Parviz oggi vive a nord di Roma, ai confini di una periferia squallida
e mal cresciuta. Per arrivare a casa sua, lasciati i palazzoni si continua
su strade buie di campagna fino a incrociare una piccola zona residenziale
ai bordi del Raccordo Anulare. A destra e a sinistra case/villette di
due tre piani con giardino. Qui la strada è sgombra, un lieto e silenzioso
approdo dopo la città. L’aria è dolce e primaverile, c’è una chiara somiglianza
tra il carattere leggero e gentile di Parviz e il posto dove ha scelto
di vivere. Si percepisce un’atmosfera di solitudine e di rifugio. Se fosse
italiano sarebbe diverso, ma per lui, un giovane iraniano, i contorni
si definiscono secondo i caratteri del dopo, il dopo di qualcosa di importante
che è successo: dall’Iran in Italia, Teheran, il viaggio, il centro di
accoglienza, la Commissione, l’incertezza, il lavoro, e ora questa casa
come segno di un nuovo inizio. La strada è alberata e si sente solo il
fruscio del vento sulle foglie. Esternamente la casa è nuova e pulita,
simile a una villetta. All’interno le scale sono rimaste di cemento armato
senza pavimentazione, lo stesso per i pianerottoli, i corrimano sono ancora
con le tavole che si usano nei cantieri, davanti alle porte di casa le
famiglie hanno poggiato sul cemento fogli di linoleum, ci sono i sacchetti
dell’immondizia e le scarpe. Il vuoto intorno, il vento, l’apparenza pulita
degli esterni e il nudo della struttura interna rendono tutto surreale,
ai limiti della città, di questa città così apparentemente dimentica del
tutto. La casa è stata affittata senza intonaci e con poco altro. Parviz
l’ha ristrutturata e dipinta, il colore delle pareti è un tenue rosato,
il lampadario della cucina-soggiorno viene dall’Iran in vetro colorato
e disegnato, tre sfere sfalsate che danno una luce calda. Ci sono diversi
tappeti sparsi per la casa. Ce n’è uno che ha un centinaio di anni, è
molto prezioso e rovinato, con un grande buco su un lato. Parviz restaura
tappeti persiani, lavora in casa. Capita spesso con i suoi amici iraniani
di passare una serata insieme in cui ognuno racconta il proprio viaggio,
momento per momento. C’è stata una volta in cui la notte intera passò
a ricordare i viaggi di ciascuno. Il suo italiano è ancora stentato, già
con un forte accento romano. Quando racconta si concentra per essere il
più chiaro possibile, per non lasciar niente al caso e perché il viaggio
lo ha segnato profondamente. Ne ricorda fotograficamente ogni momento
e ciascun passaggio. Ora è bello ricordare, ma allora non era così, avevano
sempre di fronte agli occhi la paura concreta di morire o di essere rimandati
indietro.
***Per chi è arrivato il
viaggio è una tappa decisiva della propria vita, un lutto e una nascita,
una brutta esperienza che diventa un “avercela fatta”. La rievocazione
della propria vita, in questo caso del viaggio, diventa un racconto autobiografico
tra paura, pericolo, incoscienza, violenza e impotenza, ma anche bellezza,
incanto, ironia, passione, desiderio, amicizia e amore per la propria
vita. Il viaggio nella loro storia personale costituisce un momento indimenticabile
e decisivo. Allo stesso modo anche chi ascolta da quest’altra parte deve
concentrarsi per capire, immaginare, seguire gli avvenimenti. Essere distratti
costituirebbe, per l’importanza del vissuto, un imperdonabile mancanza
di rispetto, uno sfregio. Parviz è partito dal confine tra Iran e Turchia.
E’ un confine difficile perché sono tutti sentieri di montagna, a picco
sulle valli. Dopo un lungo viaggio è arrivato in Grecia e da qui ha proseguito
per l’Albania. In Albania era il 1998. “Il mio gruppo era composto
da quindici persone, cinque iraniani, cinque curdi iracheni e cinque afgani.
Dalla Grecia entriamo in Albania su tre taxi, davanti a noi una macchina
ci precede per segnalare con le radio la situazione sulla strada. Prima
di un posto di blocco veniamo avvisati, fermano le macchine e aspettiamo
il segnale successivo. La macchina che è avanti paga il passaggio e poi
continuiamo. Ovunque vediamo persone armate di pistole e kalasnikov. A
un certo punto, sulla strada, scendono di corsa davanti a noi un gruppo
di militari con il passamontagna, sparano in aria, bloccano le macchine.
E’ la polizia. Ci portano tutti al commissariato e dopo qualche ora ci
riaccompagnano al confine con la Grecia. La nostra guida ha in tasca una
montagna di dollari tutti arrotolati, paga ogni volta che ce n’è bisogno,
paga di nuovo la polizia di confine e rientriamo in Albania. Questa volta
superando di nuovo i blocchi stradali arriviamo in un villaggio sul mare.
Ci sistemano in una casa abbandonata, è un grande stanzone e dentro buttati
a terra su delle coperte troviamo oltre cento persone, tutti curdi siriani,
uomini, donne, bambini e famiglie intere. Poco più in là vediamo altre
case tutte occupate da gente come noi. La notte sentiamo gli spari e vediamo
sulle nostre teste schizzare il rosso dei proiettili. In questo posto
siamo rimasti dieci giorni e tutte le notti sparavano. Di giorno era anche
peggio perché sempre venivano bande armate, irrompevano dentro la casa
sparando in aria, volevano i soldi, ci strattonavano, ci urlavano di darglieli.
Allora impugnando la pistola arrivava il padrone di casa, tutti sparavano
in aria, noi ci buttavamo a terra. A quel punto cominciava una contrattazione,
alla fine se ne andavano, ma solo dopo essere stati pagati. La mattina
da un’altra casa portavano il latte e il pane per cento quindici persone,
il latte lo allungavano con l’acqua, metà e metà. A pranzo in un grande
pentolone arrivava la pasta, spaghetti, arrivavano che erano freddi e
tutti appiccicati, senza condimento, senza sale, olio, niente. La sera
di nuovo pane e latte. Così per dieci giorni. Io me la sono cavata abbastanza
bene perché in Iran ho fatto per due anni il servizio militare nel corpo
chiamato “rangers”. Il nostro addestramento riguardava le tecniche di
sopravvivenza in situazioni estreme. Ci insegnavano come procurarci il
cibo, l’acqua, i ripari, ad avere familiarità con montagne e boschi. In
Albania cercavo di darmi da fare per trovare da mangiare qualcosa di più
ricco. In un campo lì vicino avevo trovato, lasciate ad essiccare, tante
cipolle. Ne rubavo ogni volta che potevo, ai miei compagni dicevo di mangiarne,
per le vitamine, ma anche come protezione antibatterica. Per la partenza
sugli scafi siamo stati divisi in più gruppi. Era una divisione ragionata,
gli uomini soli accompagnavano le donne e i bambini in maniera che durante
il viaggio per qualsiasi eventualità potessero aiutarli. Con noi c’era
una donna curda con tre bambine di cinque e tre anni, e una neonata di
sei mesi. Questa donna ha altre quattro figlie che non sono venute con
lei e che ha lasciato in Siria, tutte più grandi. Non ha marito. Gli altri
siriani l’allontanavano dal gruppo, la tenevano in disparte, le altre
donne non gli parlavano, dicevano che era una donna che portava sfortuna,
una donna cattiva perché aveva generato solo figlie femmine. Noi cercavamo
di aiutarla, stava visibilmente male e gli era andato via il latte dal
seno per la paura. Uno shock, una paura improvvisa e forte può togliere
il latte alle donne che stanno allattando. La bambina di sei mesi non
poteva certo bere il latte che davano a noi, così andavamo a comprare
un po’ di latte buono per la neonata. Ci occupavamo di lei.
***Una notte ci hanno radunato
e portato con diversi furgoni al porto, da qui partiranno per l’Italia,
nella stessa notte, circa dieci motoscafi. E’ l’inizio dell’autunno. Il
nostro scafo ha caricato cinquantatre persone, la donna con le bambine
viene con noi. Quando lasciamo il piccolo porto il mare è in tempesta
e non ci permette di continuare, così torniamo indietro. Riproviamo il
giorno dopo, ma anche questa volta è brutto tempo e piove forte. Dopo
circa mezzora di mare incrociamo un altro scafo pieno di persone che torna
indietro e ci indica che è impossibile continuare. Il giorno seguente
facciamo un’altra prova. Appena partiti un motore si rompe, comincia a
entrare acqua, il gommone sta affondando. L’albanese che ci guida chiama
aiuti con la radio e dopo poco vengono a prenderci. Intanto le notti che
passiamo in Albania sono sempre più brutte, continuano gli spari e le
bande armate vengono a trovarci tutti i giorni e ogni volta è la stessa
cosa. Facciamo la quarta prova. Ci allontaniamo non molto dalla costa
quando entrambi i motori vanno in avaria. Vicino a noi spunta una piccola
isola, le guide remano fino a raggiungerla, noi scendiamo mentre un altro
scafo ci raggiunge dalla costa e lì per lì aggiustano i motori. Torniamo
indietro. Dopo la quarta prova la maggior parte delle persone voleva abbandonare
e tornare in Grecia. La nostra guida ci ha garantito che la quinta volta
sarebbe andato tutto bene, diceva che aveva affittato uno scafo nuovissimo
con motori yamaha e con lo scandaglio per controllare allo sbarco la profondità
dell’acqua. Io anche ho insistito di andare, di provare l’ultima volta.
Nel nostro gruppo c’era un curdo iracheno che ogni volta che cominciava
il viaggio si metteva a cantare il corano a squarcia gola, cantava il
suo funerale. Noi sempre gli dicevamo di stare zitto, ma lui sembrava
non poterne fare a meno. L’ultimo viaggio, il quinto, partiamo a mezzogiorno,
quest’uomo comincia a sentirsi male, soffre ai reni, urla e si dimena
sullo scafo, chiediamo alle guide di tornare indietro, allora loro si
fermano, spengono il motore e ci dicono: “o continuiamo o lo buttiamo
in mare”. Abbiamo continuato. Sullo scafo eravamo cinquantatre persone.
Lo scafo era lungo quattro metri e mezzo, quando siamo saliti tutti l’acqua
arrivava giusto sulla sponda del gommone, bastava sporgere la mano per
toccarla. C’erano tre albanesi, uno alla guida e due con la muta e le
bombole, tutti e tre erano armati. “Questa volta”, dico ai miei compagni,
“o ce la facciamo o moriamo”. Dopo un’ora di mare incrociamo una nave
merci sulla nostra sinistra, sfioriamo la collisione per pochi metri,
la nave suona, cerca di avvisarci, ma loro lasciano correre il motoscafo
sulla stessa traiettoria. Ho visto la nave passare proprio sulle nostre
teste. Tutti urlavamo. Pochi minuti dopo ci individuano due motovedette
della Guardia di Finanza e un elicottero. Gli albanesi buttano in mare
tutti i nostri bagagli e comincia l’inseguimento che dura circa venti
minuti. Le motovedette ci incrociano da davanti e dietro, lo scafo fa
veloci manovre a destra e a sinistra piegandosi pericolosamente da una
parte all’altra che dobbiamo tenerci forte per non cadere in acqua. Dentro
di noi pregavamo la Guardia di Finanza di smettere, gli albanesi non si
sarebbero di certo arresi. Dall’elicottero e dalle motovedette lanciano
in acqua delle reti per bloccare il nostro scafo, ma gli albanesi che
cosa fanno: spengono i motori tirano su le eliche, lasciano scivolare
sotto la rete e poi ripartono. Durante una virata del motoscafo la bambina
di sei mesi che è tra le braccia della madre gli scivola via cadendo dalla
nostra parte, l’afferriamo al volo. Non avremmo potuto resistere ancora
a lungo, e saremmo di certo caduti in acqua se gli albanesi durante l’inseguimento
non avessero fatto con la mano un cenno alla Guardia di Finanza. Il segno
indicava chiaramente che se avessero continuato a inseguirci loro ci avrebbero
gettati tutti in mare. A quel punto le motovedette si fermano e ci scortano
fino alla costa. L’elicottero è ancora sopra di noi. A cento metri dalla
riva gli uomini prendono in braccio i bambini, aiutano le donne e scendiamo
in acqua, si tocca appena. Conclusa l’operazione di sbarco rivediamo gli
albanesi scappare veloci e di nuovo dietro le motovedette. Sulla costa
c’erano i giornalisti, le televisioni e due pulman pieni di gente sbarcata
prima di noi. Dall’Italia sono uscito in Germania, lì sono rimasto un
anno poi la polizia mi è venuta a prendere e mi ha riportato in Italia
a chiedere l’asilo politico. Quando da un paese europeo, Grecia o Italia,
entri in un altro Stato della Comunità devi disfarti di tutte le prove
che possono permettere alla polizia di ricostruire i tuoi passaggi all’interno
dell’Europa: biglietti di treni, pacchetti di sigarette, biglietti dell’autobus,
qualsiasi cosa che dica da dove sei passato. Io, prima di entrare in Germania,
con molto dispiacere, mi sono dovuto disfare del mio quaderno dove avevo
appuntato il diario del mio viaggio dall’Iran in Italia.
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