La
crescente presenza di bambini ‘stranieri’ nelle scuole italiane ha contribuito
a due folgorazioni di carattere generale:
- i bambini
non sono tutti uguali e le diversità vanno rispettate;
- queste
diversità se fatte incontrare, se mescolate, possono contribuire
a formare un individuo migliore, più ricco, più completo,
evoluto, consapevole.
Qualche
inconveniente. Il primo è un’odiosa ed insopportabile retorica
della diversità, dove l’abuso di parole come ‘multiculturalità’,
‘multietnicità’, ‘integrazione’ e simili ha tolto ogni significato
a questi termini, obbligando chiunque sia alla ricerca di un senso a
cercarne di altri, ad evitarli.
Altro inconveniente. Per bambini e adolescenti stranieri questo ‘incontro
delle diversità’ viene ridotto, banalizzato, alla formula dell’
‘incontro tra culture’, ossia tra stereotipi e schemi precostituiti
che vorrebbero tutti gli italiani mangiatori di pizza e danzatori di
tarantella, gli zingari suonatori di violino e figli del vento, gli
arabi... Un approccio che porta a spacciare per fiabe africane racconti
a cui di africano è rimasto, forse, solo il titolo, o a lunghe
dissertazioni sulla cultura zingara come esempio, inestimabile, di cultura
orale con a seguire lettura, da libri, di fiabe gitane del tutto sconosciute
ai bambini zingari presenti.
Questa modalità, purtroppo maggioritaria e da alcuni definita
‘pedagogia del couscous’, ha finito per diventare la giustificazione
etica delle moderne pratiche di assimilazione alla cultura prevalente
spesso chiamate ‘integrazione’.
Il beneficio di una diversità degna di rispetto comincia ad essere
fortunatamente esteso anche ai bambini e agli adolescenti italiani convenzionalmente
definiti ‘minori a rischio’, ‘soggetti svantaggiati’, ‘emarginati’,
‘drop-out’ e affini.
La loro diversità, fino ad oggi universalmente sinonimo di bestialità,
inferiorità, attitudine innata a qualcosa che sta tra la criminalità
e la demenza incurabile, inizia ad essere innalzata, da pochi, a rango
di ‘differenza culturale’, che se integrata può comporsi in ricchezza.
Anche qui qualche inconveniente. Un esempio. Conosciamo bambini di 5
anni oggetto di inusuale emarginazione da parte dei propri compagni
di classe, che hanno sviluppato una precoce identità da drop-out.
Sono alunni di scuola materna, ritenuti ‘minori a rischio’ e quindi
costretti a frequentare durante l’orario scolare programmi speciali
all’esterno del gruppo classe, inseriti in attività con altri
‘bambini a rischio’.
Restano tutti gli altri bambini, i non immigrati, i non a rischio, il
prototipo, l’orologio meticolosamente custodito nel meridiano di Greenwich,
lo stampino. Insomma il termine di paragone a cui tutti gli altri bambini
o assomigliano o sono diversi. Non c’è che sperare che anche
per loro, se esistono, arrivino tempi migliori.
Questione centrale del dibattito sulla pedagogia delle diversità
è la ricerca di un punto di equilibrio tra cultura di provenienza
ed effettiva identità (reali esperienze, conoscenze, emozioni)
del bambino con cui si ha effettivamente a che fare.
Non è possibile prescindere dal bagaglio di diversità,
o meglio di caratteristiche, storie, avvenimenti, lingue di cui il bambino
straniero è portatore più o meno infetto. E’ elemento
importante per comprendere e conoscere le singole individualità
e promuoverne l’incontro e la crescita. Uno studio e un’analisi corretta
della cultura di provenienza costituisce strumento indispensabile per
il bambino, perché osservandola dalla giusta distanza possa divenirne
consapevole e scegliere cosa accettare e a cosa ribellarsi. La questione
da chiarire è se a noi interessa un’astratta cultura di provenienza
o il bambino in carne e ossa.
Il pericolo dell’approccio alla diversità oggi prevalente è
la creazione e trasmissione di figure virtuali che oscillano tra il
‘mostro spaventoso’ e il ‘meraviglioso personaggio folkloristico’. Noi
pensiamo che compito dell’educatore sia creare condizioni per un incontro
reale, tra persone reali. Per farlo è necessario lavorare sulla
liberazione dagli schemi e dagli stereotipi inventati dagli adulti,
aiutando a spogliarsene e non certo aggiungendone di nuovi e più
sofisticati a chi in partenza ne aveva meno di noi.
Abbiamo riletto un testo che offre spunti di riflessione fondamentali
su diversità e creazione di ‘mostri’. E’ un libro del 1975, I
Baubau (Emme Edizione) scritto da Lella Gandini, a quei tempi animatrice
di scuole medie ed elementari e di doposcuola sperimentali.
Il
libro è una ricerca sulla paura e gli spauracchi infantili e
inizia con un discorso sulle origini della paura infantile, basato su
studi di Erikson, Bowlby J., Lorenz, Hinde, Leboyer, McGrow, Wolff,
Spitz R., Piaget, Freud, Klein M., Propp, Lévi-Strauss C., Beretta,
Corral John B., Luccio R, Cohen M. e altri. In una seconda parte Gandini
riporta i risultati della sua inchiesta condotta in scuole medie inferiori
ed elementari dal ’74 al ’75 a Napoli e provincia e tra Bergamo e Milano.
Perché
spaventare i bambini? Siamo noi adulti che abbiamo inventato gli spauracchi.
Uno spauracchio è qualunque cosa che induce in altri falso o
esagerato timore.
Chi
sono questi spauracchi?
Perché
fanno paura ai bambini?
I
bambini stessi hanno risposto alle domande e hanno descritto gli spauracchi
e cosa rappresentano per loro. E’ utile esaminare prima alcune cause
delle paure infantili (...)
Nel mondo delle paure infantili, paure reali e immaginarie si mescolano
e si sovrappongono. E’ artificioso cercar di vedere le paure infantili
separatamente secondo le varie cause ma è necessario esaminare,
sia pur brevemente, i vari elementi che contribuiscono alla loro formazione.
Queste paure producono immagini spaventose e quindi gli spauracchi che
prendono una connotazione soprattutto dai condizionamenti familiari
e le interazioni sociali dei bambini.
1.
Dal punto di vista della psicologia comparata le paure che stanno alla
base di alcuni comportamenti istintivi del bambino, nelle prime settimane
e mesi di vita, hanno un parallelo nelle paure che si manifestano nei
piccoli di altri animali superiori.
Il legame tra il genitore e i suoi piccoli si basa su un precoce riconoscimento
reciproco. Questo riconoscimento avviene, per i piccoli, in un periodo
di particolare sensibilità (periodo critico-sensibile) e viene
definito imprinting (nella nota: imprinting: Come significato generico
si dice di qualunque processo che può contribuire a far volgere
il comportamento di attaccamento filiale, di un giovane uccello o mammifero,
preferibilmente verso una o più figure discriminanti. Usato in
termine generico il termine implica sempre: a)lo sviluppo di una preferenza
chiaramente definita; b) una preferenza che si sviluppa abbastanza rapidamente
e di solito in una fase limitata del ciclo vitale; c) una preferenza
che una volta fissata rimane relativamente fissa) (...)
Il periodo critico-sensibile è limitato e, in alcuni casi, finito
questo periodo, nemmeno l’incontro con la madre naturale può
provocare una reazione favorevole, essa non viene seguita. Anzi al termine
del periodo critico-sensibile in cui il piccolo ha ricevuto l’imprinting
di un oggetto familiare in un ambiente familiare, ogni oggetto non familiare
provoca reazioni di paura e di fuga.
(...) Quasi ogni animale condivide il suo habitat con alcuni predatori
che sa riconoscere istintivamente alla nascita. Per sopravvivere a questi
predatori ogni specie di animali possiede un comportamento acquisito
filogeneticamente che le permette di organizzare un sistema di difesa.
La maggior parte degli animali sono provvisti di un comportamento istintivo
ereditario che fa cercare certi oggetti e fuggire altri. Per i primati
terricoli la funzione di protezione è svolta dal gruppo che è
socialmente organizzato. In caso di minaccia i maschi adulti, che si
tratti di scimmie o di uomini, formano una barriera per respingere i
predatori, mentre le femmine e i piccoli si raccolgono in posizione
di difesa. In questo modo solo gli individui isolati diventano vittime.
E’ stato notato che i giovani animali che tendono a rimanere fuori dal
gruppo, in caso di pericolo, vengono duramente aggrediti dagli adulti
e spinti a forza al riparo. Questo chiarisce perché, quando un
giovane animale viene punito, tende ad approfondire il suo attaccamento
alla figura che lo punisce. Il piccolo per garantire la sua sopravvivenza,
si aggrappa alla madre, con un comportamento istintivo per non restare
isolato.
Le scimmie, che tra gli animali assomigliano di più all’uomo
per le cure che prodigano ai loro piccoli, tenendoli attaccati al loro
corpo in contatto intimo, compensano anche il trauma della nascita che
i piccoli hanno subito. Alla nascita il piccolo umano specialmente,
passa bruscamente da una condizione in cui i bisogno vengono immediatamente
soddisfatti, in un ambiente completamente favorevole, a una condizione
estranea dove, in principio, tutto è fonte di disagi e dove gli
stimoli hanno un’intensità altissima. (...) E’ solamente nella
nostra società economicamente sviluppata che i bambini rimangono
per la maggior parte del tempo privi del contatto fisico materno.
(...) Il bambino quando nasce è già provvisto di schemi
di comportamento che sono pronti ad essere attivati da stimoli. Gli
stimoli provocheranno il pianto, la suizione, l’orientamento della testa
o la prensione. Devono passare alcune settimane perché il bambino
sia pronto a uno scambio di segnali che provino il riconoscimento della
madre. Lo scambio di segnali, per i piccoli umani, che corrisponde alla
reazione di inseguimento per gli uccelli ed è collegata all’imprinting,
è la "risposta del sorriso".
E’ verso la fine della quinta settimana che quasi tutti i bambini rispondono
col sorriso agli stimoli visivi. In questo momento basta come stimolo
visivo un cartoncino che abbia le dimensioni di un viso e che abbia
due macchie scure su fondo chiaro
(...)Verso i tre o quattro mesi occorre un vero viso umano per sollecitare
il sorriso (...) Verso i cinque mesi poi lo stimolo può limitarsi
solo al viso di una persona nota. Ma già a partire dalle quattordici
settimane circa c’è una preferenza netta per il viso materno
in confronto ad altri visi. Verso i sei, sette mesi i visi degli estranei
e le maschere suscitano ancora un debole sorriso ma è proprio
a quest’epoca che gli estranei cominciano ad essere trattati con scostamento
guardingo o con un piccolo sorriso elargito da una distanza sicura.
Man mano che crescono i bambini, come i piccoli di altre specie, cominciano
a manifestare paura per le novità e per le cose sconosciute incluse
le persone. L’età in cui si verifica per la prima volta una netta
reazione di paura alla vista di estranei varia molto da bambino a bambino
(...) varia molto a seconda delle condizioni: qual è la distanza
dell’estraneo, se il bambino è in braccio alla madre o lontano
da lei, se il bambino si trova in una situazione familiare oppure nuove,
se è stanco o riposato ecc. Comunque l’estraneità è
in se stessa una causa comune di timore. Se il numero delle persone
che si occupa del bambino è vario, se oltre alla madre vi sono
altri contatti affettuosi da parte di altre persone, la paura degli
estranei tenderà a mostrarsi meno intensamente.
La necessità di esplorare il proprio ambiente fa parte non solo
dello sviluppo del piccolo animale ma s’impone come condizione indispensabile
della conoscenza per la crescita equilibrata del bambino. Il bambino
crescendo alternerà momenti d’intensa esplorazione a momenti
di paura delle novità e degli estranei che lo faranno ricorrere
alla protezione e al rifugio materno.
Al momento in cui si forma la paura degli estranei, dopo il periodo
dell’imprinting del viso materno, i visi che spaventano tendono a trasformarsi
in facce paurose che rimangono impresse nella fantasia del bambino.
2.
Le paure fondate sullo sviluppo dell’organismo sono, come scrive Erikson,
le più precoci, le più penetranti e le meno conscie.
Il bambino trae un senso di benessere e di fiducia soprattutto dalla
soddisfazione del suo bisogno di suizione e di contatto fisico. Quando
i suoi bisogni non vengono soddisfatti in breve tempo si fanno più
intensi, il suo equilibrio fisico è compromesso e il suo organismo
segnala che è in pericolo la sua sopravvivenza. Il neonato è
completamente indifeso e dipende totalmente dalle cure degli adulti
che si occupano di lui. Da queste cure può derivare per lui una
situazione di fiducia o di sfiducia.
(...) i suoi desideri insoddisfatti provocano l’ira che fa insorgere
degli istinti distruttivi verso il proprio organismo, la sensazione
di impotenza verso questo istinti fa sentire il bambini in pericolo
e quindi pieno di angoscia.
L’angoscia di venire distrutto dai propri impulsi produce un meccanismo
di difesa modellato sul desiderio infantile di esteriorizzare le sofferenze
e interiorizzare il piacere. Il bambino vive come esterno un pericolo
interno (proiezione) e sente come se fosse diventata una certezza interiore
la realtà favorevole e buona che è all’esterno (introiezione).
Il bambino impara sempre più a riconoscere che la madre è
qualcuno che dà e trattiene la gratificazione. Nella proiezione
all’esterno della sua angoscia la madre viene percepita come oggetto
di pericolo e su di lei si riversano gli impulsi distruttivi del bambino.
Nello stesso tempo la madre viene percepita anche come la fonte principale
di soddisfazione e di conforto. Un parte delle tendenze aggressive nei
riguardi della madre o di tutt’e due i genitori vengono dirette verso
esseri fantastici che popolano i territori notturni dei bambini o vengono
a formare le loro fobie. Lo spostamento all’esterno dei pericoli interni
da la possibilità al bambino di domare la paura e di affrontare
meglio quegli stessi pericoli.
Occorre chiarire la differenza tra paura e angoscia. L’angoscia è
uno stato di tensione diffusa, di timore sordo, che può anche
manifestarsi in inquietudini e terrori improvvisi, non ha una causa
precisa. La paura è uno stato apprensivo connesso a pericoli
determinati riconoscibili e che possono venire valutati realisticamente.
(...) il bambino a causa della sua immaturità strumentale non
è in grado di distinguere tra pericoli interni ed esterni, reali
o immaginari: questa è una cosa che egli deve ancora apprendere
e per apprenderla ha bisogno delle rassicuranti indicazioni dell’adulto.
(....) Le paure che contribuiscono all’angoscia infantile possono essere
viste essenzialmente come paura di separazione dalle persone amate e
paura di distruzione di sé e di quelli che si amano. Queste paure
di separazione e di distruzione hanno anche la loro origine nella fragilità
della vita dell’organismo che lotta per la sopravvivenza, nella sensazione
della propria impotenza e della possibile incombenza della morte. Le
energie dell’individuo sono coinvolte completamente nel processo che
porta a dominare le proprie situazioni di angoscia infantili; una riuscita
positiva di questo processo è di fondamentale importanza per
lo sviluppo dell’io.
La proiezione verso l’esterno in immagini paurose del senso di pericolo
provocato dagli istinti interiori trasforma l’angoscia diffusa e indefinita
in paura definita, per esempio in un’immagine-spauracchio, quindi più
facilmente controllabile.
(...) E’ del 1882 il resoconto di una storia in cui la balia di una
bambina di due anni e mezzo costruisce uno spaventoso pupazzo nero e
lo mette vicino al letto della bambina immersa nel sonno per poter passare
una serata libera. Al ritorno la balia trova la bambina morta di terrore
con gli occhi sbarrati e le mani rattrappite nei capelli.
(...) Ma la tendenza a spaventare i bambini con minacce o per ottenere
l’obbedienza è ancora viva oggi. I genitori ricorrono a queste
minacce perché ripetono forme tradizionali che hanno avuto una
presa magico-misteriosa sulla loro fantasia quando erano bambini (...)
E’ soprattutto nella famiglia che le paure dei bambini prendono forma
di spauracchi e che alcune paure nascono. Gli ostacoli frapposti al
bisogno di muoversi, di fare chiasso, i sensi di colpa che le proibizioni
producono, le tensioni e le stanchezze che i genitori non riescono a
nascondere al bambino e che li fanno ricorrere al ripiego delle minacce,
tutto contribuisce a creare delle paure. Quali sono i fini utilitari
immediati che i genitori vogliono raggiungere attraverso gli spauracchi?
Prima di tutto bisogna evitare che i bambini escano da soli di casa.
(...) La società emargina delle persone che con la loro presenza
possono mettere a disagio le persone inserite. I bambini avvertono questo
disagio e sentono la propria sicurezza messa in pericolo da questi personaggi
rifiutati. In certi casi gli adulti li usano direttamente per minacciare
i bambini, facendoli diventare spauracchi.
Il
barbone mi nasconde nel suo mantello e mi fa morire lentamente.
Daniele, 4a elementare, Brescia
Gli
zingari hanno una faccia brutta e sporca.
Lorena, 1a media, Riva di Trento
Il
vecchio senza denti ha la faccia rugosa e mi mangia.
Carlo, 4a elementare, Casale Monferrato
I
pazzi ci uccidono per divertimento per far strage e dopo ci mettono
appesi da qualche parte per spaventare altri.
Uwe, 5a elementare, Brescia
Chiamo
lo zoppo e ti faccio venì a piglià. Anche quando veniva
sera e lo diceva per farmi andare a letto io zitto zitto me ne andavo
a dormire con la testa sotto le coperte senza muovermi e certe volte
non dormivo per tutta la notte. Perché avevo l’ansia che venisse
lo zoppo. E così era tutti i pomeriggi e la sera.
Giovanni, 2a media, Napoli
Gli
zingari, come risulta dall’inchiesta, sono visti come dei pericolosi
distruttori del focolare domestico. Generalmente perché sono
"vestiti male", hanno una "faccia brutta e sporca"
e possono "entrare in case anche con le porte chiuse"
(...) Le paure che non hanno una base razionale, le paure di pericoli
immaginari o indefiniti, sono difficili da controllare. Fanno sentire
indifesi e quindi dipendenti. E’ proprio questa conseguenza di dipendenza
che si vuole ottenere quando la paura viene usata per tenere sotto controllo
qualcuno. Questo avviene in modo più o meno manifesto in quel
tipo di rapporti in cui qualcuno detiene il potere e altri sono in posizione
subordinata; e si verifica a vari livelli nella nostra società
(famiglia, scuola, lavoro).
(...) I metodi educativi adottati dai genitori in molti casi sono gli
stessi che hanno causato loro dei problemi (...) Oppure rappresentano
la reazione ad un tipo di educazione che hanno riconosciuto come sbagliata
e che li fa cadere nell’eccesso opposto.
(...) L’ambiente esterno è spesso deprimente, le città
sono sovraffollate, manca lo spazio. Il problema dello spazio è
spesso cruciale nell’acuire le difficoltà dl rapporto adulto-bambino.
I bambini sentono il bisogno di muoversi e di fare chiasso per esprimere
l’aggressività di tipo positivo che è dentro di loro,
aggressività che è mezzo di esplorazione, di scoperta
e quindi di formazione. Quando questa necessità viene frustrata
e i bambini vengono repressi, proprio perché fanno chiasso, insorge
un’aggressività negativa e distruttrice che viene indirizzata
verso i fratelli e i genitori con conseguenti minacce, punizioni e produzione
di senso di colpa. Inoltre la sorveglianza da parte dei genitori aumenta
e il bambino invece di sviluppare un’autonomia di comportamento e di
imparare a controllare i propri impulsi, diventerà sempre più
dipendente dalle regole imposte dai genitori e dagli educatori e in
seguito da qualsiasi persona rappresenti l’autorità.
Le minacce che i genitori usano per tenere sotto controllo i bambini,
gli spauracchi che fanno balenare alle loro menti, possono non essere
presi seriamente e avere effetto pauroso limitato sul bambino, ma sono
soprattutto la disapprovazione, la condanna e a volte l’ostilità,
in breve la privazione dell’amore da parte dei genitori che lasciano
dei segni duraturi.
Nel primo contatto con la scuola il bambino cerca di essere rassicurato
per i timori che questo ambiente esterno e sconosciuto, che deve affrontare
da solo, suscita in lui. Purtroppo nella scuola molti educatori, sia
per mancanza di informazione, sia per faciloneria usano la paura più
o meno apertamente come mezzo per ottenere l’obbedienza dei bambini.
Paura del voto, dell’esame, della sospensione, della bocciatura e in
alcuni casi di punizioni corporali, che non sono del tutto scomparse.
Le forme educative adottate finora nella maggior parte dei casi destano
nella prima infanzia troppe paure completamente superflue, bloccando
l’apprendimento. Inoltre l’insegnamento basato sulla competitività
favorisce l’insorgere di sensi d’inferiorità, paura del ridicolo,
paura dei compagni. Il bambino tende a sentirsi solo ed effettivamente
in questo modo la socializzazione avviene con molta difficoltà.
(...) Per i genitori ed educatori la grossa difficoltà è
immedesimarsi nelle esigenze del bambino, nell’accettarlo come un individuo,
in formazione, ma con una personalità da rispettare nella sua
interezza.
(...) E’ importante che ogni bambino si renda conto di non essere il
solo a soffrire e scopra che i suoi compagni hanno le stesse paure,
come le hanno avute gli adulti un tempo.
(...) E’affrontando attivamente la paura, non reprimendola, che si può
acquistare una consapevolezza della propria condizione e trovare i mezzi
per superarla.