ACCORDI BILATERALI I - ACCORDI BILATERALI II - COOPERAZIONE - CENTRI D'ACCOGLIENZA - BIANCO - PUGLIA/ALBANIA I - PUGLIA/ALBANIA II

Luigi Perrone è responsabile scientifico dell' "Osservatorio provinciale sull'immigrazione" e docente di Sociologia delle relazioni etniche all'Università di Lecce. Ha contribuito alla fondazione del "Comitato per la difesa dei diritti degli immigrati" e alla nascita delle "Rete Antirazzista", di cui è stato portavoce per la Puglia.
Ha pubblicato saggi e libri sull'immigrazione, tra i quali: Porte chiuse (1995), Quali politiche per l'immigrazione? (1995), Naufragi albanesi (1996).

Altre informazioni:

L'indirizzo dell'Osservatorio provinciale sull'immigrazione:
www.opi-lecce.org

Un'interessante ricerca sull'immigrazione albanese in Italia di Stefania Maggioni pubblicata su REDS

Puglia: confine e frontiera.
Intervista a Gigi Perrone
a cura di Alessandro Leogrande

A parte il Trattato di Schengen, i flussi migratori nel Mediterraneo sono regolati da specifici accordi bilaterali fra paesi poveri e paesi ricchi, cioè tra quelli da cui si parte e quelli in cui si arriva. Tra questi accordi, particolarmente severi sono quelli stipulati tra Italia e Albania. Gli albanesi che arrivano sulle coste pugliesi sono immediatamente rispediti indietro, laddove tutti gli altri immigrati vengono comunque indirizzati verso i centri di permanenza. Cosa puoi dirci a riguardo?
Il riaccompagnamento alla frontiera non avviene solo da quando è stato firmato l'accordo fra i due paesi (1997). Avveniva già prima, è stata una prassi che si è consolidata negli anni '90 contro l'immigrazione albanese. Prima dell'accordo, l'escamotage era questo: i clandestini, venendo intercettati in acque internazionali, venivano rispediti indietro.
Gli accordi bilaterali non sono stati fatti solo con l'Albania ma anche con altri paesi del bacino del Mediterraneo, come la Tunisia e il Marocco. Prevedono delle quote privilegiate (nel caso degli albanesi 6mila) di immissione regolarizzata. Per tutti gli altri che arrivano, al di sopra delle unità prefissate, ci sono modalità di respingimento particolarmente severe.
Ora, noi sappiamo bene qual è la contropartita di questi accordi. La destra, ad esempio, ogni qualvolta ci sono problemi con gli albanesi, giocando sulla "sindrome dell'invasione", chiede al governo di tagliare i fondi della cooperazione. La minaccia di agire in questo modo, qualora non venissero rispettati i termini degli accordi, è costante: spesso l'ha adottata anche il governo di centro-sinistra.
L'informazione circa quello che prevedono questi accordi, ma soprattutto riguardo alla loro contropartita economica, è quasi inesistente. Una delle attività che facciamo con l'Osservatorio provinciale sull'immigrazione di Lecce è la rassegna stampa delle maggiori testate albanesi che si occupano di immigrazione. Traduciamo gli articoli in italiano e li mettiamo sul nostro sito (www.opi-lecce.org). Quello che in Italia non si sa è che in Albania c'è una corrente di pensiero, intellettuali politici ecc., che contesta al governo albanese un atteggiamento troppo pedissequo nei confronti dell'Italia. L'Italia impone delle norme e gli albanesi, subalterni in virtù di scambi della cooperazione, continuano a sottostare a questi accordi: questa è invece l'immagine che passa.
Un'altra questione importante riguardo all'immigrazione albanese è questa. Facendo indagini sia qui che in Albania, ci siamo accorti che gli albanesi sono in Italia i meno graditi sul mercato del lavoro. In un ipotesi di ventaglio di comunità diverse, di cui l'imprenditore potenzialmente potrebbe disporre, gli albanesi sono quelli meno accettati. Allora ci siamo chiesti: che se ne fanno gli albanesi di una quota privilegiata di mille, duemila unità in più, quando trovano difficoltà a inserirsi sul posto di lavoro? Tutto questo porta a una riduzione della capacità allocativa e delle possibilità di inserimento, che già sono di per sé basse.
È stata attuata negli anni una operazione di immagine, si è fatto un gioco sporco che ha portato all'inferiorizzazione della comunità albanese, un processo a nostro avviso "scientifico".
Ovviamente questo è un modo non solo per inferiorizzare l'albanese, ma per colpire attraverso l'anello debole della catena tutta la catena migratoria: tutto questo porta alla creazione di cittadini di serie b, estremamente utili sul mercato del lavoro.

Il controllo militare della costa non ha ridotto l'immigrazione. Anzi, vedendo nel controllo l'unica risposta possibile, i viaggi sono diventati più rischiosi e si è permesso agli aggregati mafiosi di proliferare, organizzando i viaggi.

In questi anni la colpa principale è stata della sinistra di governo. Non è stata in grado di contrapporre alla politica forcaiola della destra, che voleva la militarizzazione, una linea alternativa di apertura e di solidarietà.
Laddove si cerca di reprimere con la forza un flusso migratorio, quasi sicuramente si creeranno degli apparati mafiosi, pronti a lucrarci sopra, che lo organizzeranno in maniera sempre diversa. Se il problema economico persiste non è con il semplice blocco della frontiera che lo si risolve. Questo non è accaduto solo sul Canale d'Otranto. Anche in altre parti del mondo è avvenuta la stessa cosa: è stato un tentativo fallimentare di risolvere il problema. Fra l'altro, non è mai stato detto questo: per la militarizzazione sono stati spesi un bel po' di miliardi ma non è stata abbassata di una sola unità l'arrivo sulle coste dei clandestini. Ovviamente il governo di sinistra non vuole ammettere il fallimento, dicendo che dei soldi sono stati buttati via inutilmente.
Abbiamo di fronte a noi un problema epocale, che ha a che fare con la diseguaglianza economica che si è creata fra aree del mondo differenti, ma non abbiamo saputo affrontare il problema seriamente. Nessuno dice che l'azione repressiva ha aumentato la pericolosità dei viaggi: ormai percepiamo come normali, come accidentali delle morti che accidentali non sono. Per giunta, sappiamo solo di alcune di queste morti, quelle che percepiamo "da questa parte": sarebbe interessante andare a chiedere dall'altra parte dell'Adriatico quante persone sono effettivamente morte.
Un'altra questione importante è questa. Si continua a fare una voluta confusione tra immigrazione economica e immigrazione politica. Quando si parla di "clandestini curdi" si cade in un ossimoro. I curdi non sono clandestini: semmai è lo Stato italiano che non ha una legge sui rifugiati. Ma perché stupirsi? Alla creazione di un immaginario collettivo confuso ha contribuito la destra quanto la sinistra.

Sui giornali pugliesi, a cominciare dagli interventi del ministro Bianco, si parla di un'Operazione primavera anche per l'immigrazione clandestina. Non solo quindi si propone un modello repressivo, ma anche una pericolosa confusione fra contrabbando e immigrazione, come se tutto quello che varcasse la frontiera fosse di per sé negativo.
Il ministro Bianco è probabilmente il peggior ministro degli interni che la Repubblica italiana abbia mai avuto: perché ha unito alla confusione e all'ignoranza riguardo a temi scottanti, il proporre continuamente idee che non sono per niente democratiche. Non ha capito niente dell'immigrazione, si è impegnato a seguire la destra sui temi della sicurezza. Ha contribuito a confondere continuamente il problema della immigrazione con quello dell'ordine pubblico, due problemi che vanno mantenuti nettamente distinti, sebbene certo, come ogni problema, si confonda anche con l'ordine pubblico.
Si vuole dimostrare statisticamente che gli immigrati siano in percentuale più devianti di quanto non siano gli italiani. Ma se si disaggrega il dato, emerge una realtà diversa. Se si connfrontano i dati fra le varie comunità, si nota che alcune comunità delinquono più di altre. Ma se si va ancora oltre si vede che la devianza degli appartenenti a una comunità (di gran lunga la più "deviante" sarebbe prioprio quella albanese) è legata proprio alla tipologia del fenomeno migratorio. All'origine di comportamenti devianti non c'è la distinzione fra regolari e irregolari quanto l'appartenere o meno a una comunità che è in grado di fare da "galleggiante sociale" di supplire alla mancanza di reddito, di alloggio, ecc., attraverso le proprie reti. Laddove questo non c'è, l'esposizione alla criminaltà è più forte. Ad esempio, qui a Lecce, i senegalesi come associazione autonoma organizzano tutta una serie di servizi che non sono garantiti dallo stato.
Il problema allora è quello di creare sul territorio dei servizi sociali tali che impediscono la devianza. Soprattutto per i nuovi arrivati. Fioriscono tutti i bussness dell'emergenza, della prima accoglienza, ampiamente foraggiati dallo stato, ma si impedisce invece di creare delle strutture di accoglienza stabili che portino a un itinerario di cittadinanza.

E questo è un problema che riguarda anche i grossi centri pugliesi, attraverso i quali sono costretti a passare tutti gli immigrati irregolari che sono rintracciati sulle coste.
Innanzitutto si continua a parlare di centri di accoglienza quando ancora non si chiarisce che esistono centri di accoglienza e centri di permanenza temporanea e che spesso la stessa struttura confonde le due cose. In questi centri come ben sappiamo sono sospesi i diritti costituzionali, è gente che viene fermata poiché gli viene imputato un reato considerato tale di fatto: l'immigrazione. E questo inutilmente anche in un'ottica puramente repressiva, dal momento che dopo i 30 giorni di soggiorno, alcuni vengono rimpatriati e altri no.

Il problema dei grossi centri sembra però essere questo: sono diventate le uniche realtà dominanti. Il modello del piccolo centro che può fare una accoglienza più concreta è risultato ormai sconfitto.
Ci sono dei discorsi molto delicati da fare rispetto all'associazionismo e al ruolo dell'associazionismo. Questo si è sostituito allo stato, facendo da supplente alle sue carenze. Così facendo si è impedito a lungo andare alle associazioni degli immigrati di crescere. Questi sono stati gestiti come eterni minorenni, e nel frattempo le associazioni di accoglienza e di sostegno nel frattempo sono diventate autoreferenziali, e presentano dei progetti per gestire tutto. Essendo autoreferenziali, e volendo gestire progetti sempre più ampi, ormai sono degli imprenditori delle disgrazie altrui. E quindi contemporaneamente gestiscono tutto e il contrario di tutto. Lo gestiscono in modo improprio e del tutto incompetente perché non possono avere tutte le competenze specialistiche che vengono richieste da diverse forme di assistenza nonché dalla varietà dei paesi di origine degli immigrati. E nello stesso tempo impediscono agli immigrati di esistere sul territorio come soggetto riconoscibile. Non "esistendo" gli immigrati sul territorio, si ritardano i percorsi di cittadinanza.
I centri sono delle galline dalle uova d'oro. Queste sono galline che produrranno sempre uova, per il semplice fatto che c'è questa legge sull'immigrazione che gioca al ribasso rispetto alle quote di accoglienza. Noi abbiamo due stime. Da un lato, la Commissione delle quote stabilisce entro le 63mila unità(poi divenute 83mila, con i 20mila aggiuntivi) la quota di entrata. Dall'altro, numerose ricerche parlano costantemente della necessità di 250mila unità per rispondere alle domande del mondo del lavoro. Ciò significa che quella differenza verrà coperta da irregolari che diventeranno clandestini sul territorio, in un processo che favorisce la dequalificazione del lavoro. Regolarmante saranno fermati dalle forze dell'ordine, che in tal caso non fanno altro che aumentare il disordine, e così si va all'infinito. Le risorse degli immigrati vengono distrutte sistematicamente e inutilmente per problemi creati da leggi inadeguate.
Diversamente, se noi andassimo a modificare quelle leggi, semplificando l'itinerario di cittadinanza nel momento in cui si entra nel mondo del lavoro, e favorendo ancora prima tale ingresso, non avremmo questi inutili centri di accoglienza. E abbatteremmo le varie mafie che si sono create nei paesi di partenza, cosa di cui si continua a tacere. In ogni paese in cui c'è la ricerca del permesso di soggiorno o di un visto, automaticamente si sono create delle mafie organizzate che lucrano e che selezionano la popolazione che arriva, una selezione il più delle volte negativa e scapito dei più poveri, dei non affiliati a clan.

Una domanda banale: è possibile pensare a un'altra legge sull'immigrazione? È possibile, ora, rovesciare la logica di Schengen?
Bisogna chiarire una confusione a riguardo. Schengen è un trattato internazionale, che gli Stati non sono chiamati a rispettare sic et simpliciter, gli stati possono essere chiamati a modificarlo. Noi non abbiamo una politica sul Mediterraneo, Schengen deve quanto prima risolvere una politica sul Mediterraneo. Non solo rispetto alle logiche restrittive.

A proposito di Albania
Di fronte al collasso dello stato albanese, l'Italia non è stata in grado di adottare una politica lungimirante. In dieci anni, come sono evoluti la cooperazione e l'intervento italiano in Albania?
Nel '92 in un convegno che si tenne a Tirana noi ci auguravamo che l'Albania potesse fare tesoro dei fallimenti altrui. Ma questo non è avvenuto: in Albania si è insediato il peggio che si potesse insediare e a livello europeo e a livello locale. Si è instaurato un capitalismo rapace, aggressivo. Fino a cinque hanni fa, il salario medio non superava le 100mila lire al mese. Adesso buona parte degli albanesi è arrivata a guadagnare 200-300mila lire al mese. Ma il costo della vita è salito alle stelle, in alcuni casi ha raggiuntto quello italiano. Escluso alcuni prodotti come il pane, i pomodori, ad esempio, costano più che a Lecce, dato che sono importati dalla Grecia. Molti prodotti sono importati…

Non si produce ancora…
Non c'è un apparato produttivo solido, le industrie e le imprese sono rarissime. Persino l'acqua minerale, nonostante l'Albania sia ricca di acqua, viene importata. È l'acqua Eureka, che viene dal Salento e che acqua di pozzo, non buona. Ancora oggi, si aprono imprese che poi chiudono in pochi mesi: i soldi investiti dove vanno?

Si fa bere agli albanesi, quindi, l'acqua Eureka, quando poi Fitto, il governatore della Regione Puglia, parla un giorno sì e l'altro pure di prendere l'acqua dall'Albania per l'Aquedotto Pugliese.

Giri di affari e di interessi ci sono. In Albania scorre un fiume di miliardi: questo è il paese che, in percentuale, ha usufruito dei fondi della cooperazione più di qualunque altro paese al mondo. Ma questo cooperazione ha creato un inferno. Questo è il problema fondamentale di questi anni: bisognerebbe ripensare da subito le forme delle cooperazione.
Per il momento si continua a rapinare la società albanese con salari bassissimi e col decentramento produttivo: le imprese italiane chiudono da noi per riaprire in Albania usufruendo della possibilità di pagare salari molto bassi. Il processo di inferiorizzazione viene così esteso all'intera società albanese, attraverso il mondo del lavoro. Nel '97 ci sono stati piccoli esempi di rivolta contro queste imprese. La rivolta non si è scatenata solo contro il governo e le finanziarie ma anche contro i nuovi imprenditori che costringevano a salari da fame.
Se si va a Tirana o a Durazzo, è possibile vedere i risultati del decentramento produttivo del calzaturiero. L'Albania comunista era comunque uno dei paesi europei con il maggior tasso di alfabetizzazione. Ora i bambini e i ragazzi non vanno più a scuola. Lo si capisce subito. E questa non è solo la conseguenza del crollo dello stato, dell'emigrazione o della ricerca del denaro facile, per cui, ad esempio, nessuno vuole fare più l'insegnante se pagato così poco. La questione è un'altra: si assiste a un processo di distruzione del nucleo familiare. In Albania con il lavoro a domicilio i bambini non vanno più a scuola, usano collanti e prodotti nocivi, hanno tutti le mani rovinate. Prediamo il caso delle tovaglie. Per farle ci lavoro un'intera famiglia che alla fine riesce a mala pena a mettere insieme i soldi per mangiare. Le tovaglie vengono pagate 110 lire l'una, che significa 110 lire ad ora. Quindi, lavorando un'intera giornata, per dieci ore almeno, si guadagnano poco più più di mille lire. Questi sono gli imprenditori che abbiamo mandato in Albania e di cui tanto si parla.

La cooperazione ha finito anche per allargare la forbice sociale, la distinzione fra ricchi e poveri?
È proprio questo il problema centrale riguardo alla cooperazione. Anche il discorso dell'illegalità non va separato da quello economico. Abbiamo due economie: una oiko-nomia, vernacolare, dei circuiti poveri, e fatta di reti parentali, che si dà come circuito di sopravvivenza. L'altra per chi va al supermercato: e questi sono o stranieri o albanesi con capitali stranieri. Al supermercato tu trovi gli stessi prezzi (anche i prodotti) che in Italia.
L'Albania subisce la spinta tipica dei paesi ridotti alla logica del sottosviluppo. La ricerca di denaro diventa fondamentale: da una parte hai la spinta ai consumi, dall'altro dei salari bassissimi. Qui nasce la grossa discrasia del paese, paese dove tu hai la miseria più misera e dall'altra persone che camminano con macchine di cento-duecento milioni. Questo diventa eclatante in una città come Valona, la città con il più alto tasso di cavalli-vapore per abitanti.
L'Albania nel giro di poco tempo si è lasciata alla spalle l'organizzazione sociale "dalla culla alla tomba" del periodo enverista, ha saltato completamente la fase della produzione per arrivare subito alla logica delle finanze - con le finanziarie molti hanno scoperto l'albero dei soldi, le finanziarie erano questo in fondo. L'Albania ha bruciato tutte tappe della storia capitalistica in pochi anni e in maniera distorta.

Ci sono individui e gruppi albanesi (intellettuali, gruppi della società civile, organizzazioni…) con cui è possibile interloquire? A cui è possibile guardare per progetti alternativi?

C'è in Albania tutta una rete molto interessante di intellettuali. Ma soprattutto c'è un numero incredibile di esperienze della società civile che sono completamente dimenticate.
Ad esempio, quando c'è stata la missione Alba siamo insorti contro l'invio dell'esercito in Albania perché era il paradosso: ancora una volta si agiva in un'ottica emergenziale e come tutte le emergenze, questo avrebbe distrutto una quantità enorme di risorse, avrebbe attivato i soliti circuiti criminali (cosa che regolarmente è successo) e, soprattutto, a missione finita, avrebbe lasciato le cose nello stesso modo se non peggio: tutto questo è poi accaduto. Se invece si fossero attivate le reti locali che pure esistono (come se l'Albania fosse nata ieri, come se in Albania non ci fossero dei circuiti, associazionismo, centri di ricerca… in Albania ci sono, nessuno ne parla, ma ci sono), non si sarebbe persa l'ennesima occasione.
Ci sono circuiti di buon livello di produzione culturale che non hanno risorse, e quindi sono costretti a morire oppure a legarsi intorno a partiti politici, allineando la loro posizione.
La cooperazione ha attivato e continua a attivare, dei settori tutti quanti ipertrofici, mentre la società civile, continua a essere dimenticata. D'altronde basta vederli, questi cooperanti. Li vedi con gipponi e fuoristrada da centinaia di milioni che girano in nome della cooperazione, mentre i soggetti per i quali loro dovrebbero lavorare sono dei poveracci che muoiono di fame e dai quali rimangono a una distanza siderale.

Quindi, sono esperienze più minoritarie e meno note quelle a cui guardare.
L'ultima volta che sono andato in Albania mi è stato consigliato un libro fatto da un gruppo di ricercatori. Questi avevano fatto una ricerca sulla caduta negativa della emigrazione. L'Albania è stata fortemente impoverita dalla emigrazione, sia in termini di perdita di forza lavoro sia in termini di perdita di risorse intellettuali; tantissimi scolarizzati se ne sono andati. La ricerca era molto critica nei confronti del governo. Di gruppi come questo ce ne sono parecchi. Ma il problema di fondo è quello di prima: il rischio è che emerga il peggio e non il meglio della società. Quando emerge solo quello che è legato ai partiti più forti o ai più forti cartelli di cooperazione internazionale, quelle esperienze più alternative vengono tagliate fuori.
Noi abbiamo centinaia di persone serissime che vivono nell'ombra e che magari non dimostreranno mai di essere eroi, ma che hanno portato avanti pezzi di società e di socialità in questi anni. Sono questi i soggetti che dovremmo far emergere, a cui si dovrebbe dare spazio. Ma nella situazione attuale sono rimasti schiacciati.