Prima
Un urto non particolarmente violento, ma tanto è bastato per innescare
la tragedia simbolo della criminalizzazione degli immigrati da parte di
un'Europa che va sempre più scoprendo la propria identità di roccaforte
armata.
Pochi minuti di agonia e la motovedetta albanese Kater I - A 451 stracolma
di gente come da copione televisivo, affondava reclinandosi sulla sinistra
e trascinando sul fondale, 853 metri più sotto, più di cento persone
tra uomini, donne e bambini. I morti sono 120. Erano le 19,03 del 28 marzo
1997.
Quali manovre abbiano determinato quell'urto è attualmente argomento di
un dibattito processuale che va progressivamente chiarendo le responsabilità
della Marina Militare italiana. Di sicuro c'è che una vecchia carretta
del mare albanese di fabbricazione sovietica è affondata col suo carico
umano dopo essere partita intorno alle quindici da Valona con destinazione
Italia.
Lunga ventuno metri e larga tre e mezzo, era stata riempita fino all'inverosimile,
circa centoventi persone che quel viaggio di quaranta chilometri l'avevano
pagato 800.000 lire a testa, un milione e mezzo se in coppia. Un furto,
ma pur sempre poco rispetto alle cifre che pare girino intorno al business
dei passaporti al consolato italiano.
Cosa li spingeva da queste parti è noto: la crisi che tra il '96 e il
'97 aveva seppellito le speranze dei tre quarti delle famiglie albanesi
in seguito alla maxitruffa delle finanziarie, le società piramidali che
promettevano interessi, in alcuni casi, fino al 300%.
In un paese dalla produzione inesistente e con la maggior parte della
popolazione disoccupata, i contadini avevano macellato il proprio bestiame
per venderlo ai paesi vicini investendo il ricavato nelle piramidali e
per lo stesso motivo molte famiglie avevano venduto le proprie case con
la certezza di ricomprarle e ricostruirle più grandi e comode. Una massa
enorme di denaro contante andò così a finire nelle casse di queste holding
arricchitesi con l'embargo internazionale contro Serbia e Montenegro e
grazie a commerci di armi, droga e manodopera clandestina.
L'inizio del '97, il mese di marzo in particolare, fu segnato da un precipitare
di vicende, l'una più grave dell'altra. Il crack finanziario aveva determinato
insurrezioni popolari, specie al sud. Comitati di insorti, vere e proprie
bande armate, avevano assunto il controllo delle città, diffondendo un
clima di terrore. Il panico si diffuse nel paese alla notizia che il governo
italiano, il 3 marzo, aveva fatto evacuare i propri concittadini, proprio
mentre i quotidiani italiani dello stesso giorno riportavano l'esortazione
dell'allora presidente della Camera, Irene Pivetti: "ributtiamo gli albanesi
in mare, affondiamo le loro navi".
Il 13 marzo venivano chiusi l'aeroporto di Tirana e i porti di Saranda,
Valona e Durazzo, interrompendo i rapporti col resto del mondo.
Infine, il 25 marzo venne firmato il trattato italo-albanese: dal 3 aprile,
in cambio degli aiuti promessi, l'Italia si assicurava la possibilità
di rimandare indietro gli immigrati albanesi senza permesso. Venne predisposto
il blocco navale chiamato in codice "Operazione bandiere bianche", provocando
tra l'altro accuse di incostituzionalità da parte dell'UNHCR, l'organismo
ONU che si occupa dei rifugiati.
Praticamente per gli albanesi era scattato il timer della trappola. Si
trovarono tra i due fuochi del disordine nel proprio paese e del rigetto
dall'estero. Chi in quei giorni non fosse riuscito a fuggire sarebbe rimasto
per sempre nell'inferno.
Durante
Alle quindici del 28 marzo, la Kater I - A 451 salpò dal porto di Valona.
Era stata costruita, circa 35 anni prima, per un equipaggio di nove persone
e non era adibita al trasporto passeggeri che, al momento dell'imbarco,
erano invece più o meno centoventi, molti dei quali donne e bambini. Il
soprannumero rendeva precarie le condizioni di stabilità, ma il mare si
preannunciava calmo e il comandante non era uno sprovveduto, aveva guidato
pescherecci per decenni. Fu caricata gente fino all'orlo e una grande
folla rimase sul molo a imprecare all'occasione perduta mentre l'ultima
nave per l'occidente prendeva il largo.
Alle 17,15 la motovedetta venne avvistata dalla nave Zeffiro della marina
militare italiana. Vennero informati l'ammiraglio Alfeo Battelli, comandante
del MARIDIPART di Taranto (il centro che coordina le attività di pattugliamento
in Adriatico) e l'ammiraglio Umberto Guarnieri, comandante in capo del
CICNAV, la sala operazioni nazionale, quattro palazzine che affacciano
in via santa Rosa, a Roma, tra le vie Aurelia e Cassia.
Dalla Zeffiro partirono diverse intimazioni a non proseguire, ma la Kater
I continuò a tenere la prua verso le coste pugliesi. Il comando delle
operazioni passò quindi alla corvetta "Sibilla", più agile e quindi più
adatta a manovre di intercettazione ed eventualmente di arresto del natante.
Quel che accadde da questo momento in poi è stato raccontato alle autorità
giudiziarie sia dai superstiti che dall'equipaggio della "Sibilla". Due
versioni opposte. Di interessante c'è però che la versione degli italiani
sulla dinamica dell'incidente è stata praticamente smontata pezzo per
pezzo dalla relazione di consulenza tecnica dell'avv. Sergio Maria Carbone
e dell'ing. Giulio Russo Krauss, incaricati dal p.m. Leone De Castris.
Il comandante della "Sibilla", Fabrizio Laudadio, asserisce di essersi
portato due volte a distanza di megafono, a dritta della Kater I, cioè
sulla destra, per intimare il dietrofront. A tal fine si avvicinava ad
una distanza compresa tra i dieci e i venticinque metri. L'incidente si
è verificato durante il secondo tentativo: la motovedetta albanese avrebbe
effettuato una manovra spericolata, voltando verso destra e andando a
finire sotto la prua della corvetta italiana, un mastodonte d'acciaio
quattro volte più lungo e tre volte più largo, 1200 tonnellate contro
le 56 della Kater I. L'ordine di indietro tutta è stato immediato, ma
non sufficiente a evitare l'impatto. La tragedia è stata quindi conseguenza
della dabbenaggine del comandante albanese.
Questa la versione di Laudadio e, con poche variazioni, dell'intero equipaggio
della "Sibilla".
Ma la Kater I, una volta ripescata, presentava il timone rivolto a sinistra,
avvalorando così la testimonianza dei superstiti che non solo non menzionano
il presunto tentativo del proprio comandante di fuggire sulla destra (unica
causa dell'incidente secondo Laudadio), ma riferiscono di diversi tentativi
di allontanarsi virando in direzione opposta. Secondo le dichiarazioni
rese agli ufficiali di polizia giudiziaria il giorno dopo la tragedia,
sarebbe stata invece la nave italiana a speronare il trabiccolo albanese,
in una sorta di gioco del gatto col topo: "Subito dopo l'ultima intimazione,
la nave italiana ha speronato la nostra poppa una prima volta ed
essendo più alta ha colpito la nostra cabina di pilotaggio, dopo siamo
stati speronati una seconda volta e quindi la nostra imbarcazione
si è capovolta su un fianco". (Deposizione di Godo Viktor, dalla già citata
Relazione di Consulenza Tecnica, parte quarta. Il neretto è nel testo
originale.)
Dopo
Il dopo è stato segnato dalla deposizione del capitano di corvetta Angelo
Luca Fusco che quel 28 marzo 1997 era addetto alle comunicazioni al centro
di controllo di Brindisi. Secondo Fusco esisteva un ordine di "ingaggio
secondo il codice di guerra NATO che prevede il contatto fisico con l'imbarcazione
ribelle". Pare cioè che la "Sibilla" avesse ricevuto l'ordine di bloccare
il natante albanese, costi quel che costi, fosse pure andandogli addosso.
Altro mistero, la misteriosa morte di Giuseppe Baffa, l'avvocato dei parenti
delle vittime, che il giorno prima di morire aveva telefonato a un giornalista
del "Giorno" annunciando di aver scoperto incartamenti segreti e di temere
per la propria vita. All'appuntamento dato al giornalista per la mattina
successiva di fronte al tribunale di Brindisi Baffa non è mai arrivato
perchè morto in un incidente stradale. Gli incartamenti di cui parlava
non sono stati ritrovati.
Ultima annotazione: per sapere cos'è successo in quel punto di mare a
venticinque chilometri dalla costa pugliese sarebbe sufficiente leggere
la trascrizione delle comunicazioni tra la "Sibilla" e il Comando della
Marina Militare durante i sei minuti precedenti l'impatto. Peccato che
siano scomparsi.
|