A
parte il Trattato di Schengen, i flussi migratori nel Mediterraneo sono
regolati da specifici accordi bilaterali fra paesi poveri e paesi ricchi,
cioè tra quelli da cui si parte e quelli in cui si arriva. Tra questi
accordi, particolarmente severi sono quelli stipulati tra Italia e Albania.
Gli albanesi che arrivano sulle coste pugliesi sono immediatamente rispediti
indietro, laddove tutti gli altri immigrati vengono comunque indirizzati
verso i centri di permanenza. Cosa puoi dirci a riguardo?
Il riaccompagnamento alla frontiera non avviene solo da quando è stato
firmato l'accordo fra i due paesi (1997). Avveniva già prima, è stata
una prassi che si è consolidata negli anni '90 contro l'immigrazione albanese.
Prima dell'accordo, l'escamotage era questo: i clandestini, venendo intercettati
in acque internazionali, venivano rispediti indietro.
Gli accordi bilaterali non sono stati fatti solo con l'Albania ma anche
con altri paesi del bacino del Mediterraneo, come la Tunisia e il Marocco.
Prevedono delle quote privilegiate (nel caso degli albanesi 6mila) di
immissione regolarizzata. Per tutti gli altri che arrivano, al di sopra
delle unità prefissate, ci sono modalità di respingimento particolarmente
severe.
Ora, noi sappiamo bene qual è la contropartita di questi accordi. La destra,
ad esempio, ogni qualvolta ci sono problemi con gli albanesi, giocando
sulla "sindrome dell'invasione", chiede al governo di tagliare i fondi
della cooperazione. La minaccia di agire in questo modo, qualora non venissero
rispettati i termini degli accordi, è costante: spesso l'ha adottata anche
il governo di centro-sinistra.
L'informazione circa quello che prevedono questi accordi, ma soprattutto
riguardo alla loro contropartita economica, è quasi inesistente. Una delle
attività che facciamo con l'Osservatorio provinciale sull'immigrazione
di Lecce è la rassegna stampa delle maggiori testate albanesi che si occupano
di immigrazione. Traduciamo gli articoli in italiano e li mettiamo sul
nostro sito (www.opi-lecce.org). Quello che in Italia non si sa è che
in Albania c'è una corrente di pensiero, intellettuali politici ecc.,
che contesta al governo albanese un atteggiamento troppo pedissequo nei
confronti dell'Italia. L'Italia impone delle norme e gli albanesi, subalterni
in virtù di scambi della cooperazione, continuano a sottostare a questi
accordi: questa è invece l'immagine che passa.
Un'altra questione importante riguardo all'immigrazione albanese è questa.
Facendo indagini sia qui che in Albania, ci siamo accorti che gli albanesi
sono in Italia i meno graditi sul mercato del lavoro. In un ipotesi di
ventaglio di comunità diverse, di cui l'imprenditore potenzialmente potrebbe
disporre, gli albanesi sono quelli meno accettati. Allora ci siamo chiesti:
che se ne fanno gli albanesi di una quota privilegiata di mille, duemila
unità in più, quando trovano difficoltà a inserirsi sul posto di lavoro?
Tutto questo porta a una riduzione della capacità allocativa e delle possibilità
di inserimento, che già sono di per sé basse.
È stata attuata negli anni una operazione di immagine, si è fatto un gioco
sporco che ha portato all'inferiorizzazione della comunità albanese, un
processo a nostro avviso "scientifico".
Ovviamente questo è un modo non solo per inferiorizzare l'albanese, ma
per colpire attraverso l'anello debole della catena tutta la catena migratoria:
tutto questo porta alla creazione di cittadini di serie b, estremamente
utili sul mercato del lavoro.
Il controllo militare della costa non ha ridotto l'immigrazione. Anzi,
vedendo nel controllo l'unica risposta possibile, i viaggi sono diventati
più rischiosi e si è permesso agli aggregati mafiosi di proliferare, organizzando
i viaggi.
In questi anni la colpa principale è stata della sinistra di governo.
Non è stata in grado di contrapporre alla politica forcaiola della destra,
che voleva la militarizzazione, una linea alternativa di apertura e di
solidarietà.
Laddove si cerca di reprimere con la forza un flusso migratorio, quasi
sicuramente si creeranno degli apparati mafiosi, pronti a lucrarci sopra,
che lo organizzeranno in maniera sempre diversa. Se il problema economico
persiste non è con il semplice blocco della frontiera che lo si risolve.
Questo non è accaduto solo sul Canale d'Otranto. Anche in altre parti
del mondo è avvenuta la stessa cosa: è stato un tentativo fallimentare
di risolvere il problema. Fra l'altro, non è mai stato detto questo: per
la militarizzazione sono stati spesi un bel po' di miliardi ma non è stata
abbassata di una sola unità l'arrivo sulle coste dei clandestini. Ovviamente
il governo di sinistra non vuole ammettere il fallimento, dicendo che
dei soldi sono stati buttati via inutilmente.
Abbiamo di fronte a noi un problema epocale, che ha a che fare con la
diseguaglianza economica che si è creata fra aree del mondo differenti,
ma non abbiamo saputo affrontare il problema seriamente. Nessuno dice
che l'azione repressiva ha aumentato la pericolosità dei viaggi: ormai
percepiamo come normali, come accidentali delle morti che accidentali
non sono. Per giunta, sappiamo solo di alcune di queste morti, quelle
che percepiamo "da questa parte": sarebbe interessante andare a chiedere
dall'altra parte dell'Adriatico quante persone sono effettivamente morte.
Un'altra questione importante è questa. Si continua a fare una voluta
confusione tra immigrazione economica e immigrazione politica. Quando
si parla di "clandestini curdi" si cade in un ossimoro. I curdi non sono
clandestini: semmai è lo Stato italiano che non ha una legge sui rifugiati.
Ma perché stupirsi? Alla creazione di un immaginario collettivo confuso
ha contribuito la destra quanto la sinistra.
Sui giornali pugliesi,
a cominciare dagli interventi del ministro Bianco, si parla di un'Operazione
primavera anche per l'immigrazione clandestina. Non solo quindi si propone
un modello repressivo, ma anche una pericolosa confusione fra contrabbando
e immigrazione, come se tutto quello che varcasse la frontiera fosse di
per sé negativo.
Il ministro Bianco è probabilmente il peggior ministro degli interni
che la Repubblica italiana abbia mai avuto: perché ha unito alla confusione
e all'ignoranza riguardo a temi scottanti, il proporre continuamente idee
che non sono per niente democratiche. Non ha capito niente dell'immigrazione,
si è impegnato a seguire la destra sui temi della sicurezza. Ha contribuito
a confondere continuamente il problema della immigrazione con quello dell'ordine
pubblico, due problemi che vanno mantenuti nettamente distinti, sebbene
certo, come ogni problema, si confonda anche con l'ordine pubblico.
Si vuole dimostrare statisticamente che gli immigrati siano in percentuale
più devianti di quanto non siano gli italiani. Ma se si disaggrega il
dato, emerge una realtà diversa. Se si connfrontano i dati fra le varie
comunità, si nota che alcune comunità delinquono più di altre. Ma se si
va ancora oltre si vede che la devianza degli appartenenti a una comunità
(di gran lunga la più "deviante" sarebbe prioprio quella albanese) è legata
proprio alla tipologia del fenomeno migratorio. All'origine di comportamenti
devianti non c'è la distinzione fra regolari e irregolari quanto l'appartenere
o meno a una comunità che è in grado di fare da "galleggiante sociale"
di supplire alla mancanza di reddito, di alloggio, ecc., attraverso le
proprie reti. Laddove questo non c'è, l'esposizione alla criminaltà è
più forte. Ad esempio, qui a Lecce, i senegalesi come associazione autonoma
organizzano tutta una serie di servizi che non sono garantiti dallo stato.
Il problema allora è quello di creare sul territorio dei servizi sociali
tali che impediscono la devianza. Soprattutto per i nuovi arrivati. Fioriscono
tutti i bussness dell'emergenza, della prima accoglienza, ampiamente foraggiati
dallo stato, ma si impedisce invece di creare delle strutture di accoglienza
stabili che portino a un itinerario di cittadinanza.
E questo è un problema che riguarda anche i grossi
centri pugliesi, attraverso i quali sono costretti a passare tutti gli
immigrati irregolari che sono rintracciati sulle coste.
Innanzitutto si continua a parlare di centri di accoglienza quando
ancora non si chiarisce che esistono centri di accoglienza e centri di
permanenza temporanea e che spesso la stessa struttura confonde le due
cose. In questi centri come ben sappiamo sono sospesi i diritti costituzionali,
è gente che viene fermata poiché gli viene imputato un reato considerato
tale di fatto: l'immigrazione. E questo inutilmente anche in un'ottica
puramente repressiva, dal momento che dopo i 30 giorni di soggiorno, alcuni
vengono rimpatriati e altri no.
Il problema dei grossi
centri sembra però essere questo: sono diventate le uniche realtà dominanti.
Il modello del piccolo centro che può fare una accoglienza più concreta
è risultato ormai sconfitto.
Ci sono dei discorsi molto delicati da fare rispetto all'associazionismo
e al ruolo dell'associazionismo. Questo si è sostituito allo stato, facendo
da supplente alle sue carenze. Così facendo si è impedito a lungo andare
alle associazioni degli immigrati di crescere. Questi sono stati gestiti
come eterni minorenni, e nel frattempo le associazioni di accoglienza
e di sostegno nel frattempo sono diventate autoreferenziali, e presentano
dei progetti per gestire tutto. Essendo autoreferenziali, e volendo gestire
progetti sempre più ampi, ormai sono degli imprenditori delle disgrazie
altrui. E quindi contemporaneamente gestiscono tutto e il contrario di
tutto. Lo gestiscono in modo improprio e del tutto incompetente perché
non possono avere tutte le competenze specialistiche che vengono richieste
da diverse forme di assistenza nonché dalla varietà dei paesi di origine
degli immigrati. E nello stesso tempo impediscono agli immigrati di esistere
sul territorio come soggetto riconoscibile. Non "esistendo" gli immigrati
sul territorio, si ritardano i percorsi di cittadinanza.
I centri sono delle galline dalle uova d'oro. Queste sono galline che
produrranno sempre uova, per il semplice fatto che c'è questa legge sull'immigrazione
che gioca al ribasso rispetto alle quote di accoglienza. Noi abbiamo due
stime. Da un lato, la Commissione delle quote stabilisce entro le 63mila
unità(poi divenute 83mila, con i 20mila aggiuntivi) la quota di entrata.
Dall'altro, numerose ricerche parlano costantemente della necessità di
250mila unità per rispondere alle domande del mondo del lavoro. Ciò significa
che quella differenza verrà coperta da irregolari che diventeranno clandestini
sul territorio, in un processo che favorisce la dequalificazione del lavoro.
Regolarmante saranno fermati dalle forze dell'ordine, che in tal caso
non fanno altro che aumentare il disordine, e così si va all'infinito.
Le risorse degli immigrati vengono distrutte sistematicamente e inutilmente
per problemi creati da leggi inadeguate.
Diversamente, se noi andassimo a modificare quelle leggi, semplificando
l'itinerario di cittadinanza nel momento in cui si entra nel mondo del
lavoro, e favorendo ancora prima tale ingresso, non avremmo questi inutili
centri di accoglienza. E abbatteremmo le varie mafie che si sono create
nei paesi di partenza, cosa di cui si continua a tacere. In ogni paese
in cui c'è la ricerca del permesso di soggiorno o di un visto, automaticamente
si sono create delle mafie organizzate che lucrano e che selezionano la
popolazione che arriva, una selezione il più delle volte negativa e scapito
dei più poveri, dei non affiliati a clan.
Una domanda banale: è possibile pensare a un'altra
legge sull'immigrazione? È possibile, ora, rovesciare la logica di Schengen?
Bisogna chiarire una confusione a riguardo. Schengen è un trattato
internazionale, che gli Stati non sono chiamati a rispettare sic et simpliciter,
gli stati possono essere chiamati a modificarlo. Noi non abbiamo una politica
sul Mediterraneo, Schengen deve quanto prima risolvere una politica sul
Mediterraneo. Non solo rispetto alle logiche restrittive.
A proposito di Albania
Di fronte al collasso dello
stato albanese, l'Italia non è stata in grado di adottare una politica
lungimirante. In dieci anni, come sono evoluti la cooperazione e l'intervento
italiano in Albania?
Nel '92 in un convegno che si tenne a Tirana noi ci auguravamo che
l'Albania potesse fare tesoro dei fallimenti altrui. Ma questo non è avvenuto:
in Albania si è insediato il peggio che si potesse insediare e a livello
europeo e a livello locale. Si è instaurato un capitalismo rapace, aggressivo.
Fino a cinque hanni fa, il salario medio non superava le 100mila lire
al mese. Adesso buona parte degli albanesi è arrivata a guadagnare 200-300mila
lire al mese. Ma il costo della vita è salito alle stelle, in alcuni casi
ha raggiuntto quello italiano. Escluso alcuni prodotti come il pane, i
pomodori, ad esempio, costano più che a Lecce, dato che sono importati
dalla Grecia. Molti prodotti sono importati…
Non si produce ancora…
Non c'è un apparato produttivo solido, le industrie e le imprese sono
rarissime. Persino l'acqua minerale, nonostante l'Albania sia ricca di
acqua, viene importata. È l'acqua Eureka, che viene dal Salento e che
acqua di pozzo, non buona. Ancora oggi, si aprono imprese che poi chiudono
in pochi mesi: i soldi investiti dove vanno?
Si fa bere agli albanesi, quindi, l'acqua Eureka, quando poi Fitto, il
governatore della Regione Puglia, parla un giorno sì e l'altro pure di
prendere l'acqua dall'Albania per l'Aquedotto Pugliese.
Giri di affari e di interessi ci sono. In Albania scorre un fiume
di miliardi: questo è il paese che, in percentuale, ha usufruito dei fondi
della cooperazione più di qualunque altro paese al mondo. Ma questo cooperazione
ha creato un inferno. Questo è il problema fondamentale di questi anni:
bisognerebbe ripensare da subito le forme delle cooperazione.
Per il momento si continua a rapinare la società albanese con salari bassissimi
e col decentramento produttivo: le imprese italiane chiudono da noi per
riaprire in Albania usufruendo della possibilità di pagare salari molto
bassi. Il processo di inferiorizzazione viene così esteso all'intera società
albanese, attraverso il mondo del lavoro. Nel '97 ci sono stati piccoli
esempi di rivolta contro queste imprese. La rivolta non si è scatenata
solo contro il governo e le finanziarie ma anche contro i nuovi imprenditori
che costringevano a salari da fame.
Se si va a Tirana o a Durazzo, è possibile vedere i risultati del decentramento
produttivo del calzaturiero. L'Albania comunista era comunque uno dei
paesi europei con il maggior tasso di alfabetizzazione. Ora i bambini
e i ragazzi non vanno più a scuola. Lo si capisce subito. E questa non
è solo la conseguenza del crollo dello stato, dell'emigrazione o della
ricerca del denaro facile, per cui, ad esempio, nessuno vuole fare più
l'insegnante se pagato così poco. La questione è un'altra: si assiste
a un processo di distruzione del nucleo familiare. In Albania con il lavoro
a domicilio i bambini non vanno più a scuola, usano collanti e prodotti
nocivi, hanno tutti le mani rovinate. Prediamo il caso delle tovaglie.
Per farle ci lavoro un'intera famiglia che alla fine riesce a mala pena
a mettere insieme i soldi per mangiare. Le tovaglie vengono pagate 110
lire l'una, che significa 110 lire ad ora. Quindi, lavorando un'intera
giornata, per dieci ore almeno, si guadagnano poco più più di mille lire.
Questi sono gli imprenditori che abbiamo mandato in Albania e di cui tanto
si parla.
La cooperazione ha finito
anche per allargare la forbice sociale, la distinzione fra ricchi e poveri?
È proprio questo il problema centrale riguardo alla cooperazione.
Anche il discorso dell'illegalità non va separato da quello economico.
Abbiamo due economie: una oiko-nomia, vernacolare, dei circuiti poveri,
e fatta di reti parentali, che si dà come circuito di sopravvivenza. L'altra
per chi va al supermercato: e questi sono o stranieri o albanesi con capitali
stranieri. Al supermercato tu trovi gli stessi prezzi (anche i prodotti)
che in Italia.
L'Albania subisce la spinta tipica dei paesi ridotti alla logica del sottosviluppo.
La ricerca di denaro diventa fondamentale: da una parte hai la spinta
ai consumi, dall'altro dei salari bassissimi. Qui nasce la grossa discrasia
del paese, paese dove tu hai la miseria più misera e dall'altra persone
che camminano con macchine di cento-duecento milioni. Questo diventa eclatante
in una città come Valona, la città con il più alto tasso di cavalli-vapore
per abitanti.
L'Albania nel giro di poco tempo si è lasciata alla spalle l'organizzazione
sociale "dalla culla alla tomba" del periodo enverista, ha saltato completamente
la fase della produzione per arrivare subito alla logica delle finanze
- con le finanziarie molti hanno scoperto l'albero dei soldi, le finanziarie
erano questo in fondo. L'Albania ha bruciato tutte tappe della storia
capitalistica in pochi anni e in maniera distorta.
Ci sono individui e gruppi albanesi (intellettuali, gruppi della società
civile, organizzazioni…) con cui è possibile interloquire? A cui è possibile
guardare per progetti alternativi?
C'è in Albania tutta una rete molto interessante di intellettuali.
Ma soprattutto c'è un numero incredibile di esperienze della società civile
che sono completamente dimenticate.
Ad esempio, quando c'è stata la missione Alba siamo insorti contro l'invio
dell'esercito in Albania perché era il paradosso: ancora una volta si
agiva in un'ottica emergenziale e come tutte le emergenze, questo avrebbe
distrutto una quantità enorme di risorse, avrebbe attivato i soliti circuiti
criminali (cosa che regolarmente è successo) e, soprattutto, a missione
finita, avrebbe lasciato le cose nello stesso modo se non peggio: tutto
questo è poi accaduto. Se invece si fossero attivate le reti locali che
pure esistono (come se l'Albania fosse nata ieri, come se in Albania non
ci fossero dei circuiti, associazionismo, centri di ricerca… in Albania
ci sono, nessuno ne parla, ma ci sono), non si sarebbe persa l'ennesima
occasione.
Ci sono circuiti di buon livello di produzione culturale che non hanno
risorse, e quindi sono costretti a morire oppure a legarsi intorno a partiti
politici, allineando la loro posizione.
La cooperazione ha attivato e continua a attivare, dei settori tutti quanti
ipertrofici, mentre la società civile, continua a essere dimenticata.
D'altronde basta vederli, questi cooperanti. Li vedi con gipponi e fuoristrada
da centinaia di milioni che girano in nome della cooperazione, mentre
i soggetti per i quali loro dovrebbero lavorare sono dei poveracci che
muoiono di fame e dai quali rimangono a una distanza siderale.
Quindi, sono esperienze più minoritarie e meno note quelle a cui guardare.
L'ultima volta che sono andato in Albania mi è stato consigliato un libro
fatto da un gruppo di ricercatori. Questi avevano fatto una ricerca sulla
caduta negativa della emigrazione. L'Albania è stata fortemente impoverita
dalla emigrazione, sia in termini di perdita di forza lavoro sia in termini
di perdita di risorse intellettuali; tantissimi scolarizzati se ne sono
andati. La ricerca era molto critica nei confronti del governo. Di gruppi
come questo ce ne sono parecchi. Ma il problema di fondo è quello di prima:
il rischio è che emerga il peggio e non il meglio della società. Quando
emerge solo quello che è legato ai partiti più forti o ai più forti cartelli
di cooperazione internazionale, quelle esperienze più alternative vengono
tagliate fuori.
Noi abbiamo centinaia di persone serissime che vivono nell'ombra e che
magari non dimostreranno mai di essere eroi, ma che hanno portato avanti
pezzi di società e di socialità in questi anni. Sono questi i soggetti
che dovremmo far emergere, a cui si dovrebbe dare spazio. Ma nella situazione
attuale sono rimasti schiacciati.
|