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Per chi è arrivato il viaggio è una tappa decisiva della propria vita, un lutto e una nascita, una brutta esperienza che diventa un “avercela fatta”. ***

“Una notte ci hanno radunato e portato con diversi furgoni al porto, da qui partiranno per l’Italia, nella stessa notte, circa dieci motoscafi. E’ l’inizio dell’autunno.” ***

"In questi giorni ho la sensazione che quando si entra in questo paese si fa un patto con il diavolo. Si consegna il passaporto, si riceve un timbro, si vuole guadagnare qualcosa, si comincia… ma allo stesso tempo si vuole tornare indietro! E chi vorrebbe mai restare? Freddo, umido, miseria; cibo orribile, giornali spaventosi… e chi vorrebbe mai restare? In un posto dove non si è mai ben accetti, ma solo tollerati. Appena tollerati. Come se si fosse degli animali diventatifinalmente domestici. Chi vorrebbe mai restare? Ma si è stretto un patto con il diavolo… ti trascina dentro e all'improvviso non sei più adatto al ritorno, i tuoi figli diventano irriconoscibili, non appartieni più a nessun posto".
Dalla quarta di copertina del romanzo: "denti bianchi" di Zadie Smith (mondadori, 2000)

Parviz, il viaggio
a cura di Marco Carsetti

Parviz oggi vive a nord di Roma, ai confini di una periferia squallida e mal cresciuta. Per arrivare a casa sua, lasciati i palazzoni si continua su strade buie di campagna fino a incrociare una piccola zona residenziale ai bordi del Raccordo Anulare. A destra e a sinistra case/villette di due tre piani con giardino. Qui la strada è sgombra, un lieto e silenzioso approdo dopo la città. L’aria è dolce e primaverile, c’è una chiara somiglianza tra il carattere leggero e gentile di Parviz e il posto dove ha scelto di vivere. Si percepisce un’atmosfera di solitudine e di rifugio. Se fosse italiano sarebbe diverso, ma per lui, un giovane iraniano, i contorni si definiscono secondo i caratteri del dopo, il dopo di qualcosa di importante che è successo: dall’Iran in Italia, Teheran, il viaggio, il centro di accoglienza, la Commissione, l’incertezza, il lavoro, e ora questa casa come segno di un nuovo inizio. La strada è alberata e si sente solo il fruscio del vento sulle foglie. Esternamente la casa è nuova e pulita, simile a una villetta. All’interno le scale sono rimaste di cemento armato senza pavimentazione, lo stesso per i pianerottoli, i corrimano sono ancora con le tavole che si usano nei cantieri, davanti alle porte di casa le famiglie hanno poggiato sul cemento fogli di linoleum, ci sono i sacchetti dell’immondizia e le scarpe. Il vuoto intorno, il vento, l’apparenza pulita degli esterni e il nudo della struttura interna rendono tutto surreale, ai limiti della città, di questa città così apparentemente dimentica del tutto. La casa è stata affittata senza intonaci e con poco altro. Parviz l’ha ristrutturata e dipinta, il colore delle pareti è un tenue rosato, il lampadario della cucina-soggiorno viene dall’Iran in vetro colorato e disegnato, tre sfere sfalsate che danno una luce calda. Ci sono diversi tappeti sparsi per la casa. Ce n’è uno che ha un centinaio di anni, è molto prezioso e rovinato, con un grande buco su un lato. Parviz restaura tappeti persiani, lavora in casa. Capita spesso con i suoi amici iraniani di passare una serata insieme in cui ognuno racconta il proprio viaggio, momento per momento. C’è stata una volta in cui la notte intera passò a ricordare i viaggi di ciascuno. Il suo italiano è ancora stentato, già con un forte accento romano. Quando racconta si concentra per essere il più chiaro possibile, per non lasciar niente al caso e perché il viaggio lo ha segnato profondamente. Ne ricorda fotograficamente ogni momento e ciascun passaggio. Ora è bello ricordare, ma allora non era così, avevano sempre di fronte agli occhi la paura concreta di morire o di essere rimandati indietro.
***Per chi è arrivato il viaggio è una tappa decisiva della propria vita, un lutto e una nascita, una brutta esperienza che diventa un “avercela fatta”. La rievocazione della propria vita, in questo caso del viaggio, diventa un racconto autobiografico tra paura, pericolo, incoscienza, violenza e impotenza, ma anche bellezza, incanto, ironia, passione, desiderio, amicizia e amore per la propria vita. Il viaggio nella loro storia personale costituisce un momento indimenticabile e decisivo. Allo stesso modo anche chi ascolta da quest’altra parte deve concentrarsi per capire, immaginare, seguire gli avvenimenti. Essere distratti costituirebbe, per l’importanza del vissuto, un imperdonabile mancanza di rispetto, uno sfregio. Parviz è partito dal confine tra Iran e Turchia. E’ un confine difficile perché sono tutti sentieri di montagna, a picco sulle valli. Dopo un lungo viaggio è arrivato in Grecia e da qui ha proseguito per l’Albania. In Albania era il 1998.
“Il mio gruppo era composto da quindici persone, cinque iraniani, cinque curdi iracheni e cinque afgani. Dalla Grecia entriamo in Albania su tre taxi, davanti a noi una macchina ci precede per segnalare con le radio la situazione sulla strada. Prima di un posto di blocco veniamo avvisati, fermano le macchine e aspettiamo il segnale successivo. La macchina che è avanti paga il passaggio e poi continuiamo. Ovunque vediamo persone armate di pistole e kalasnikov. A un certo punto, sulla strada, scendono di corsa davanti a noi un gruppo di militari con il passamontagna, sparano in aria, bloccano le macchine. E’ la polizia. Ci portano tutti al commissariato e dopo qualche ora ci riaccompagnano al confine con la Grecia. La nostra guida ha in tasca una montagna di dollari tutti arrotolati, paga ogni volta che ce n’è bisogno, paga di nuovo la polizia di confine e rientriamo in Albania. Questa volta superando di nuovo i blocchi stradali arriviamo in un villaggio sul mare. Ci sistemano in una casa abbandonata, è un grande stanzone e dentro buttati a terra su delle coperte troviamo oltre cento persone, tutti curdi siriani, uomini, donne, bambini e famiglie intere. Poco più in là vediamo altre case tutte occupate da gente come noi. La notte sentiamo gli spari e vediamo sulle nostre teste schizzare il rosso dei proiettili. In questo posto siamo rimasti dieci giorni e tutte le notti sparavano. Di giorno era anche peggio perché sempre venivano bande armate, irrompevano dentro la casa sparando in aria, volevano i soldi, ci strattonavano, ci urlavano di darglieli. Allora impugnando la pistola arrivava il padrone di casa, tutti sparavano in aria, noi ci buttavamo a terra. A quel punto cominciava una contrattazione, alla fine se ne andavano, ma solo dopo essere stati pagati. La mattina da un’altra casa portavano il latte e il pane per cento quindici persone, il latte lo allungavano con l’acqua, metà e metà. A pranzo in un grande pentolone arrivava la pasta, spaghetti, arrivavano che erano freddi e tutti appiccicati, senza condimento, senza sale, olio, niente. La sera di nuovo pane e latte. Così per dieci giorni. Io me la sono cavata abbastanza bene perché in Iran ho fatto per due anni il servizio militare nel corpo chiamato “rangers”. Il nostro addestramento riguardava le tecniche di sopravvivenza in situazioni estreme. Ci insegnavano come procurarci il cibo, l’acqua, i ripari, ad avere familiarità con montagne e boschi. In Albania cercavo di darmi da fare per trovare da mangiare qualcosa di più ricco. In un campo lì vicino avevo trovato, lasciate ad essiccare, tante cipolle. Ne rubavo ogni volta che potevo, ai miei compagni dicevo di mangiarne, per le vitamine, ma anche come protezione antibatterica. Per la partenza sugli scafi siamo stati divisi in più gruppi. Era una divisione ragionata, gli uomini soli accompagnavano le donne e i bambini in maniera che durante il viaggio per qualsiasi eventualità potessero aiutarli. Con noi c’era una donna curda con tre bambine di cinque e tre anni, e una neonata di sei mesi. Questa donna ha altre quattro figlie che non sono venute con lei e che ha lasciato in Siria, tutte più grandi. Non ha marito. Gli altri siriani l’allontanavano dal gruppo, la tenevano in disparte, le altre donne non gli parlavano, dicevano che era una donna che portava sfortuna, una donna cattiva perché aveva generato solo figlie femmine. Noi cercavamo di aiutarla, stava visibilmente male e gli era andato via il latte dal seno per la paura. Uno shock, una paura improvvisa e forte può togliere il latte alle donne che stanno allattando. La bambina di sei mesi non poteva certo bere il latte che davano a noi, così andavamo a comprare un po’ di latte buono per la neonata. Ci occupavamo di lei.

***Una notte ci hanno radunato e portato con diversi furgoni al porto, da qui partiranno per l’Italia, nella stessa notte, circa dieci motoscafi. E’ l’inizio dell’autunno. Il nostro scafo ha caricato cinquantatre persone, la donna con le bambine viene con noi. Quando lasciamo il piccolo porto il mare è in tempesta e non ci permette di continuare, così torniamo indietro. Riproviamo il giorno dopo, ma anche questa volta è brutto tempo e piove forte. Dopo circa mezzora di mare incrociamo un altro scafo pieno di persone che torna indietro e ci indica che è impossibile continuare. Il giorno seguente facciamo un’altra prova. Appena partiti un motore si rompe, comincia a entrare acqua, il gommone sta affondando. L’albanese che ci guida chiama aiuti con la radio e dopo poco vengono a prenderci. Intanto le notti che passiamo in Albania sono sempre più brutte, continuano gli spari e le bande armate vengono a trovarci tutti i giorni e ogni volta è la stessa cosa. Facciamo la quarta prova. Ci allontaniamo non molto dalla costa quando entrambi i motori vanno in avaria. Vicino a noi spunta una piccola isola, le guide remano fino a raggiungerla, noi scendiamo mentre un altro scafo ci raggiunge dalla costa e lì per lì aggiustano i motori. Torniamo indietro. Dopo la quarta prova la maggior parte delle persone voleva abbandonare e tornare in Grecia. La nostra guida ci ha garantito che la quinta volta sarebbe andato tutto bene, diceva che aveva affittato uno scafo nuovissimo con motori yamaha e con lo scandaglio per controllare allo sbarco la profondità dell’acqua. Io anche ho insistito di andare, di provare l’ultima volta. Nel nostro gruppo c’era un curdo iracheno che ogni volta che cominciava il viaggio si metteva a cantare il corano a squarcia gola, cantava il suo funerale. Noi sempre gli dicevamo di stare zitto, ma lui sembrava non poterne fare a meno. L’ultimo viaggio, il quinto, partiamo a mezzogiorno, quest’uomo comincia a sentirsi male, soffre ai reni, urla e si dimena sullo scafo, chiediamo alle guide di tornare indietro, allora loro si fermano, spengono il motore e ci dicono: “o continuiamo o lo buttiamo in mare”. Abbiamo continuato. Sullo scafo eravamo cinquantatre persone. Lo scafo era lungo quattro metri e mezzo, quando siamo saliti tutti l’acqua arrivava giusto sulla sponda del gommone, bastava sporgere la mano per toccarla. C’erano tre albanesi, uno alla guida e due con la muta e le bombole, tutti e tre erano armati. “Questa volta”, dico ai miei compagni, “o ce la facciamo o moriamo”. Dopo un’ora di mare incrociamo una nave merci sulla nostra sinistra, sfioriamo la collisione per pochi metri, la nave suona, cerca di avvisarci, ma loro lasciano correre il motoscafo sulla stessa traiettoria. Ho visto la nave passare proprio sulle nostre teste. Tutti urlavamo. Pochi minuti dopo ci individuano due motovedette della Guardia di Finanza e un elicottero. Gli albanesi buttano in mare tutti i nostri bagagli e comincia l’inseguimento che dura circa venti minuti. Le motovedette ci incrociano da davanti e dietro, lo scafo fa veloci manovre a destra e a sinistra piegandosi pericolosamente da una parte all’altra che dobbiamo tenerci forte per non cadere in acqua. Dentro di noi pregavamo la Guardia di Finanza di smettere, gli albanesi non si sarebbero di certo arresi. Dall’elicottero e dalle motovedette lanciano in acqua delle reti per bloccare il nostro scafo, ma gli albanesi che cosa fanno: spengono i motori tirano su le eliche, lasciano scivolare sotto la rete e poi ripartono. Durante una virata del motoscafo la bambina di sei mesi che è tra le braccia della madre gli scivola via cadendo dalla nostra parte, l’afferriamo al volo. Non avremmo potuto resistere ancora a lungo, e saremmo di certo caduti in acqua se gli albanesi durante l’inseguimento non avessero fatto con la mano un cenno alla Guardia di Finanza. Il segno indicava chiaramente che se avessero continuato a inseguirci loro ci avrebbero gettati tutti in mare. A quel punto le motovedette si fermano e ci scortano fino alla costa. L’elicottero è ancora sopra di noi. A cento metri dalla riva gli uomini prendono in braccio i bambini, aiutano le donne e scendiamo in acqua, si tocca appena. Conclusa l’operazione di sbarco rivediamo gli albanesi scappare veloci e di nuovo dietro le motovedette. Sulla costa c’erano i giornalisti, le televisioni e due pulman pieni di gente sbarcata prima di noi. Dall’Italia sono uscito in Germania, lì sono rimasto un anno poi la polizia mi è venuta a prendere e mi ha riportato in Italia a chiedere l’asilo politico. Quando da un paese europeo, Grecia o Italia, entri in un altro Stato della Comunità devi disfarti di tutte le prove che possono permettere alla polizia di ricostruire i tuoi passaggi all’interno dell’Europa: biglietti di treni, pacchetti di sigarette, biglietti dell’autobus, qualsiasi cosa che dica da dove sei passato. Io, prima di entrare in Germania, con molto dispiacere, mi sono dovuto disfare del mio quaderno dove avevo appuntato il diario del mio viaggio dall’Iran in Italia.