto all'infanzia omologabile.
"Per molti bambini poveri, in confronto alle loro case caotiche e affamate, la scuola è un posto ordinato dove c'è del cibo, e può anche essere un posto interessante rispetto alla totale assenza di giochi e libri cui sono abituati. Inoltre, il desiderio di migliorare la sorte dei bambini, che da parte di genitori di ceto medio si può manifestare in una frenetica e pressante ricerca di ottenere una "posizione", da parte dei genitori poveri si esprime con l'aspirazione che i propri figli vengano amati. È una triste ironia. La scuola, che per un negro povero potrebbe essere fonte di grande gioia e opportunità, molto più spesso è un'esperienza terribile, mentre per un bambino borghese sarebbe meglio non essere nella "buona" scuola che ha scelto. Altri bambini poveri, stipati in una situazione inadeguata rispetto alle loro inclinazioni, a cui non sono preparati per via del loro background e a cui non sono interessati, manifestano delle reazioni di stupidità completamente differenti dal comportamento che hanno in strada o nei campi da gioco. Vengono bocciati, cominciano a marinare la scuola prima possibile. Se per loro la situazione scolastica è in modo così immediato inutile e negativa, la loro reazione deve essere intesa come istinto di autoconservazione. Così facendo riducono le possibilità di una vita decente ma dobbiamo riconoscere che la consueta propaganda - la scuola è la via per gli stipendi alti - per molti ragazzi poveri non è altro che una vergogna. Forse la maggiore sicurezza non vale la tortura che impone." (5) È possibile che un sistema rigido e immobile, come quello scolastico, entri in crisi non riuscendo più a tollerare l'impatto con una società in veloce cambiamento? Se fino a qualche anno fa si poteva avere un "diverso" per classe (zingari o handicappati) al massimo due, ora con la costante crescita dell'immigrazione una classe può essere anche per la metà composta da "diversi". Questo ci condurrà a una pedagogia in cui il diritto alla diversità viene riconosciuto per ognuno? Per adesso la scuola è parte attiva e responsabile al mantenimento dell'emarginazione di queste persone, così come è parte attiva e responsabile al mantenimento di un'infanzia annoiata, omologata, demotivata e deprivata affettivamente.

La retorica dell'intercultura
La maggioranza tollera il diverso. La tolleranza è però una contraddizione in termini. "Il fatto che si tolleri qualcuno è lo stesso che lo si condanni, la tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. Infatti al tollerato si dice di far quello che vuole, che egli ha pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità ecc. ecc.. Ma la sua diversità o meglio, la sua colpa di essere diverso, resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria coscienza il sentimento della diversità delle minoranze. L'avrà sempre eternamente fatalmente presente" (6).
Queste degenerazioni notate da Pasolini, si sono sempre più cristallizzate nell'assistenzialismo e sempre più radicalizzate nella retorica progressista e cattolica dell'integrazione interculturale diventata asfissiante nelle scuole, nei servizi, nelle istituzioni, e ormai anche nel mercato. L'intercultura da sfoggio della tolleranza del diverso, gli permette di esistere come minoranza (non importa come!) concedendogli gli spazi per la rappresentazione-espressione della propria diversità in chiave culturale. La tolleranza e l'utilizzo delle differenze culturali ed etniche, religiose e linguistiche, nei modi che ben conosciamo, alla fine non hanno fatto altro che legittimare legislazioni e determinare atteggiamenti e alibi per tollerare habitat e condizioni inferiorizzate. Legislazioni che non hanno mai offerto agli zingari più del minimo indispensabile per sopravvivere, lasciandoli sempre nell'emergenziale, nel provvisorio e nel precario. Atteggiamenti culturali propri di quella parte di società organizzata nel terzo settore che trova la sua ragione d'essere e il suo profitto nel mantenimento di uno stato di bisogno e persino nella generazione di questo. L'aiuto che assiste i "bisognosi" e la "cultura" che li vuole rappresentare o far auto-rappresentare hanno fatto del diverso una merce di profitto e di consumo. Gli zingari rendono evidente tale relazione più di chiunque altro, forse perché tendono a sfuggirla, gli importa poco sia della politica che dell'auto-rappresentazione. Consumano giorno per giorno quel poco di assistenzialismo che gli viene dato, lo utilizzano per quello che è loro possibile. Anche su questo aspetto del rapporto tra noi e loro la scuola non è capace di essere per questi bambini e queste persone un luogo diverso. Pur avendo bisogni gravi, quotidiani e specifici, la scuola si allinea interamente ai canoni della cultura promossa da terzo settore e istituzioni.
Sempre più spesso le istituzioni stanziano fondi gestiti dalla scuola e dalle associazioni per i famosi progetti di accoglienza e intercultura per bambini stranieri all'interno della scuola. In quest'ambito se ne vedono veramente di tutti i colori: dalle capanne africane costruite in giardino, ai dolci del Bangladesh cucinati a scuola, dalle ninne-nanne internazionali, alle favole indiane, ecc. ecc.. Per i bambini italiani questi momenti sono la rottura della routine e quindi comunque il divertimento, per i bambini stranieri in genere un artificioso essere messi in mostra, all'improvviso e con modi in genere non pensati da loro, spesso con cose che dalle loro parti non si sono proprio mai viste! Per i bravi maestri che promuovono un più solido lavoro col gruppo classe e una più attenta relazione con questi bambini (per esempio accoglienza e comprensione per i loro problemi linguistici) gli spazi e i programmi concessi per l'intercultura possono essere delle occasioni in più per distanziarsi dai programmi didattici e sperimentare di poter fare lezione in modo diverso su qualche tema o in qualche attività che coinvolga tutti gli alunni. Per la maggior parte degli insegnati significa essere spettatore di un qualche operatore/animatore che starà con la sua classe per sei/dieci ore, magari a scrivere tanti bei cartelloni colorati che dicano molto chiaramente che noi le altre culture le tolleriamo. Come tutti noi lo siamo televisivamente, anche l'insegnante è sedotto dal potersi sentire un po' "globale e multiculturale", dalla ventata di esotico del "calarsi" nella cultura di provenienza dei propri alunni, dalla possibilità di sentirsi buono e tollerante e così, allora, benvenuta l'intercultura o benvenuti questi piccoli arrotondamenti di stipendio!
Mentre questi programmi e interventi mettono in vetrina le differenze e non incidono minimamente sui rapporti fra gli alunni e sulla loro reciproca conoscenza, ci si dovrebbe invece interrogare su cosa sia una pedagogia della convivenza e della convivialità. La conoscenza di una favola o di una canzone zingara non può permettere ad una bambino italiano di comprendere meglio chi è e come vive il suo compagno di classe e far si che possano avvicinarsi in qualche modo, scambiarsi esperienze. La distanza e l'indifferenza reciproca resterà tale e quale per tutti gli anni di scuola e poi per tutta la vita. Non si può pensare di rispondere, favoleggiando la diversità, alla bambina che vive il problema (perché la famiglia glielo ha insegnato) di indossare nuovamente la propria giacca dopo che per sbaglio se l'è infilata il suo compagno zingaro o la maestra che lo schifa al punto di non sfilargliela con le proprie mani. Se non è la maestra a preoccuparsi di capire qualcosa sul come vive quel suo alunno o da quali condizioni proviene perché mai dovrebbero interessarsene i compagni?

In conclusione
Si parla di infanzia negata, bambini negati dalla televisione baby sitter indiscriminata, soffocati dagli oggetti di consumo e dal folle accaparramento consumistico di genitori sempre più frustrati e impotenti, genitori mortalmente assenti o irrazionalmente invasivi. Bambini che scompaiono nei programmi didattici di scuole sempre più tecniche e variegate, ma sempre più distanti dai loro reali bisogni affettivi e di crescita. Bambini che scompaiono in una città che ha inghiottito tutti i loro spazi di aggregazione spontanea e reso difficile la loro autonomia. Sono però anche bambini a cui è garantita psicologicamente e materialmente la certezza di appartenere ad una società "che va bene" e di poter avere in essa un ruolo. Transitano la città accompagnati dai loro genitori, vivono "intrattenuti" in strutture create apposta per loro, crescono nell'aspettativa di poter essere qualcuno nel mondo in cui vivono e all'interno dei significati che sono stati loro trasmessi. I genitori hanno delle aspettative e loro le assumono. Si pensa alle condizioni in cui vivono gli zingari come a un qualcosa di determinato dalla loro cultura. Si pensa agli zingari come a un mondo "altro" dove il "nostro" non interessa e non arriva.
Un orgoglio, una nostalgia e un senso d'identità culturale sopravvive ancora nei modelli familiari (fidanzamenti, matrimoni, rapporti fra coniugi e con i figli), sopravvive nei racconti dei nonni e dei genitori quando parlano delle loro case nei villaggi in ex-Iugoslavia, quando raccontano della loro infanzia e giovinezza, quando ammazzano e cucinano maiali e agnelli per le feste del loro calendario. Qualcosa sopravvive, ma sempre più stancamente. Quello che è chiaro per tutti è che il presente è sopravvivere clandestinamente (anche quando clandestini non lo sono) in un mondo che non è "il loro", che è ostile e inaccessibile. Sopravvivono sempre più dolorosamente nel degrado sociale causato soprattutto dallo spaccio e dall'uso dell'eroina. Schemi, modelli, vie d'uscita e derive sono quelle delle nostre periferie. Poco resta per le generazioni più giovani, nate in Italia e cresciute nelle baraccopoli e con i pulmini della scolarizzazione e soprattutto poco resta per i bambini.
In ogni baracca c'è la televisione e alcune volte la play station, i bambini chiedono la barbie, i simpson e le figurine dei pokemon, masticano di continuo manciate di gomme di ogni tipo, hanno le tasche piene di merendine e kinder, stessi miti, stesse fantasie. Il bisogno di omologazione attraverso i prodotti di consumo è più schiacciante che per i bambini italiani. Tutto resta molto confuso, i genitori stessi lo sono. Nelle famiglie zingare come in gran parte delle famiglie più povere il principio educativo ritenuto più valido è senza dubbio quello autoritario, privo di spiegazioni e denso di minacce, utile a piegare i bambini all'obbedienza, ma che non permette loro né di identificarsi col sistema di valori, norme e comportamenti, né di combatterlo, bambini che non hanno aspettative, né sembrano equipaggiati per averne. Così l'isolamento è prima di tutto dentro la propria famiglia e comunità, poi nella scuola e nella città. Le proprie origini non le conoscono, il campo è presto odiato e disprezzato, come si esprime molto chiaramente e dolorosamente in adolescenza, ma il campo è anche l'unico rifugio.


L'adolescenza di un giovane zingaro è forse l'età in cui più stridono le contraddizioni della loro crescita. Tradizionalmente i giovani zingari diventano adulti molto presto. Tra i sedici e i diciott'anni possono già costituire una famiglia. Fin da piccoli hanno imparato come guadagnarsi da vivere. Molti di loro hanno cominciato ad andare a vendere le rose con la madre fin dai tre quattro anni, e ora che ne hanno quattordici continuano a farlo con maggiore responsabilità per la sopravvivenza della famiglia. Crescendo, questa responsabilità verrà accettata sempre meno e con maggiore frustrazione. L'adolescenza è per ognuno di noi l'età della scoperta di sé, l'inizio di una propria identificazione e di una propria esperienza autonoma del mondo. Questo particolare e delicato passaggio all'età adulta che è l'adolescenza si è per molti di noi rarefatto fino addirittura i trent'anni, per un giovane zingaro forse quasi non esistono i tempi e gli spazi per viverla. Svincolarsi dalla famiglia ed emanciparsi dalla vita del campo è un bisogno pressante in adolescenza. La coscienza della propria condizione è vissuta con profonda crisi sia rispetto ai modelli di appartenenza sia rispetto alla frattura che hanno sempre percepito e che è diventata irrimediabile, tra loro e l'esterno. Quindi la consapevolezza di un'impossibilità di scelta. Impossibilità che viene risolta nell'apatia, nell'isolamento e nel coltivare sogni improbabili che li riscattino dalla loro condizione. Per questi ragazzi allora l'opportunità di sentirsi in qualche modo integrati e meno diversi significa assumere comportamenti (rubare, spacciare) che permettono guadagni facili e quindi l'accesso alle cose, ai luoghi, ai consumi e alle relazioni in cui si possano sentire alla pari. Diversamente che per gli adulti dove si è arrivati a questi comportamenti più per una necessità di sopravvivenza, per gli adolescenti anche molto piccoli, rubare e spacciare significa unicamente potersi sentire "meno zingari e più normali". Dragan ha 15 anni, da due anni ha abbandonato la scuola prima di concludere le medie. L'anno scorso veniva con noi a giocare a pallone, l'abbiamo visto per un anno isolato e depresso davanti ai videopoker, quando ci incontrava abbassava gli occhi schivandoci, ci prendeva in giro sprezzante e aggressivo, poi all'improvviso ci chiedeva attenzione "mi accompagni dal medico, mi procuri uno zainetto per tornare a scuola…". Un giorno siamo andati a riprenderlo in commissariato per il furto di una macchina, ha cominciato a rubare dentro il campo. Dopo la pausa estiva lo rincontriamo, maglietta firmata e scarpe nuove, ha davvero cambiato viso e non ci si può trattenere da un "sei cresciuto!", per sentirci rispondere dritto negli occhi sorridendo, "mo' ti spezzo le ossa". Dragan ha cominciato a rubare seriamente non più di sei mesi fa quando il cognato è uscito di prigione ed è tornato al campo. L'adolescente zingaro è isolato in città, ha poca familiarità con il trasporto pubblico, con l'uso del telefono, con le biblioteche pubbliche, (ludoteche, impianti sportivi ecc.) con l'ottenere informazioni dagli sconosciuti, con le norme di comportamento nei bar, nei parchi pubblici, nei ristoranti, con il pianificare le sue attività in anticipo, con l'articolare o rispondere alle richieste al di fuori dell'immediato circolo familiare.Tra gli adolescenti che abbiamo conosciuto è molto chiara l'impossibilità di un evasione, come è stato per i genitori e per i fratelli più grandi. È evidente già nei bambini piccoli una chiara conflittualità e ambivalenza rispetto al campo, alla famiglia e al mondo esterno. Questi bambini quando ci incontrano, in qualsiasi cosa fanno è come se ripetessero: "ho bisogno che mi guardi, ho bisogno di potermi fidare di te, della tua gratuità, che tu resti, che tu mi aspetti intanto che io faccio, ho bisogno che mi accetti, che sei contento di me, che vado bene per te ecc." L'affettività, il bisogno di relazione, il ricatto, con il quale ti sommergono nel momento in cui diventa chiaro che tu sei lì per loro, è fortissimo. Per questi bambini che sembrano destinati al fallimento e alla frustrazione è importante recuperare il ruolo compensativo dell'educazione prescolastica e far crescere la qualità dell'attenzione nei loro confronti fin dai primi anni di vita. Privilegiare all'interno e all'esterno della scuola tutti i tentativi di ampliare la loro comprensione dell'ambiente, supportandoli all'interno di una relazione pedagogica centrata sul bambino, sull'ascolto, sull'esperienza di spazi e tempi propri.
Occuparsi di questi bambini significa, anche e non di meno, occuparsi delle loro condizioni di vita, preoccupandosi di garantirgli prima di tutto i loro bisogni primari: una casa calda e accogliente, il necessario spazio vitale, una condizione meno precaria per le loro famiglie.