Il 1° luglio 1924 nelle edicole torinesi compare il numero 1.
Semplicità, immediatezza, linearità elegante. La Redazione non si cimenta in copertine di impatto, almeno fino al 1938 con Bocassile che firma circa 90 copertine, ma è già un ‘altra epoca in cui Pitigrilli si allontana o è allontanato dalla rivista, anche in conseguenza delle leggi razziali promulgate nello stesso anno. Ed è anche tutto un po’ incerto.
Ora, però, non voglio fare la storia de “Le grandi firme”, non ho materiale a sufficienza e mi sono lasciato per giunta sfuggire l’asta di Roma in cui veniva battuto l’archivio della rivista, speriamo che il suo acquirente ne riveli presto i contenuti o la disperda per sempre sul mercato a piccoli lotti, orfanelli della memoria.
Ora voglio invece sfogliare numeri a caso, il n°5 e il n°10, e magari il n°21 e il n°295, scelti come exempla casuali tra le centinaia uscite della rivista pitigrilliana. O scelti perché ora sulla mia scrivania. O scelti perché sono gli unici che possiedo.
Una rivista di successo, i cui ingredienti erano veramente pochi.
Un fascicoletto di cinquanta pagine circa, cucito al centro e incollato al dorso, carta quindicinale che oggi restituisce la sua acidità nell’ombra marroncina che avanza dai bordi e nell’odore un po’ pungente come di calce.
La copertina era standard, in bicromia, a volte dominavano i colori cupi (blu e verdone), passava poi al rosso squillante e calava nell’aranciato e diveniva evanescente nel giallo.
Il titolo gonfio domina la pagina, LE GRANDI FIRME, il nome della rivista come tracciato a pennello dalla mano di Pitigrilli ed il senso del manoscritto d’autore continuava sotto l’esergo “quindicinale di novelle dei massimi scrittori, diretto da” con la riproduzione della firma di Pitigrilli, che tentatrice ha creato molti sospesi nelle polemiche postbelliche, il dramma di non avere uno scanner!
Sotto, schierati su due colonne, i titoli delle novelle che il lettore troverà all’interno, divise da una strana figura vegetale, organismo letterario unicellulare.
A destra il prezzo, LIRE 1,50, a sinistra il numero, la data e l’annata erano in alto sopra il titolo, al centro.
Subito tre pagine di pubblicità, pubblicità diffusa anche all’interno e nella 3a e 4a copertina, pubblicità accattivanti ed eleganti, forse solo per la patina del tempo, e, si dice, costose, ma del resto era una rivista di successo e la cosa mi sembra consequenziale (a volte trapela oggi una difficoltà a sopportare che Pitigrilli abbia guadagnato forte lavorando tanto e bene! È un mistero). Spesso le pubblicità da reddito sono intercalate all’autopromozione dei libri di Pitigrilli e di altri editori, distinte in scelta grafica e di impaginazione dalle prime.
Il lettore è servito, un braccio femminile che regge l’immaginario vassoio del nome d’autore, è il cappello grafico di molte novelle; il maître Pitigrilli, che però spesso si definisce “il padrone del serraglio”, ci ha offerto la carta, il lettore deve solo scegliere e gustare. Un padrone che a chiare lettere dice anche che non tutti sono pietanze appetibili nel suo ristorante, anzi si guardino dal consegnare le loro verbosità al cannibalismo letterario: già dal n°10, 16 novembre 1924, Pitigrilli dichiara a chiare lettere, a pagina 43, come si viene compilato il menù de “Le grandi firme”.
La mia non è una grande firma, ma…
tuttavia credo che questa mia novella possa venir pubblicata. Ricevo ad ogni distribuzione postale manoscritti dei soliti ignoti accompagnati da una lettera che comincia spiritosamente così: «La mia non è una grande firma, ma…».
(…)
No, signori. Le grandi firme non mi servono a sdebitarmi dei salamelecchi dei giovani e dei piccoli favori delle donne, né a far della beneficenza.
Questa rivista non è un’opera pia né un’agenzia di collocamento per ingegni disoccupati.
Finora a tutti gli importuni, a tutti i cerebrali postulanti, (…) usavo la delicatezza di restituire il manoscritto rispondendo che la novella era bellissima, ma che non l’accettavo perché, essendoci già molti manoscritti in attesa di essere pubblicati, avrei dovuto fargli fare una troppo lunga anticamera.
Dato però l’allarmante aumento dei postulanti, che si moltiplicano in progressione geometrica, come le cavallette, e come il successo di questa rivista, non mi sento più di dorare la pillola a tutti.
Chi crede di essere una grande firma, o di possedere i numeri per collaborare a questo fascicolo, lo racconti alla sua amica domenicale o al suo barbiere, ma non lo scriva a me.
Le grandi firme ho più interesse io a scoprirle di quanto non abbiano esse a rivelarsi. Quando ne sorge una nuova all’orizzonte il primo ad accorgermene e a invitarla sono io”.
Il padrone del serraglio
Più chiari non si poteva essere, una levata di scudi che impedisce alla furba pigrizia di dilagare nella febbrile redazione di Corso Principe Oddone 21 bis, questuanti di braccia forti, rimboccatevi le maniche! Le grandi firme si autoalimentano e non moriranno di fame.

Le grandi firme sono il luogo della lettura di autori noti in un mondo letterario senza intellettualismi, sono pezzi divertenti di costume pieni di ironia, sono tantissimi frammenti di sapore pitigrilliano, tanto che la firma del suo direttore ne garantisce il marchio D.O.C.
La rivista è anche una tribuna non piccola per il suo direttore, pubblicizza i suoi libri, lancia anomali concorsi letterari, approfitta degli spazi per accendere polemiche o per rispondere alle calunnie dei colleghi, a chi gli dava del venduto, poteva sempre replicare sussurrandogli: invenduto.
 



 
 

Così TINGELTANGEL, rubrica di costume curata da Pitigrilli, giocata sul racconto, trova il suo nome riprodotto nel libro del ’24, “canterellando un ritornello piccante imparato in un tingeltangel di Vienna”. Il nome è l’onomatopea dei piatti che sbattono l’uno contro l’altro e che nella capitale asburgica indicavano quei locali, vicini alle “boîtes à musique” parigine e ai “cabaret” berlinesi, in cui tutto si faceva con la parola e il suono fuorché dell’intellettualismo.

 

 
La rubrica CLAN, scritta dal clan, appunto, il gruppo di amici del Caffè torinese (Baratti&Milano?) non solo da Pitigrilli, ma anche da Lucio Ridenti, Carlo Salsa e gli altri, risente di rotocalco, non tutto oggi ci è chiaro perché spesso legata a eventi e personaggi della mondanità europea di quegli anni, ma le brevissime battute sono taglienti e irriverenti, e, se possibile, piccanti.
Quel CLAN, che vive ne Le grandi firme, a partire dal luglio 1924, nasce a ridosso del clan descritto da Pitigrilli ne La vergine a 18 carati del febbraio 1924, in cui appunto “s’incontravano nella sala da tè di Baratti, una confetteria un po’ pettegola che raccoglie quanto v’è di più «vecchia Inghilterra» nella mondanità cittadina”, Lùcio “l’attor comico”, Casalegno “fotografo senza problema centrale”, Angelo “il conoscitore di confetti e di donne” e naturalmente Piti “sul margine di un giornale scrive le «quartine economiche tascabili» (…) di cui ne fa una pallottola, e con la catapulta del pollice la proietta nelle code di rondine del cameriere”, s’incontravano là, tra le pagine 122 e 169.

L’APOGEO il PERIGEO il PERIZOMA delle cocotte è stanco, tutto sembra stanco oggi vicino a quanto vi ho letto in quelle pagine brunite, ma non voglio lasciare il mio stato di lettore, non vorrei mai essere autore-attore, non si può non si deve non si vuole.

Remigio Creghel

 
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