I
sotterranei
di
Kerouac
a
cura di Giovanni
Nel
1958 Kerouac scrisse “ I Sotterranei “, un libro che affronta
l’inquietudine esistenziale di un gruppo di “ beat “ americani degli anni
’50. La sua prosa contorta e irregolare, il periodare ampio e complesso,
spesso privo di punteggiatura, sembrano ispirarsi al flusso ininterrotto dei
pensieri; alcuni parlano di terminologia e di sintassi del jazz, una sorta di
melodia continua.
E’
un libro non molto conosciuto, spesso adombrato dal fratello maggiore “ Sulla
strada “, eppure un libro che ha lasciato un segno profondo nel tempo, con
un’idea di base a mio avviso più semplice di tante altre: quella di una
storia d’amore commossa e nevrotica fra due giovani amanti, un bianco e una
negra, insieme a un gruppo di giovani “ disadattati “ che si ribellano a una
società sempre più strutturata e conformista, stereotipata nelle regole e nei
comportamenti umani, in definitiva, nei sentimenti.
Scrive
Kerouac:” Julien
Alexander e l’Angelo dei sotterranei, i sotterranei è una definizione
inventata da Adam Moorad poeta e amico mio diceva < sono hip ma non
esibizionisti, intelligenti ma senza pedanteria, intellettuali fin nelle dita
dei piedi e sanno tutto-tutto su Pound eppure non la mettono dura e non si
parlano addosso in continuazione, sono tranquilli e silenziosi e come tanti
Cristi.”
Tenendo bene presente la
fondamentale differenza che intercorre fra il contesto della
“beat generation” americana anni ’50 e la nostra epoca regolata da
Internet e dall’idea dominante di globalizzazione, ho rintracciato nei “
Sotterranei “ di Kerouac un semplice spunto, forse nient’altro che una
suggestione, per un’iniziativa che da tempo mi sta a cuore: quella di un
circolo letterario o più precisamente, per usare le parole di un mio amico, un
vero e proprio laboratorio culturale, dove poter condividere con altri studenti
il proprio amore per l’arte, sentirsi liberi
di parlare delle proprie poesie o racconti, delle nostre passioni per questo o
quell’autore, senza il timore di non essere ascoltati perché privi di chissà
quale cultura scolastica o accademica. Un modo per esprimersi, per sentirsi un
po’ meno soli, attraverso un canale di comunicazione sempre più alternativo e
isolato dal linguaggio quotidiano: quello letterario e artistico.
Spinti giù nei
sotterranei, per volontà propria o semplice inerzia si va giù, si cade, in un
luogo dove poter esprimere se stessi, un luogo dove poter abbandonare una delle
nostre più grandi paure: forse quella di rimanere talvolta vittime del
non-senso generalizzato, di un torpore
artistico e spirituale che ci annebbia la mente e la capacità di discernere ciò
che è giusto per noi. E’ un bisogno di espressione, un disperato bisogno di
prendere coscienza di noi stessi attraverso le mutevoli multiformi vie
dell’arte. Con un termine un po’ forte, lo chiamerei “autocoscienza”.
Questa l’idea di base,
questo il senso un po’ sfuggente del manifesto dei Sotterranei:
uno
spazio nero, delimitato da un orizzonte obliquo, che si affaccia ad un sole,
nero…
Perché
obliquo, e non orizzontale? E perché, il nero?
Una
linea obliqua ha un potere, un effetto destabilizzante per colui che guarda;
allo stesso tempo, il nero rappresenta una zona d’ombra alla quale ci sentiamo
di appartenere ( per qualche strana coincidenza o casualità che nemmeno io so
spiegare, neanche l’autore stesso ).
L’idea
di base è dunque quella di un moto dall’interno all’esterno, di un qualcosa
di nascosto che tenta di emergere da una zona d’ombra a una di luce, per
osservare… un sole. E un sole, per l’appunto, nero.
Che
sia un messaggio negativo, appare indubbio alla maggior parte degli osservatori.
Io direi, piuttosto che negativo, inquietante; esprime qualcosa che non è stato
ancora definitivamente risolto, quindi, una problematica. Sento di appartenere a
uno spazio nero, a una zona d’ombra dalla quale vorrei uscire.
Per me la scrittura, l’arte, la poesia, il racconto, oggi come secoli
addietro, nascono da una tensione dello spirito, da un bisogno di esorcizzare le
nostre paure più recondite, da una volontà di chiarezza o da una spinta
all’autocritica più esasperata e a un nichilismo struggente, spesso, dal
bisogno di esprimere gioia e dolore, riso e pianto, odio, angoscia,
speranza…Espressione individuale. L’uomo e la sua centralità nel mondo.
E’
una definizione mia, certamente parziale, di tutto ciò che vorrebbe comprendere
ed essere compreso in un orizzonte letterario e artistico. Ma è una mia
opinione, un mio punto di vista, e comunque, uno dei tanti.
Magic
Bus- diario di una rock girl
Eleonora
Bagarotti
a
cura di Gianni Rossani
E’ approdato in libreria un libro
insolito e curioso, “MAGIC BUS – diario di una rock girl” (Editori
Riuniti) dell’autrice e giornalista Eleonora Bagarotti, con prefazione della
rockstar Pete Townshend. Si narra di un periodo legato all’ambiente della
musica rock inglese dal 1981 ai giorni nostri ed in particolare eventi legati al
gruppo rock The Who e al leader Pete Townshend. Protagonista della storia è una
ragazza adolescente nata in una città di provincia del nord Italia, che inizia
giovanissima ad intraprendere una serie di viaggi e contatti oltremanica
incrociando alcuni tra i più importanti musicisti rock degli anni sessanta:
Paul McCartney, Ringo Starr, George Harrison, Mick Jagger, Jeff Beck, Elton John,
George Michael, Roger Daltrey, John Entwistle e Pete Townshend, del quale,
attraverso gli anni, diverrà amica. Trattandosi di un diario, com’è ovvio,
quella ragazza è Eleonora, l’ autrice stessa.
Biondissima,
solare e molto spigliata, durante il nostro incontro Eleonora lascia trapelare un po’ di emozione per le parole di fiducia e di
affetto che il leggendario leader degli Who, Pete Townshend, le dedica
nell’introduzione. La rockstar si è ispirata a lei per il personaggio di un
recente rock-drama. Questi e molti altri episodi vengono narrati con
garbo e naturalezza in “Magic Bus”, quell’autobus “magico” che tutti
gli appassionati di musica rock ben conoscono e sul quale anche Eleonora,
stregata fin dalla tenera età, è salita.
“Sono salita sul magic bus e non ne sono
più scesa. Perché mai dovrei farlo?” – risponde con sorriso sornione,
sbarrando due occhi azzurri che non finiscono più.
Nel suo diario, l’autrice racconta di un
gruppo fedele di fans e groupies, ragazze che accompagnano le rock band e
di cui lei stessa è entrata a far parte, nei primi anni ’80, ritrovandosi ad
assistere a concerti, produzioni discografiche, registrazioni e a intraprendere
intere tournèe insieme ai musicisti e a vivere lunghi periodi a Londra, Dublino
e New York, città in cui conosce, tra gli altri, Elvis Costello e gli U2.
Soprattutto, Eleonora Bagarotti narra
attraverso i suoi occhi e il suo vissuto personale e professionale l’intera
opera solista di Pete Townshend, compresi gli allestimenti teatrali di
“Tommy” e “Lifehouse” e le recenti reunion degli Who.
Il libro contiene recenti interviste
esclusive a personaggi come David Bowie, Stevie Nicks, Pete Townshend, Roger
Daltrey, John Entwistle, Rolling Stones, Andy Partridge, Jimmy Page e i Black
Crowes. Eleonora descrive questi incontri con passione e naturalezza, tanto che
viene voglia di leggere il suo libro tutto d’un fiato per vedere quali altri
personaggi e avventure musicali si celano dietro le altre pagine.
“Spero che i miei racconti risultino
graditi ai lettori e che si possano cogliere la passione e l’entusiasmo col
quale ho sinceramente vissuto e narrato la mia rock-story. Attraverso i
resoconti” – prosegue l’autrice – “mi auguro di essere riuscita, nel
mio piccolo, ad onorare la genialità musicale di Pete Townshend in Italia, a
far conoscere un po’ di più la sua sensibilità, umiltà e generosità ”.
La
peste
di
Albert Camus
a
cura di Silvia
Senza
possibili spiegazioni, senza alcuna logica o soluzione, negli anni quaranta del
Novecento, quando si crede che la peste sia una fenomeno dell’antichità ormai
sconfitto, la cittá di Orano in Algeria viene sconvolta dalla peste bubbonica.
Ma se la peste è sinonimo di morte, questo al contrario è un libro sulla vita,
dove il nero della morte serve a mettere in risalto i colori accesi dei vivi,
come in un quadro di Caravaggio in cui il chiaroscuro fa risaltare le figure e
le espressioni umane.
L’uomo
davanti alla peste, ovvero l’uomo davanti alla malattia, alla morte, quando la
malattia e la morte si impossessano collettivamente di una città, isolata e
tagliata fuori dagli affetti lontani, da mogli e fidanzate in altre città, dal
resto del mondo, unico teatro di tragedie che difficilmente riescono ad essere
individuali, inultile teatro di una macabra pantomima di un’umanità che crede
ancora di essere libera.
Sullo
sfondo di questa umanitá sofferente ecco allora emergere i vari personaggi.
Rieux è un medico, che decide di costituire centri di volontari per cercare di
curare i malati e creare un vaccino, in questo modo esponendosi maggiormente al
contagio. La scelta di lottare contro la peste è, come egli stesso la
definisce, l’unica scelta “onesta”, perché la sola maniera di lottare
contro la peste è l’onestà. E non c’è una briciola di eroismo in tutto
questo, come non c’è eroismo in un insegnante che insegni che due piú due fa
quattro, fa il suo lavoro e basta, non importa se poi si deve soffrire o morire,
dopo tutto viene sempre un momento nella vita in cui coloro che affermano che
due più due fa quattro sono messi a morte.
L’unico
eroismo possibile è quello Tarrou, eroe sbiadito, ragioniere della peste alla
prese con vuote statistiche, ossessionato da aggettivi e sostantivi alla ricerca
dell’incipit perfetto, che faccia togliere il cappello appena lo si legga.
Alla ricerca della frase perfetta o, in un certo senso, di un’opera d’arte
tanto pura che basti a se stessa.
C’è
invece chi, capitato per caso ad Orano e rimastone imprigionato, lotta per
scappare, per vivere, per correre via dalla peste, verso la vita, da un amore
lontano, perché pensa che lottare per amore valga di piú che lottare per le
idee, anche se alla fin fine forse poi è la stessa cosa.
C’è
ancora chi invece nella peste trova la sua dimensione, perché la coscienza
sporca lo nobilita a ruolo di re degli appestati, vicino agli ambienti del
contrabbando e della malavita, non più perseguitato o condannato, in quanto
tutti sono equalmente condannati da qualcosa di più assoluto delle leggi umane,
dalla peste, grande livellatrice di gerarchie.
Molti
hanno visto nella peste una metafora dell’occupazione nazista. Certo il
paragone calza benissimo, ma sicuramente non mancheranno i lettori in grado di
trovarci oggi anche altri significati, a seconda delle proprie personalità e
storie umane. Forse la peste è un simbolo di tutti i nostri fantasmi, delle
nostre paure, forse della morte, del male, del dolore, o del destino. E, se
vogliamo, neanche mancano possibili paragoni al mondo politico attuale. Ognuno
ci veda quel che vuole, ognuno scelga il suo personaggio, la sua storia
personale fra quelle del libro, ognuno scelga la sua peste. Con il dubbio che
alla fine proprio la peste o quello che rappresenta sia qualcosa che ci
completi. Qualcosa che ci spinga a lottare, che ci obblighi a prendere una
posizione, che ci aiuti a capire, che ci riveli la poesia di una sera d’estate
passata su un terrazzo, fra il vento salato e il rumore del mare in lontananza.
Qualcosa nonostante cui, o forse, con
cui viviamo.
POI VENNERO IL
SOGGETTO E IL COMPLEMENTO
di PINO IMPERATORE
Ironica, pungente,
dissacrante. E' in libreria "In principio era il Verbo, poi
vennero il soggetto e il complemento", l'opera umoristica
con cui lo scrittore e giornalista Pino Imperatore ha
vinto il Premio "Massimo Troisi 2001"
(sezione Migliore Scrittura Comica). Il libro, pubblicato dall'editore
Colonnese di Napoli nella collana "Lo Specchio di
Silvia" (pagg. 128, euro 6,20), si annuncia come
uno dei più divertenti dell'anno. Raccoglie, come precisato
nel sottotitolo, 101 decaloghi per 101 mestieri e professioni.
Ce n'è per tutti: dall'agricoltore al calciatore, dall'avvocato
all'idraulico, dall'insegnante alla casalinga, passando per il dentista, il
magistrato, il marinaio, il sacerdote, l'attore, il falegname, il musicista,
il perito informatico, il netturbino, il cameriere, il chirurgo, il
pasticciere, il pescatore, il vigile urbano, lo scrittore... C'è persino un
decalogo speciale dedicato a Dio, che l'autore definisce "il
più instancabile lavoratore di tutti i tempi".
Nella
presentazione Giulio Baffi, Direttore Artistico del Premio
"Troisi", così illustra le caratteristiche dell'opera: "Bibbia
impertinente, gioco elegante per prestigiatori dell'alfabeto, corsa a rotta di
collo per i sentieri sdrucciolevoli del dizionario, dove la parola insegue i
cento significati possibili offerti dalla lingua italiana. Bizzarre
costruzioni in soccorso ad arcigni impiegati, seri professionisti, operai
affaticati, creativi un po' stanchi in cerca di sorriso. Un libro da sfogliare
pensando magari alla grande scrittura di Achille Campanile, alle invenzioni
strepitose di Paolo Poli, al gioco magnifico di Alessandro Bergonzoni".
"Questo libro è un azzardo - scrive l'autore nella
presentazione -. Esso nasce dal tentativo di indurre al riso o almeno al
sorriso tutti coloro che non riescono a trarre motivi di divertimento e di
gioia dalla loro attività lavorativa. Un’ardua impresa, se si pensa che
quasi tutte le persone “occupate” non hanno, per varie ragioni, grossi
motivi per stare allegre. Il loro rapporto con il lavoro è in genere dettato
dall’abitudine, dalla ripetitività, dalle costrizioni. E’, insomma,
comandato da altro e da altri. Da qui l’idea di capovolgere lo schema del
decalogo biblico, per utilizzarlo non più come strumento di imposizione e di
divieto, ma come griglia propositiva di battute, freddure, calembours e
precetti umoristici rivolti a 101 differenti categorie lavorative.
Gli spunti migliori sono venuti dai proverbi, dai luoghi comuni, dalle
locuzioni latine, dai modi di dire, che hanno resistito alle radicali
trasformazioni subite dalla lingua italiana negli ultimi decenni".
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cura di Tungaska