Una nave bloccata, uno speronamento e poi il processo, lungo e accidentato.
Le prove e i testimoni spariscono, nelle acque della Puglia restano i corpi delle persone morte.
La prossima udienza è fissata per il 27 settembre.

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"Lo so io, in compenso. Ma in fondo l'ho sempre saputo. Da quando ho aperto la cassa. La bandiera da guerra della fregata Sibilla. Tutti la conoscono, in Albania, la dannata Sibilla. È la nave da guerra che ha speronato il Kater IRades. Una delle nostre navi piene di gente. Una carretta, dicevano. Uno schifoso relitto galleggiante. Che non poteva resistere alla prua di una nave da guerra che le entrava nella pancia. Sono morti quasi tutti, sul Kater I Rades. Specialmente le donne e i bambini, che si proteggevano dal freddo della sera nella stiva del maledetto rottame. Poi ci hanno risarcito, come no. Ci hanno dato qualche lira e hanno detto che gli spiaceva un casino. Mi ricordo ancora al tiggì le lacrime ipocrite del tizio del governo, quello lì con la televisione che non mi ricordo come si chiama. Hanno ripescato la nave e rimpatriato quello che faceva schifo pure ai pesci di mangiare, belli avvolti nelle bandiere".
da Enver e la Principessa di Luca Masali

altre informazioni:

Naufragi di A. Mangano
Un resoconto degli "incidenti" avvenuti al largo delle coste italiane negli ultimi anni. Un resoconto eloquente che aiuta a capire fino a che punto si è spinta la retorica del governo italiano, capace di trasformare in eventi fortuiti i disastri provocati dalla sua politica

Una commissione parlamentare d'inchiesta? No, grazie!


Piccoli risarcimenti, proposta di legge di Luigi Manconi

Il Kater I A-451 affonda.
Il processo è insabbiato
di Osvaldo Capraro

Prima

Un urto non particolarmente violento, ma tanto è bastato per innescare la tragedia simbolo della criminalizzazione degli immigrati da parte di un'Europa che va sempre più scoprendo la propria identità di roccaforte armata.
Pochi minuti di agonia e la motovedetta albanese Kater I - A 451 stracolma di gente come da copione televisivo, affondava reclinandosi sulla sinistra e trascinando sul fondale, 853 metri più sotto, più di cento persone tra uomini, donne e bambini. I morti sono 120. Erano le 19,03 del 28 marzo 1997.
Quali manovre abbiano determinato quell'urto è attualmente argomento di un dibattito processuale che va progressivamente chiarendo le responsabilità della Marina Militare italiana. Di sicuro c'è che una vecchia carretta del mare albanese di fabbricazione sovietica è affondata col suo carico umano dopo essere partita intorno alle quindici da Valona con destinazione Italia.
Lunga ventuno metri e larga tre e mezzo, era stata riempita fino all'inverosimile, circa centoventi persone che quel viaggio di quaranta chilometri l'avevano pagato 800.000 lire a testa, un milione e mezzo se in coppia. Un furto, ma pur sempre poco rispetto alle cifre che pare girino intorno al business dei passaporti al consolato italiano.
Cosa li spingeva da queste parti è noto: la crisi che tra il '96 e il '97 aveva seppellito le speranze dei tre quarti delle famiglie albanesi in seguito alla maxitruffa delle finanziarie, le società piramidali che promettevano interessi, in alcuni casi, fino al 300%.
In un paese dalla produzione inesistente e con la maggior parte della popolazione disoccupata, i contadini avevano macellato il proprio bestiame per venderlo ai paesi vicini investendo il ricavato nelle piramidali e per lo stesso motivo molte famiglie avevano venduto le proprie case con la certezza di ricomprarle e ricostruirle più grandi e comode. Una massa enorme di denaro contante andò così a finire nelle casse di queste holding arricchitesi con l'embargo internazionale contro Serbia e Montenegro e grazie a commerci di armi, droga e manodopera clandestina.
L'inizio del '97, il mese di marzo in particolare, fu segnato da un precipitare di vicende, l'una più grave dell'altra. Il crack finanziario aveva determinato insurrezioni popolari, specie al sud. Comitati di insorti, vere e proprie bande armate, avevano assunto il controllo delle città, diffondendo un clima di terrore. Il panico si diffuse nel paese alla notizia che il governo italiano, il 3 marzo, aveva fatto evacuare i propri concittadini, proprio mentre i quotidiani italiani dello stesso giorno riportavano l'esortazione dell'allora presidente della Camera, Irene Pivetti: "ributtiamo gli albanesi in mare, affondiamo le loro navi".
Il 13 marzo venivano chiusi l'aeroporto di Tirana e i porti di Saranda, Valona e Durazzo, interrompendo i rapporti col resto del mondo.
Infine, il 25 marzo venne firmato il trattato italo-albanese: dal 3 aprile, in cambio degli aiuti promessi, l'Italia si assicurava la possibilità di rimandare indietro gli immigrati albanesi senza permesso. Venne predisposto il blocco navale chiamato in codice "Operazione bandiere bianche", provocando tra l'altro accuse di incostituzionalità da parte dell'UNHCR, l'organismo ONU che si occupa dei rifugiati.
Praticamente per gli albanesi era scattato il timer della trappola. Si trovarono tra i due fuochi del disordine nel proprio paese e del rigetto dall'estero. Chi in quei giorni non fosse riuscito a fuggire sarebbe rimasto per sempre nell'inferno.

Durante
Alle quindici del 28 marzo, la Kater I - A 451 salpò dal porto di Valona. Era stata costruita, circa 35 anni prima, per un equipaggio di nove persone e non era adibita al trasporto passeggeri che, al momento dell'imbarco, erano invece più o meno centoventi, molti dei quali donne e bambini. Il soprannumero rendeva precarie le condizioni di stabilità, ma il mare si preannunciava calmo e il comandante non era uno sprovveduto, aveva guidato pescherecci per decenni. Fu caricata gente fino all'orlo e una grande folla rimase sul molo a imprecare all'occasione perduta mentre l'ultima nave per l'occidente prendeva il largo.
Alle 17,15 la motovedetta venne avvistata dalla nave Zeffiro della marina militare italiana. Vennero informati l'ammiraglio Alfeo Battelli, comandante del MARIDIPART di Taranto (il centro che coordina le attività di pattugliamento in Adriatico) e l'ammiraglio Umberto Guarnieri, comandante in capo del CICNAV, la sala operazioni nazionale, quattro palazzine che affacciano in via santa Rosa, a Roma, tra le vie Aurelia e Cassia.
Dalla Zeffiro partirono diverse intimazioni a non proseguire, ma la Kater I continuò a tenere la prua verso le coste pugliesi. Il comando delle operazioni passò quindi alla corvetta "Sibilla", più agile e quindi più adatta a manovre di intercettazione ed eventualmente di arresto del natante.
Quel che accadde da questo momento in poi è stato raccontato alle autorità giudiziarie sia dai superstiti che dall'equipaggio della "Sibilla". Due versioni opposte. Di interessante c'è però che la versione degli italiani sulla dinamica dell'incidente è stata praticamente smontata pezzo per pezzo dalla relazione di consulenza tecnica dell'avv. Sergio Maria Carbone e dell'ing. Giulio Russo Krauss, incaricati dal p.m. Leone De Castris.
Il comandante della "Sibilla", Fabrizio Laudadio, asserisce di essersi portato due volte a distanza di megafono, a dritta della Kater I, cioè sulla destra, per intimare il dietrofront. A tal fine si avvicinava ad una distanza compresa tra i dieci e i venticinque metri. L'incidente si è verificato durante il secondo tentativo: la motovedetta albanese avrebbe effettuato una manovra spericolata, voltando verso destra e andando a finire sotto la prua della corvetta italiana, un mastodonte d'acciaio quattro volte più lungo e tre volte più largo, 1200 tonnellate contro le 56 della Kater I. L'ordine di indietro tutta è stato immediato, ma non sufficiente a evitare l'impatto. La tragedia è stata quindi conseguenza della dabbenaggine del comandante albanese.
Questa la versione di Laudadio e, con poche variazioni, dell'intero equipaggio della "Sibilla".
Ma la Kater I, una volta ripescata, presentava il timone rivolto a sinistra, avvalorando così la testimonianza dei superstiti che non solo non menzionano il presunto tentativo del proprio comandante di fuggire sulla destra (unica causa dell'incidente secondo Laudadio), ma riferiscono di diversi tentativi di allontanarsi virando in direzione opposta. Secondo le dichiarazioni rese agli ufficiali di polizia giudiziaria il giorno dopo la tragedia, sarebbe stata invece la nave italiana a speronare il trabiccolo albanese, in una sorta di gioco del gatto col topo: "Subito dopo l'ultima intimazione, la nave italiana ha speronato la nostra poppa una prima volta ed essendo più alta ha colpito la nostra cabina di pilotaggio, dopo siamo stati speronati una seconda volta e quindi la nostra imbarcazione si è capovolta su un fianco". (Deposizione di Godo Viktor, dalla già citata Relazione di Consulenza Tecnica, parte quarta. Il neretto è nel testo originale.)

Dopo
Il dopo è stato segnato dalla deposizione del capitano di corvetta Angelo Luca Fusco che quel 28 marzo 1997 era addetto alle comunicazioni al centro di controllo di Brindisi. Secondo Fusco esisteva un ordine di "ingaggio secondo il codice di guerra NATO che prevede il contatto fisico con l'imbarcazione ribelle". Pare cioè che la "Sibilla" avesse ricevuto l'ordine di bloccare il natante albanese, costi quel che costi, fosse pure andandogli addosso.
Altro mistero, la misteriosa morte di Giuseppe Baffa, l'avvocato dei parenti delle vittime, che il giorno prima di morire aveva telefonato a un giornalista del "Giorno" annunciando di aver scoperto incartamenti segreti e di temere per la propria vita. All'appuntamento dato al giornalista per la mattina successiva di fronte al tribunale di Brindisi Baffa non è mai arrivato perchè morto in un incidente stradale. Gli incartamenti di cui parlava non sono stati ritrovati.
Ultima annotazione: per sapere cos'è successo in quel punto di mare a venticinque chilometri dalla costa pugliese sarebbe sufficiente leggere la trascrizione delle comunicazioni tra la "Sibilla" e il Comando della Marina Militare durante i sei minuti precedenti l'impatto. Peccato che siano scomparsi.