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Questa rubrica è a cura di Bluemood! Per parlare con lui scrivete a  bluemood@email.it

 

JEFF BUCKLEY CON

Grace (1994, Columbia).

Voglio fare musica fino all’ultimo dei giorni”.

Questa è una celebre frase di Jeff, che è stata riportata su un libro biografico pubblicato dopo la sua morte. Ha mantenuto la promessa. Cantava uno dei suoi pezzi preferiti, Whole Lotta Love dei Led Zeppelin, pochi minuti prima che il Mississipi lo inghiottisse, la sera del 29 maggio 1997. Credo che Jeff Buckley sia stato uno degli artisti più enigmatici, più forti e allo stesso tempo più sensibili del rock degli anni ’90, sebbene abbia calcato i palcoscenici per un periodo breve rispetto ad altri suoi più illustri colleghi ed abbia assaporato la fama solo per qualche anno. Sicuramente è stata una delle voci più intense del rock dei nostri tempi. Una voce che continuerà a cantare per sempre nel cuore di chi lo amava. Grace, il suo secondo disco (il primo registrato in studio), pubblicato nel ’94 dalla Columbia, dopo il Live At Sin-è, è a mio giudizio, uno dei dischi più belli e indimenticabili della storia del rock degli ultimi dieci anni. In un periodo nel quale alle radio si ascolta solo ciò che è “commerciale” (ma forse è sempre stato così), quel rock melodico, particolarmente romantico, a volte insopportabilmente mieloso, che si avvicina sempre più al pop, Jeff ha cantato l’amore con una passione, un impeto, una forza, un coinvolgimento emotivo che raramente, prima, mi era capitato di ascoltare. La sua voce vibra, nelle struggenti melodie, svelandoci ciò che si cela dentro di sé, ciò che nasconde la sua anima, ciò che “sente” il suo spirito. E proprio con l’anima Jeff scriveva le sue canzoni, e la sua voce era lo straordinario mezzo che dava vita a quelle emozioni e a quei sentimenti che gli pervadevano lo spirito. Così come dimostrano la bellissima Last Goodbye, e l’avvolgente, meravigliosa Lover, You Should’ve Come Over una ballata intensa e dolcissima dove l’amarezza e la disperazione per la perdita di un amore per colpe proprie, culmina con la consapevolezza di un non ritorno, pur lasciando aperte le porte della speranza: “Mi sento troppo giovane per stare fermo/E troppo vecchio per liberarmi e correre/Troppo sordo, muto e cieco per vedere il danno provocato/Dolce amore, saresti dovuta tornare/Oh, amore, ti ho aspettato/Amore, saresti dovuta tornare/Non è troppo tardi”. Qui, il tono della sua voce non potrebbe farci capire meglio il suo stato d’animo affranto. La voce, l’elemento essenziale delle sue canzoni.Quella voce nuda, accompagnata dalla sola chitarra, in Hallelujah, una cover di Leonard Cohen, in grado di far emozionare chi ascolta, quella voce allucinata di Mojo Pin o di Grace, quella della cover Lilac Wine di Nina Simone e Elkie Brooks, rapita dal troppo sentimento. Jeff sembra cantare “sul bordo della trance”, come scrive il critico Riccardo Bertoncelli. E la musica è in perfetta sintonia con il suo stato d’animo e con la sua voce: a volte ricca di vibranti chitarre, come nella carica Eternal Life; altre volte più dolce e pacata (Lilac Wine e Lover, You Should’ve Come Over); altre ancora, mistica, trascendentale, d’atmosfera quasi orientaleggiante come in Dream Brother, canzone che sembra essere un “angosciato richiamo”, come ci dice Bertoncelli, al padre Tim, famoso cantautore folk e “poeta visionario” della storia del rock, morto di overdose nel ’75.Credo che il rock, abbia perso solo fisicamente, uno dei suoi grandi artisti, perché la musica e la voce di Jeff Buckley, continueranno a vivere attraverso i dischi e gli stereo di chi lo ascoltava e lo “sentiva” veramente, e attraverso il ricordo di quanti lo amavano.Vi lascio con una frase della sua Grace:E’ giunta la mia ora, non temo la morte/La mia voce in dissolvenza canta dell’amore/Ma piange allo scorrere del tempo…”

 

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