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Scrivere le intenzioni, gli interessi. gli obiettivi di un giornale è difficle ma vale la pena se si vuole cercare di renderlo uno spazio di scambio, scontro, elaborazione del conflitto.
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redazione

In questi anni l'Italia sta cambiando velocemente e uno degli aspetti più palpabili, seppur ancora poco studiato, riguarda l'ingresso nel nostro paese di nuovi (e sempre più numerosi) migranti.
L'immigrazione non produce un cambiamento notevole solo nella storia personale di centinaia di migliaia di individui. A mutare inevitabilmente sono anche la "fortezza Europa" e l'Italia, terra di passaggio e ultimamente sempre più di stanziamento, in particolare: mutazione, questa, che riguarda le nostre città, i nostri quartieri, il diritto (illuministico) di cittadinanza, le frontiere dell'integrazione e dell'esclusione.

Ma in Italia, di immigrazione si parla poco e male: profonda è l'omologazione e costante sterilizzazione dei mezzi di informazione nazionale, mai come oggi così conformisti e superficiali, compiacenti di uno status quo che raramente si vuole mettere in discussione. Come tutte le questioni che sollevano problematiche sociali, se da una parte i punti di vista buonisti ed edulcorati sono lasciati ai pochi reportage commissionati a giornalisti che se ne vanno in giro nei "quartieri degli immigrati" - piazza Vittorio, porta Palazzo... - e a trasmissioni come un "Mondo a colori", la politica ufficiale (dalle dichiarazioni dei principali esponenti politici, alla linea del Ministero degli Interni, agli editoriali dei principali quotidiani o organi di stampa e approfondimento) si chiude intorno a due tre parole d'ordine semplificate quanto ipocrite: i regolari li vogliamo, gli irregolari no. Ma cosa distingue il regolare dall'irregolare, dal momento che tutti sanno che, per entrare in Europa, soprattutto per le vittime di guerra e di crisi economiche irreversibili (cioè quasi tutti), non si ha altra scelta che entrare irregolarmente?

Domanda retorica, la nostra, di quelle che scoprono l'acqua calda, forse. Ma che oggi in Italia, paradossalmente, diventa sempre più eretico, o "demagogico", porsi. Eppure costituisce il nocciolo del problema: chi ha il diritto di giudicare del diritto di una persona a immigrare? Valgono più le condizioni disastrose del paese di partenza o i limiti imposti dai paesi di arrivo? Quali sono gli indicatori "oggettivi"? Quelli del mercato? E chi è, poi, moralmente e politicamente responsabile della partenza?
A queste domande si può provare a rispondere, raccontando in che modo si sono dipanate storie personali e collettive e attraverso quali snodi principali (motivi della partenza, modalità dei viaggi, problemi di integrazione e di esclusione, differenza tra prima e seconda generazione di immigrati, le politiche ufficiali e quelle di fatto, il lavoro, la casa, la religione anche, gli incontri/scontri culturali quando concretamente questi si pongono davanti ai nostri occhi, i tentativi di affrontarli), facendo, per quanto possibile, molta informazione, più approfondimento e assumendo, quando necessario, una decisa presa di posizione.
Alcuni temi riteniamo assolutamente imprescindibili nel nostro tentativo di critica e di approfondimento. E sono proprio quei temi che, nel momento in cui acquistano più importanza, meno se ne parla. Proviamo a elencarli.

-Gli immigrati sono innanzitutto uomini e donne, non numeri. Ciò che spinge uomini e donne a lasciare le proprie case e le proprie famiglie è il risultato un groviglio di motivazioni difficile da discernere a posteriori. Ad ogni modo, questo groviglio lascia intravedere una incredibile complessità (imbarazzante per un occidentale) di esistenze attraversate da crisi economiche, guerre, implosioni di parti di mondo con cui difficilmente riusciamo a entrare in contatto. Raccontare le storie di vita ( la vita là e la vita qua, la vita durante il viaggio) è un atto dovuto non solo nei confronti dei diretti interessati e dei loro drammi. È doveroso anche per motivi di moralità pratica: se il razzismo si afferma laddove è in atto un processo di spersonalizzazione nella percezione del diverso, porre immagini in carne e ossa è forse il tentativo di antidoto migliore.

-La mutazione di alcune aree italiane è ormai sotto i nostri occhi. L'Italia è un paese che manifesta tutta la sua interna diversità anche nei fatti di immigrazione. Man mano che si va da sud a nord, diversi sono i processi integrativi, diversa l'offerta di lavoro, diverso il modo di costituirsi delle varie comunità in un luogo (anche perché a volte estremamente diversi sono i tratti antropologici delle varie comunità), diverso il rapporto con gli italiani e le istituzioni locali, diversi i problemi che si pongono giorno per giorno. Alcuni esempi: la radicale differenza fra il modo di percepire e vivere l'immigrazione in Puglia, molo di sbarco ma non terra di sosta, e il Veneto, regione di quasi piena integrazione lavorativa ma non alloggiativa; la differenza fra Roma, dove, nell'ambito delle politiche locali legate all'immigrazione si è già assistito al consolidarsi di una nuova burocrazia, e Napoli dove questo processo è ancora agli inizi. Il problema occupazionale costituisce, in quest'ottica, uno degli aspetti significanti: l'integrazione in fabbrica, realtà concreta e pressoché univoca in Piemonte, Veneto, Emilia è quasi del tutto assente ne Lazio, dove pure il 5% della popolazione è immigrata di recente.
Fissare le differenze è anche questo un atto dovuto e necessario, se si vogliono gettare le basi di attività e interventi pratici, se si vogliono fornire motivi di confronto utili per chi vive in realtà diverse tra loro.

-Le relazioni internazionali. L'immigrazione è spesso la valvola di sfogo di situazioni insostenibili alla cui creazione ha contribuito l'azione di stati occidentali. Se alcune società collassano, chi ne è responsabile? Un esempio: la distruzione di interi villaggi nel Kurdistan turco, a opera dei costruttori di dighe finanziati dallo stesso governo italiano, ha posto 500mila persone nella condizione di immigrare per sopravvivere. Di casi come questi ne è piena la globalizzazione degli ultimi anni. Basti pensare all'anarchia albanese cui hanno contribuito le mire neo-colonialiste italiane, o allo stato attuale dei paesi del Maghreb e alla loro sottomissione economica nei confronti di Francia, Italia, Spagna.

Basti pensare ai trattati bilaterali sulle quote di ingresso per stato (estremamente rigide, ad esempio, con Albania e Tunisia) e che hanno sempre come contropartita "aiuti" economici occidentali. Il paradosso di questi accordi è pienamente riscontrabile nelle formule che li sottendono. Bloccando le frontiere, si concede il permesso di entrare solo a quella parte di immigrati che serve allo sviluppo delle economie occidentali o a integrare la nostra spesa pensionistica. Tutti gli altri sono ritenuti "inutili" o, addirittura, un pericolo per l'ordine pubblico. In cambio, poi, della "grazia" concessa a pochi, gli Stati dell'Ue si arrogano il diritto di manovrare dall'alto l'economia di paesi oggetto di trattati sull'immigrazione, decidendo quali settori dell'economia di tali paesi far sviluppare e quale no, quali prodotti fornire dal di fuori. In questo, il Mediterraneo, la prima area sovranazionale che immediatamente ci interessa, rappresenta il luogo di fossilizzazione di un radicale squilibrio nord-sud che costituisce la causa prima del dissesto economico e statale delle aree che "gettano fuori" immigrati. L'immigrazione diventa un modo per leggere i processi della globalizzazione, l'altra faccia della medaglia, la conseguenza attraverso cui leggere la causa.

-Le tratte dell'immigrazione e le politiche restrittive decise da Bruxelles delineano una nuova frontiera sull'asse nord-sud e sull'asse est-ovest. Alcune regioni italiane si sono trovate di colpo al confine della divisione che contraddistingue questa parte del globo: da una parte l'Europa, dall'altra tutto quanto risulta essere extra-comunitario. Le coste pugliesi e calabresi, il confine friulano sono diventati la via d'accesso all'Europa: i luoghi di un flusso ininterrotto cui negli ultimi dieci anni si è cercato di porre rimedio in termini di controllo militare e in termini di accoglienza, spesso mescolando i due piani senza distinguerli. La gestione della frontiera si è andata man mano definendo: ha avuto un suo sviluppo poco studiato e, soprattutto, poco criticato. Ma che ruolo ha assunto l'idea di frontiera nel nostro immaginario collettivo? Di quali politiche sono investite le regioni che si trovano "alla frontiera"? E, soprattutto, che cosa effettivamente avviene lungo la frontiera? Quale rapporto si è stabilito con i paesi non europei confinanti, quali misure di sicurezza sono state varate? Proveremo a sciogliere, per quanto possibile, queste domande, consapevoli del fatto che è proprio a partire da un'analisi del confine (e della sua dimensione originaria) che è possibile provare a elaborare un discorso più complesso sul rapporto fra Stati e territorio e sul modo in cui, poi, sia legittimo, "regolare", lo spostamento di masse di individui.

-Una nuova legislazione in materia sta proliferando, tra norme approvate e continue proposte di legge ancora da varare. Su tale piano formale è opportuno denunciare l'inasprirsi continuo di restrizioni, l'ipocrisia di alcuni provvedimenti, il vicolo cieco cui portano degli altri, il crescere, insomma, di un nuovo apparato di leggi. In una delle ultime relazioni della Commissione Antimafia della passata legislatura, si arrivati alla conclusione di proporre l'istituzione del reato di mafia per il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. I Quindici ultimamente hanno discusso a Bruxelles di quali provvedimenti penali adottare contro gli irregolari e contro i passeur. Sul piano legislativo è più evidente che altrove l'intenzione europea di discutere di immigrazione soli in termini di controllo e repressione. Un'intenzione, questa, che cozzando contro una differente e inarrestabile realtà di fatto, genera sul campo schizofrenie di ogni sorta.

-Eppure c'è una differenza fra l'Italia e gli altri paesi europei. Condividiamo i trattati di Schengen con paesi che hanno una più antica esperienza in fatto di immigrazione. Come vengono affrontati, quando si presentano, problemi simili? Come, in passato, i paesi del Nord Europa hanno risposto (nel bene e nel male) a dinamiche che noi ci troviamo ad affrontare per la prima volta? Leggere come sono andate le cose negli altri paesi, Francia Germania e Inghilterra soprattutto, ci aiuta a capire che cosa entra in gioca quando si affaccia sulla scena sociale una seconda e poi una terza generazione di immigrati; ci offre un utile specchio per capire quale futuro potrebbe delinearsi per i figli dei figli dei recenti immigrati sul nostro territorio.

-La pedagogia. Il lavoro coi bambini rappresenta una tappa fondamentale del nostro lavoro. Questa convinzione nasce da vari motivi: nasce dalla necessità di sperimentare su di un terreno pratico, fatto di un lavoro costante e quotidiano, le nostre idee e i nostri progetti. Ma, forse, ciò che, più di ogni altra cosa, ci ha spinto a individuare la pedagogia come terreno pratico di lavoro, è la consapevolezza che solo attraverso un processo di trasmissioni di valori e idee, da pochi a pochi, possa mettersi in moto un meccanismo teso a porre le basi di una trasformazione dei rapporti tra gli individui nella società futura. L'educazione, la trasmissione di valori e conoscenze indispensabili per la crescita di ciascun individuo sono tra i temi che abbiamo più a cuore. Abbiamo detto i bambini, ma l'educazione, la pedagogia riguarda noi tutti, riguarda il mondo dei bambini quanto quello degli adulti. Quello che ci interessa è la trasmissione di cultura e valori in una prospettiva transnazionale. Tanto più la nostra società si caratterizza per pluralismo linguistico e culturale, unito a quello sociale, politico e religioso, e più avvertiamo la necessità di discutere approfonditamente di educazione interculturale. Parleremo delle nostre iniziative, confronteremo le nostre idee ed esperienze, cercheremo di individuare nelle esperienze del passato dei "grandi maestri" modelli possibili di intervento.

Questi sono solo alcuni dei temi che andremo a trattare nel sito. Temi che affronteremo tramite inchieste, reportage, editoriali, interviste, dibattiti e tavole rotonde a secondo dei temi, nonché fornendo molto materiale informativo (leggi, rassegne stampa, libri utili, altri siti...) Di una cosa siamo convinti: riflettere sull'immigrazione non vuol dire osservare dall'esterno un mondo che non ci appartiene. Vuol dire prendere coscienza, invertendo quella linea di tendenza (anche nelle esperienze "minoritarie") che fa della disinformazione costante e della sistematica non-riflessione la regola. Su questi temi si gioca la trasformazione della nostra società nei prossimi vent'anni; ed è ora che bisogna prendere le distanze da quel processo che mira a gettare basi miopi e inique, soprattutto per quanto riguarda i problemi più complessi.

In secondo luogo, dalla pedagogia alla critica della politica, alle forme del giornalismo il sito si confronterà costantemente con i nuovi scenari geopolitici e internazionali in cui siamo inseriti. Essere luogo di riflessione e elaborazione "altra" oggi vuol dire prendere atto di dinamiche sovranazionali sempre più schiaccianti: ogni scelta morale e politica ha come scenario di riferimento il pianeta e non solo la "nostra" parte di mondo. L'immigrazione è parte di questo scenario globale: volerla leggere in un'ottica unicamente nazionale - soprattutto quando si parla di "interventi risolutivi" rispetto ai problemi che si presentano - è un'ulteriore forzatura eurocentrica. Allo stesso modo, schiacciare la lettura solo e soltanto su un presente che si vuole, non avere relazione alcuna con un passato storico e sociale, da una parte, e con implicazioni future, dall'altra, è un pericoloso atto di miopia.