Medicina e alimentazione

MAL DI MONTAGNA

INTRODUZIONE

FISIOPATOLOGIA DELL’ACCLIMATAZIONE ALL’ALTITUDINE

IL MAL DI MONTAGNA

Testo a cura del Dott. Giancarlo Lucani

Medico Specialista in Idrologia Medica e in Gastroenterologia

Tutti i diritti sono riservati

 

 

Introduzione

Il mal di montagna è una patologia che può colpire coloro che ascendono ad un’altitudine superiore ai 2.500 metri sul livello del mare; essa è dovuta alla mancanza di adattamento all’ambiente dell’alta quota, caratterizzato, principalmente, dalla ridotta pressione parziale di ossigeno. Sebbene una chiara individuazione e classificazione di questa patologia sia relativamente recente, forme morbose riferibili al mal di montagna sono note da molto tempo. Già nel 403 d.C. Hui Jiao, un archivista cinese che percorreva la via della seta, descrisse una sintomatologia, che colpì il suo compagno di viaggio mentre attraversava un valico montuoso, e che può essere riferita a quello che oggi chiamiamo mal di montagna. Nel 550 d.C. il comandante Mogul Mirza Muhammad Haidar descrisse le patologie che colpirono le sue truppe durante una campagna sull’altopiano del Tibet fra i 3.900 e i 4.500 m. sul livello del mare. I sintomi andavano da debolezza e difficoltà di respirazione fino alle allucinazioni, coma e spesso alla morte. Alla fine del XVI sec. il gesuita Josè Acosta descrisse una sintomatologia caratterizzata prevalentemente da cefalea e nausea, avvertita da egli stesso mentre attraversava un valico nelle Ande all’altitudine di 5.400 m. sul livello del mare. Hui Jiao, Haidar e Acosta non potevano sapere che cosa provocasse questi disturbi perché la natura dell’atmosfera terrestre divenne nota solo alla metà del XVII sec. A quell’epoca una serie di esperimenti condotti da Gasparro Berti, Evangelista Torricelli e Florin Perrier dimostrarono che l’atmosfera ha una massa e quindi un peso, e perciò esercita una pressione su tutti i corpi in essa immersi. Questa pressione è detta pressione atmosferica o barometrica.

La pressione esercitata da una colonna di fluido su una superficie dipende, secondo una nota legge fisica (legge di Stevino), dall’altezza della colonna stessa, quindi a quote elevate, diminuendo lo spessore dello strato atmosferico la pressione barometrica diminuisce. Nel XVIII sec. nacque l’alpinismo sportivo e i medici iniziarono a definire clinicamente gli effetti fisiologici di una pressione atmosferica più bassa del normale. Nel 1786 venne scalato per la prima volta il Monte Bianco, la più alta vetta d’Europa e nel decennio seguente Horace-Bénedict de Saussure descrisse in base alla sua esperienza come il battito cardiaco e la respirazione venissero influenzati dalla quota. In seguito l’ossigeno fu identificato come elemento e fu dimostrata la sua importanza per gli organismi viventi, oltre che per la combustione, ma nessuno pensò di correlare la carenza di O2 al mal di montagna. Intorno alla metà del secolo scorso, l’alpinismo ebbe un notevole impulso, nei tre decenni successivi vennero conquistate tutte le principali vette delle Alpi e alcuni esploratori scalarono alte vette dell’Himalaya e delle Ande. Anche le ascese in pallone aerostatico iniziate nel secolo precedente, divennero più frequenti, e alcuni individui salirono a quote abbastanza elevate da risentirne gli effetti, fu in quell’epoca che il termine mal di montagna fece la sua comparsa nella letteratura medica e popolare. Tuttavia solo negli ultimi decenni del XIX sec. le ricerche di due medici chiarirono il rapporto fra aria rarefatta e mal di montagna. Paul Bert condusse studi in condizioni simulate di alta quota per mezzo di una camera di decompressione in ferro e misurò il trasporto di ossigeno da parte dell’emoglobina. Dopo aver dimostrato che il sangue contiene meno ossigeno in quota che non al livello del mare, si collocò ad un’altitudine simulata di 6.300 m. circa respirando ossigeno da un contenitore in cuoio. Non avendo provato alcun malessere concluse che era la carenza di ossigeno e non la bassa pressione a provocare il mal di montagna. Un contemporaneo di Bert, Angelo Mosso, condusse studi sulla vetta del Monte Rosa oltre che in camera di decompressione. Anch’egli stabilì che la carenza di O2 provoca il mal di montagna ma sostenne che la carenza di anidride carbonica dovuta all’iperventilazione è ancora più importante. Lo sviluppo imposto all’aviazione dalle due guerre mondiali e l’interesse sempre crescente per gli sport della montagna, fecero aumentare le conoscenze sugli effetti della carenza di O2. Le ricerche dimostrarono che vi sono diverse forme di mal di montagna: una spiacevole ma abbastanza lieve, altre più gravi e potenzialmente mortali. I sintomi sono vari, dipendono, oltre che dalla vulnerabilità dei soggetti e degli organi colpiti, soprattutto dalla rapidità con cui si sale e dal tempo dedicato al necessario periodo di acclimatazione.

 

Fisiopatologia dell’acclimatazione all’altitudine

A quote elevate alcuni parametri fisici ambientali, che hanno notevole influenza su molte fondamentali attività fisiologiche, variano in senso sfavorevole all’organismo umano. Per la sopravvivenza e lo svolgimento delle normali attività fisiche, questo deve quindi subire un processo di adattamento che interessa molte funzioni vitali. Tale processo è detto acclimatazione alle alte quote ed ha inizio non appena l’individuo raggiunge quote elevate, protraendosi poi per vari giorni. Lo studio delle modificazioni fisiologiche connesse alla permanenza in altitudine acquista importanza non soltanto ai fini dello svolgimento di attività sportive, ma anche perché coinvolge un grande numero di individui che abitualmente vivono e lavorano in alta montagna. Per gli alpinisti in particolare la conoscenza della fisiologia umana a medie e grandi altezze riveste una notevole importanza; infatti una più approfondita conoscenza degli effetti della carenza di ossigeno sull’organismo e dei meccanismi di adattamento ad essa, permetteranno un migliore svolgimento delle attività fisiche e sportive.

La massima altezza a cui è possibile acclimatarsi è di circa 4.800-5.000 m.s.l.m. A quote superiori subentra un progressivo deterioramento dell’organismo, con perdita di peso sia a carico delle riserve lipidiche che proteiche e l’adattamento diviene così, per la maggior parte degli individui, irrealizzabile. Eccezionalmente però alcuni soggetti acclimatati hanno potuto tollerare per qualche ora altezze intorno ai 9.000 m.s.l.m. senza subire apparentemente danni fisici. Nonostante la straordinaria prestazione sportiva, i parametri funzionali fisiologici di base di tali alpinisti non si discostano da quelli degli atleti di modesto livello.

La principale variazione fisica ambientale che influenza la vita ad alta quota è la ridotta pressione parziale di ossigeno. Infatti con l’aumentare dell’altitudine sul livello del mare anche se la composizione percentuale dell’aria atmosferica non varia (azoto 78%, ossigeno 21%, altri gas 1% del volume), la diminuzione della pressione barometrica determina una riduzione della densità dell’aria e quindi della pressione parziale di ossigeno. Altre variabili fisiche ambientali, che svolgono un ruolo importante nella fisiopatologia dell’adattamento all’alta quota, sono la temperatura e l’umidità assoluta (cioè la massa di vapore acqueo presente per unità di volume nell’atmosfera). Per gli strati atmosferici fino ai 22 chilometri dalla superficie terrestre, la temperatura va diminuendo con l’aumentare dell’altitudine; in concomitanza alla riduzione della temperatura si ha anche una diminuzione dell’umidità assoluta.

In condizioni normali la temperatura dell’aria diminuisce di 6,5°C ogni 1.000 m.; così se a livello del mare la temperatura è di +15°C, la temperatura a 5.500 m. sarà di –20°C e a 8.500 m. di –40°C. In realtà la temperatura osservata in prossimità del suolo è però largamente influenzata dall’irraggiamento solare, dall’umidità dell’aria, dai venti e dalla posizione geografica. La diminuzione della temperatura può causare una dispersione termica molto dannosa all’organismo umano che è costretto a produrre una maggior quantità di calore. La dispersione termica è inoltre aumentata da altri fattori ambientali quali la ventilazione (che aumenta il coefficiente di dispersione termica) e dall’umidità dell’aria (in quanto l’acqua è un buon conduttore di calore).

Il potere isolante degli abiti se umidi per sudore, pioggia o a causa della liquefazione della neve, frequente in montagna, si riduce notevolmente e l’alpinista, soprattutto se esposto ad un ambiente ventilato perde molto rapidamente calore. Si deve inoltre considerare che ad alta quota la produzione di calore da parte dell’organismo è limitata per la riduzione della capacità lavorativa dovuta alla carenza di ossigeno e che la fatica, limitando ulteriormente la capacità di movimento e quindi di termogenesi, facilita ulteriormente lo squilibrio termico dell’organismo. In queste condizioni sono particolarmente frequenti le lesioni da freddo. Queste possono essere locali, e consistono nel congelamento, oppure possono prodursi dei danni generalizzati, configurando un quadro morboso a carattere complesso definito assideramento, che si verifica quando la temperatura centrale dell’organismo scende sensibilmente sotto i 35°C. L’ambiente ad alte quote è infine caratterizzato da una notevole presenza di radiazioni ultraviolette che sono meno filtrate dall’atmosfera rarefatta; è necessario pertanto proteggere sempre gli occhi con opportuni schermi per evitare una forma di congiuntivite acuta denominata oftalmia da neve. A lesione instaurata può essere utile l’istillazione nel sacco congiuntivale di una goccia di novocaina e di un leggero trattamento locale con pomate antisettiche calmanti. Molto frequenti possono essere in alta montagna le lesioni cutanee da raggi solari, se non si prevengono con l’uso di indumenti adeguati e di una crema con alto fattore di protezione dai raggi ultravioletti. Queste lesioni sono dermopatie acute caratterizzate da eritema e turgore della cute, che diventa calda e dolente, possono comparire anche sintomi generali come febbre e insonnia.

La diminuzione della pressione parziale dell’ossigeno atmosferico è il principale ostacolo all’adattamento alle alte quote. Essa determina una riduzione della pressione parziale di ossigeno nell’aria alveolare e quindi nel sangue arterioso. La conseguente insufficiente disponibilità di ossigeno a livello tessutale e cellulare è detta ipossia anossica ed è causa di gravi alterazioni dovute al rallentamento o all’arresto dei processi ossidativi cellulari. L’esposizione improvvisa senza adattamento ad altitudini fino ai 3.500 m. s.l.m. non induce evidenti modificazioni della ventilazione polmonare a riposo. Ad altezze superiori, la diminuzione della pressione parziale di ossigeno sotto ai 100 mm.Hg diventa invece tale da determinare quella che viene chiamata ipossia acuta, caratterizzata da un aumento progressivo della ventilazione polmonare che può raggiungere i livelli di 10 litri x min-1 ed oltre a quote superiori ai 6.000-6.500 m. La risposta iperventilatoria all’ipossia acuta è il risultato di una potente stimolazione dei chemorecettori periferici, principalmente quelli dei glomi carotidei, sensibili all’abbassamento della pressione parziale dell’ossigeno nel sangue arterioso e di un aumento della risposta alla CO2 nei centri respiratori. Dopo alcuni giorni di soggiorno in alta quota si può verificare invece l’ipossia cronica in cui si osserva un’iperventilazione a riposo anche a quote relativamente basse. Per un dato livello di pO2 l’iperventilazione risulta dunque più marcata nel soggetto ipossico cronico (acclimatato) che in quello acuto (non acclimatato). La risposta più naturale e immediata all’ipossia è dunque l’iperventilazione, che determina un aumento della pO2 alveolare e quindi la pO2 arteriosa tende a normalizzarsi. Nel corso d’esercizio fisico la risposta ventilatoria in ipossia sia acuta che cronica risulta molto più marcata che in normossia; i soggetti nativi dell’alta quota presentano una risposta ventilatoria all’ipossia attenuata in confronto a quella dei soggetti acclimatati, particolarmente in condizioni di riposo.

L’iperventilazione però aumenta anche l’eliminazione della CO2 alveolare e conseguentemente riduce la pCO2 arteriosa. Ciò ha due effetti fisiologicamente dannosi: aumenta il valore del pH del sangue, turbando l’equilibrio acido-base ed aumenta anche l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno, rendendo più difficile la dissociazione dell’ossigeno a livello tessutale. In condizioni di ipossia acuta il valore della pressione della CO2 del sangue arterioso può diminuire a causa dell’iperventilazione ad esempio da 40 a 20 mmHg e il pH corrispondentemente aumenta da 7,4 fino a circa 7,6. Il mantenimento di un adeguato equilibrio acido-base è di fondamentale importanza per l’omeostasi dell’organismo, quindi interviene un aumento dell’eliminazione dei composti basici a livello renale che compensa l’alcalosi derivante dall’iperventilazione. Il successo nel bilanciare l’iperventilazione e l’eliminazione di bicarbonato determina l’efficacia dell’acclimatazione o l’eventuale insorgenza della sindrome da alta quota.

L’aumento della pCO2 arteriosa tende inoltre ad inibire i centri respiratori, con effetto opposto alla iperventilazione indotta dalla diminuzione di pO2. I centri bulbari, con l’adattamento all’altitudine, divengono anche più sensibili all’aumento della pCO2. Il duplice meccanismo del controllo della respirazione causa un fenomeno interessante: si assiste ad una fluttuazione irregolare a seconda che il controllo oscilli fra i centri del mesencefalo, sensibili all’anidride carbonica e al pH ematico, ed i glomi carotidei, sensibili all’ossigeno. Il risultato è la respirazione periodica, o di Cheyne-Stokes, che si manifesta spesso al di sopra dei 2.500 m. ed immancabilmente a quote più elevate. Tipicamente una fase di respirazione rapida e sempre più profonda, iperpnea, è seguita da una più superficiale, finché il respiro si blocca completamente, apnea, per un tempo notevole, da 8 a 10 sec.; quindi il ciclo si ripete. La respirazione periodica è più pronunciata durante il sonno cosicché l’ossigenazione media diminuisce quando il soggetto è addormentato. Successivamente nel corso dell’acclimatazione si verifica, quale fenomeno di compenso dell’alcalosi respiratoria, un’aumentata eliminazione dei bicarbonati per via renale ed una conseguente riduzione della riserva alcalina per cui il valore del pH tende a ritornare a valori pressoché normali, quali si riscontrano anche nel soggetto nativo di alte quote. Il soggetto acclimatato pertanto riduce la propria riserva alcalina; tale riduzione ha conseguenze metaboliche importanti poiché nel soggetto acclimatato risulta diminuito il potere tamponante del plasma nei confronti degli acidi ingeriti o prodotti dai tessuti come l’acido lattico prodotto nel lavoro muscolare. L’acclimatato presenta pertanto una notevole limitazione della cosiddetta capacità lattacida. Un’altra delle prime risposte all’ipossia è un aumento della frequenza cardiaca e del volume del battito che provoca il pompaggio di una maggiore quantità di sangue ossigenato nell’organismo. Simultaneamente vi è un trasferimento temporaneo di liquido dal sangue ai tessuti per concentrare l’emoglobina e permettere al cuore di distribuire più ossigeno a ogni battito. L’aumento della gittata cardiaca scompare in una settimana circa, ma l’incremento della ventilazione in genere persiste per tutto il soggiorno ad alta quota.

Un altro meccanismo di adattamento alle alte quote è l’aumento delle emazie circolanti prodotto inizialmente dalla contrazione della milza e poi dall’aumento dell’eritropoiesi; la diminuita pO2 è quindi in parte compensata da una aumentata capacità del sangue per l’ossigeno. A livello tessutale si ha anche una migliore utilizzazione dell’ossigeno dovuta alla diminuzione della pO2 del sangue venoso.

L’ipossia induce inoltre cospicue modificazioni nel pH e nella composizione del sangue e inoltre sulla curva di dissociazione dell’emoglobina per l’ossigeno. Dopo circa due settimane di esposizione ad altezze di 4.500 m. la concentrazione degli eritrociti comincia ad aumentare per raggiungere nel corso di 4-6 settimane i 6,5 milioni per microlitro di sangue. Le cause di questo aumento sono almeno tre: la mobilitazione di eritrociti dalla milza, che avviene subito in risposta allo stimolo ipossico; l’aumentata secrezione di eritropoietina, un potente stimolo ormonale per la produzione di globuli rossi; la riduzione del volume plasmatico per un processo quasi inevitabile di disidratazione. L’incremento del numero di globuli rossi determina conseguentemente l’aumento del valore ematocrito e della concentrazione dell’emoglobina. Lo stimolo dell’eritropoiesi è attivo fino a quote di almeno 6.500 m. alla quale altezza si riscontrano i massimi valori di globuli rossi che nei nativi variano tra i 5,2 e i 6,5 milioni per microlitro a seconda del gruppo etnico di appartenenza, Sherpas del Nepal o indiani dell’America del Sud rispettivamente, mentre nei soggetti acclimatati possono raggiungere e superare i 7 milioni per microlitro. Gli Sherpas del Nepal, contrariamente ad altri gruppi etnici, anche quando siano trasferiti a quote superiori ai 6.000 m. non subiscono un sostanziale incremento dei globuli rossi; le cause di tale singolare comportamento non sono note, in parte potrebbero essere originate da diverse abitudini alimentari e da una migliore idratazione dell’organismo. E’ stato notato che in soggetti europei nei quali le condizioni di idratazione siano state mantenute normali e l’acclimatazione respiratoria ad alta quota sia perfettamente realizzata, presentano dopo alcune settimane un quadro ematico molto simile a quello degli Sherpas.

Viene consigliato pertanto, da molti autori, di bere più acqua del normale durante il periodo di acclimatazione, per combattere la disidratazione favorita dalla secchezza dell’aria e dalla iperventilazione stessa. Una buona idratazione contribuisce a prevenire le malattie favorite dall’aumento del numero e della concentrazione degli eritrociti e della viscosità del sangue, senza pregiudicare l’efficienza del trasporto dell’ossigeno dai polmoni ai tessuti. Sono molto frequenti infatti i casi di tromboflebiti agli arti inferiori tra gli alpinisti disidratati, la conseguenza di ciò può essere la mobilizzazione di emboli che arrestandosi nel polmone possono causare il quadro tipico dell’infarto polmonare, caratterizzato da dolore acuto al torace, emoftoe, aggravamento dello stato ipossico fino alla morte. L’unico intervento utile in questi casi è la rapida discesa e la continua somministrazione di ossigeno; non è invece consigliato iniziare sul campo un trattamento anticoagulante. I valori del pH riscontrati nel sangue arterioso e venoso in soggetti acclimatati in alta quota variano a riposo rispettivamente da 7,38 a 7,43 e da 7,35 a 7,42, i valori del pH dei soggetti nativi dell’alta quota sono leggermente più bassi probabilmente a causa di un più elevato valore della pressione arteriosa dell’anidride carbonica. Nel soggetto acclimatato, inoltre, si nota un modesto spostamento a destra della curva di dissociazione dell’emoglobina per l’ossigeno. Non si conoscono i benefici di tale effetto, alcuni autori hanno addirittura tratto la conclusione che questo fenomeno può essere vantaggioso a livello del mare e ad altitudini moderate, mentre è privo di importanza a medie altitudini e diviene addirittura negativo ad altitudini estreme (oltre 6.000 m.). Altre alterazioni primarie o secondarie avvengono in molti sistemi ormonali e nell’attività del sistema nervoso simpatico. Non vi è dubbio che l’ipossia perturbi anche l’equilibrio degli elettroliti e dell’acqua. Essa provoca vasocostrizione, ritenzione idrica e variazioni nella permeabilità delle membrane cellulari oltre che disturbi della funzionalità renale.

Di tutti i meccanismi di adattamento l’iperventilazione permane a lungo la risposta più efficace. Di norma il 20-30% dei capillari di tutto l’organismo è inattivo, ad alta quota alcuni di questi vasi vengono reclutati per consentire una distribuzione più efficiente di sangue ai tessuti. E’ stato inoltre osservato che all’interno delle cellule si verificherebbero delle modificazioni enzimatiche per favorire il metabolismo anaerobico.

Sebbene l’organismo possa parzialmente compensare la diminuzione dell’ossigeno, molte attività ne risentono. Alcuni autori hanno dimostrato che ogni aumento di 300 m. di quota riduce del 3% la capacità di lavoro massimo. Anche una lunga permanenza ad alta quota non può riportare la capacità di lavoro ai valori che si hanno a livello del mare pure nel caso che le condizioni di idratazione e di nutrizione del soggetto siano perfettamente ristabilite.

Il tessuto nervoso è il più sensibile all’ipossia, che è responsabile di profonde alterazioni del suo metabolismo. L’esposizione ad una ridotta pressione parziale di ossigeno può essere causa nell’uomo di numerose anomalie funzionali connesse con modificazioni dell’attività sinaptica. Numerosi esperimenti eseguiti sia in condizioni di ipossia acuta che nei soggetti acclimatati, hanno messo in evidenza alterazioni di alcune attività riflesse spinali consistenti generalmente in una riduzione dell’attività nel caso di ipossia di media entità ed in una esaltazione di essa in seguito ad una condizione ipossica più spinta, a causa presumibilmente della rimozione di impulsi inibitori esercitati da alcuni centri superiori. E’ stata pure riscontrata, nell’uomo, una riduzione della soglia della sensibilità tattile e gustativa durante prolungati soggiorni a 3.500 m. s.l.m. Anche l’attività corticale è particolarmente suscettibile all’ipossia, nell’uomo i tempi di reazione inerenti ad attività che implicano l’intervento della corteccia cerebrale subiscono un notevole allungamento. Di notevole importanza sono infine i disturbi a carico delle funzioni più elevate del sistema nervoso centrale, fra essi sono stati notati più frequentemente la perdita della memoria di fissazione e di rievocazione, una considerevole labilità dei processi di attenzione, la facile comparsa di idee ossessive, lo smascheramento di tendenze nevrotiche ed emozionali, allucinazioni visive ed uditive. Per altro la conquista dell’Everest senza l’ausilio del respiratore a O2 ha permesso di rilevare che l’uomo può tollerare senza danni irreversibili e senza conseguenze periodi di esposizione alla quota di 8.848 m. s.l.m. e compiere qui una modesta attività fisica ed eseguire manualità relativamente complesse quali prelievi di pressione e temperatura nonché prelievi di aria alveolare. E’ stato inoltre verificato che soggetti acclimatati esposti ripetutamente a quote estreme senza l’ausilio del respiratore ad O2, non sono apparentemente colpiti da alcun deficit funzionale che abbia loro impedito in seguito lo svolgimento di attività anche intellettuali.

L’insonnia è un altro disturbo che colpisce la totalità degli alpinisti, ad alta quota prevalgono gli stadi leggeri del sonno mentre gli stadi più profondi, nonché il sonno paradosso (o sonno REM) risultano ridotti, nella totalità dei soggetti esposti all’ipossia cronica è stato notato un aumento del numero dei risvegli nel corso della notte. La somministrazione di ossigeno riduce il numero dei risvegli ed elimina il respiro periodico, l’acclimatazione al contrario non elimina del tutto l’insonnia né i fenomeni sopra descritti. Questa insonnia può indurre all’uso dei sonniferi in particolare del Diazepam e dei suoi derivati. La somministrazione di tali farmaci a grandi altezze, pur apparentemente efficace ai fini della durata del sonno, non è consigliabile per vari motivi: perché comporta una notevole riduzione della saturazione dell’emoglobina in O2, perché protrae le fasi di sonno leggero e non quelle più importanti di sonno profondo, e infine perché conduce a fenomeni di accumulo nell’organismo che possono portare a confusione mentale e turbe comportamentali, fenomeni ovviamente molto pericolosi in chi sta facendo un’ascensione alpinistica.

L’udito non è influenzato dall’alta quota, ma l’appetito di solito diminuisce, il che provoca a lungo termine una perdita di peso; non è chiaro se ciò sia dovuto a malassorbimento o semplicemente a un ridotto apporto calorico.

Gli appartenenti a popolazioni che da molte generazioni vivono in alta montagna presentano adattamenti più stabili che sono probabilmente di origine genetica. Alcuni di questi individui hanno il torace a botte con polmoni più grandi della norma mentre altri hanno valori molto elevati di emoglobina. In alcune popolazioni di indiani del Sud America i mitocondri sono spesso più numerosi o più grandi e collocati in posizioni diverse dal normale. Nonostante secoli di insediamento in montagna nessun essere umano si è adattato in maniera permanente a quote superiori ai 5.000 m. Coloro che vivono abitualmente a livello del mare possono rimanere a queste quote solo per pochi mesi: successivamente gli effetti della acclimatazione non sono sufficienti a controbilanciare i danni subiti dall’organismo. A lungo termine essi perdono peso, diventano apatici e tutte le funzioni generali dell’organismo si deteriorano. Gli studi sugli animali offrono prospettive interessanti sulle molte strategie con cui può essere trasportato e utilizzato l’ossigeno. Le foche e le balene, per esempio, che raggiungono grandi profondità, hanno la milza molto sviluppata per disporre di un serbatoio da cui trarre sangue ossigenato. Come nell’uomo, il principale adattamento di questi animali consiste nel poter deviare il flusso ematico da organi meno importanti ad organi essenziali, inoltre, al contrario degli esseri umani, essi sono in grado di bloccare completamente alcune funzioni. Altri animali, come gli yak e i lama, possiedono forme differenti di emoglobina in grado di assumere e trattenere più ossigeno. Per l’uomo il modo migliore per conseguire l’acclimatazione è quello di raggiungere gradualmente le quote elevate diminuendo così notevolmente i rischi dell’ipossia. E’ buona norma superare dislivelli di non più 650 m. al giorno quando si è a quote superiori ai 2.000 m. s.l.m. Se si manifestano segni di malessere occorre sostare per qualche giorno o anche scendere di un centinaio di metri per il riposo notturno. L’altitudine a cui si dorme è più importante, ai fini della acclimatazione, di quella raggiunta durante il giorno in quanto la respirazione periodica avviene soprattutto durante il sonno. E’ anche necessario bere più acqua ad alta quota che a livello del mare per compensare le perdite di liquido conseguenti all’iperventilazione e per favorire l’aumentata eliminazione di bicarbonato per via renale. Inoltre è bene ridurre il consumo di sodio che tenderebbe a causare ritenzione idrica che, come descritto successivamente, ha un’importante ruolo nell’eziopatogenesi del mal di montagna. E’ infine da evitare nei primi giorni di acclimatazione uno sforzo fisico eccessivo.

 

Il mal di montagna

Del mal di montagna sono stati identificati alcuni quadri clinici o stadi chiaramente distinguibili che sono stati classificati da Sutton come segue:

· ipossia acuta,

· mal di montagna acuto,

· mal di montagna subacuto e cronico,

· edema da altitudine,

· edema polmonare acuto da altitudine.

Le varie forme della malattia da alta quota non sono però entità separate, ma un continuo in cui prevale ora l’una ora l’altra forma. Entrambi i sessi sono colpiti in egual misura da tale patologia. Gli effetti dell’ipossia sono molto vari, i segni esteriori e i sintomi differiscono a seconda della quota raggiunta, dalla vulnerabilità dei soggetti colpiti, dalla rapidità con cui avviene l’ascensione e dal conseguente tempo di acclimatazione. Quello che all’inizio può apparire come un disturbo spiacevole, ma lieve, può trasformarsi rapidamente in una patologia minacciosa. Può accadere che un escursionista in montagna accusi cefalea e malessere generale e ben presto manifesti difficoltà di respirazione e tosse. A volte questi sintomi possono trasformarsi in coma e allucinazioni, in mancanza di terapia adeguata si può arrivare alla morte del paziente.

L’ipossia acuta presenta dei sintomi abbastanza tipici. Essa si verifica poco dopo aver raggiunto rapidamente un’altitudine di 3.500 m. s.l.m., soprattutto nel caso di ascensioni molto rapide compiute con mezzi meccanici; il soggetto può andare incontro a sintomi caratteristici e ad insorgenza repentina, quali pallore, astenia, senso di smarrimento, deficit di memoria e difficoltà di concentrazione che lo possono condurre a commettere errori nello svolgimento di compiti anche facili. Talora, specie all’inizio dell’esposizione, si osservano manifestazioni di euforia che possono anche indurre l’individuo a compiere azioni pericolose. Se un soggetto viene improvvisamente esposto ad un’altezza di 7.000 m. s.l.m. (in camera di decompressione) si verifica una perdita di conoscenza. Soggetti acclimatati all’altitudine di 4.500 m., al contrario, possono sopportare tale prova senza sintomi spiacevoli.

Il mal di montagna acuto è la forma più frequente e può colpire il 25% di coloro che salgono in alta montagna, ed interviene dopo circa 6-18 ore dall’esposizione all’ipossia. E’ caratterizzato da sintomi tipici quali cefalea, nausea, vomito e senso di debolezza muscolare. I sintomi possono manifestarsi già a partire dall’altezza di 2.500 metri. I soggetti che sono più facilmente e seriamente colpiti sono coloro che raggiungono l’alta quota servendosi di mezzi di risalita. L’evoluzione del quadro è generalmente favorevole, potendo la sintomatologia scomparire per una progressiva acclimatazione del soggetto. La terapia della forma acuta del mal di montagna, si basa sul trasporto del malato a quote inferiori e sulla somministrazione di ossigeno, eventualmente associata ad analettici del circolo e del respiro.

Nella cosiddetta forma subacuta del mal di montagna si comprendono un insieme di sintomi che colpiscono soggetti che trascorrono ad alta quota un lasso di tempo abbastanza prolungato, come avviene nel corso di spedizioni alpinistiche. I sintomi soggettivi consistono generalmente in una profonda astenia fisica e mentale, cefalea ostinata, senso di oppressione respiratoria con frequenti crisi dispnoiche, anoressia spiccata ed insonnia. Obbiettivamente si riscontrano un certo grado di dimagrimento, congestione delle mucose, specie delle congiuntive, una spiccata cianosi e frequenti epistassi; si può rilevare una discreta splenomegalia ed una poliglobulia, con valori di 7-9 milioni di globuli rossi per ml di sangue nonché un frequente, se pure incostante, aumento dei globuli bianchi.

La cefalea è il sintomo più evidente in queste forme. Una possibile spiegazione è data dalla risposta di una membrana assai sensibile, la pia madre, che avvolge l’encefalo e il midollo spinale e contiene i vasi sanguigni che si distribuiscono al tessuto nervoso. Quando il livello di ossigeno nel sangue arterioso diminuisce aumenta il flusso ematico verso l’encefalo. Di conseguenza i vasi sanguigni distesi e il tessuto rigonfio esercitano una pressione sulle membrane circostanti e provocano dolore. Nello stesso tempo la carenza di ossigeno provoca iperventilazione, che induce il pompaggio di anidride carbonica fuori dai polmoni e dal sangue. La diminuzione di anidride carbonica causa a sua volta un decremento dell’afflusso di sangue all’encefalo. L’aumento o la diminuzione del flusso ematico dipende in ultima analisi dall’equilibrio fra ipossia e ipocapnia, oltre che dalla sensibilità dei recettori che regolano il flusso ematico. Questa sensibilità varia da individuo a individuo, il che può spiegare perché i resoconti sull’intensità della cefalea siano così variabili. La nausea, il vomito e i disturbi del sonno che sono sintomi tipici di queste forme del mal di montagna, potrebbero essere dovuti ad un’alterazione del flusso sanguigno verso il mesencefalo, la regione cerebrale nella quale ha sede il controllo di queste funzioni.

Queste sintomatologie sono causate da una non completa acclimatazione del soggetto all’alta quota. L’evoluzione della sintomatologia dipende dall’instaurarsi o meno della condizione di completa acclimatazione; se ciò avviene, la malattia si attenua fino alla scomparsa dei sintomi, in caso contrario, i disturbi si aggravano e la malattia evolve nella forma cronica.

La terapia di tale manifestazione del mal di montagna è basata soprattutto su sintomatici: analgesici, calmanti, fermenti digestivi, alimentazione fisiologicamente controllata, mantenimento di una buona idratazione. Se l’acclimatazione tarda ad instaurarsi, si rende necessario riportare il soggetto a quote inferiori.

I sintomi della forma cronica del mal di montagna sono molto simili a quelli della forma subacuta, ma in genere molto più accentuati: particolarmente intensa è la desaturazione in O2 del sangue arterioso, si verifica pertanto la cianosi, tanto che il paziente assume un colorito rosso cupo quasi nero, con viso gonfio, palpebre e lingua tumefatti e violacei; tutto il quadro morboso è di preoccupante gravità. Spesso prende particolare evidenza una sintomatologia a carico del torace e della funzione respiratoria: ipoventilazione, dispnea, torace grande e conformato a botte con segni di enfisema, diminuzione notevole della capacità vitale, dita a bacchetta di tamburo: viene così configurandosi il cosiddetto tipo "enfisematoso" del mal di montagna cronico. E’ possibile mettere in evidenza una diminuzione della sensibilità dei centri respiratori alla CO2, che può essere considerata la causa della relativa ipoventilazione. Nel sangue si nota un aumento dei globuli rossi, con conseguente elevata viscosità ematica ed un aumento della massa sanguigna totale. Il cuore presenta un aumento dei diametri e all’elettrocardiogramma si rilevano alterazione corrispondenti alle condizioni di "cuore polmonare". Anche sintomi nervosi e mentali vengono a far parte del quadro morboso; parestesie ed algie estremamente fastidiose, confusione mentale e grave apatia. Anche per tale quadro morboso il trattamento principale consiste nel trasporto del malato a quote inferiori e nel migliorare le condizioni di ossigenazione. Se tale intervento non viene attuato prontamente si può arrivare alla morte per fenomeni embolici polmonari e per broncopolmonite, per insufficienza cardiaca o per emorragia.

L’edema di altitudine, è conseguenza di un accumulo generalizzato di fluidi nei tessuti. Si osserva molto di frequente in soggetti che abbiano trascorso alcuni giorni al di sopra dei 4.000 m. s.l.m. Colpisce prevalentemente il volto, alterandone i lineamenti, e le mani, rendendone impacciati i movimenti; lo si osserva particolarmente al mattino; nei soggetti che abbiano mantenuto a lungo la stazione eretta si possono osservare accumuli di liquido anche nelle zone declivi del corpo, particolarmente a livello delle caviglie.

L’edema può manifestarsi in maniera più o meno grave anche a livello dell’encefalo. Come tutte le manifestazioni del mal di montagna, può colpire chiunque, in particolar modo chi non si sottoponga ad un adeguato periodo di acclimatazione. Mentre i sintomi più lievi, consistenti in cefalea prevalentemente occipitale resistente ai comuni analgesici e in un senso di disorientamento, sono molto frequenti, l’edema cerebrale è abbastanza raro nella sua forma acuta conclamata. Tra i segni premonitori vi è l’atassia che si manifesta nell’incidere traballante e nella difficoltà ad eseguire movimenti di precisione. Queste alterazioni sono attribuite all’accumulo di liquido nel cervelletto, l’area encefalica che controlla l’equilibrio. L’edema cerebrale acuto ha inizio con una forte cefalea, diplopia, allucinazioni, disorientamento e può svilupparsi nei casi più gravi fino a provocare perdita della conoscenza, paralisi, coma e morte. La rigidità nucale è assente e l’edema della papilla non è necessario per la diagnosi. Il trattamento più efficace è l’immediato abbassamento di quota; è utile in questi casi l’uso di desametasone e di betametasone, per via endovenosa, e di diuretici.

L’edema polmonare colpisce, entro 4-6 giorni dalla partenza dal livello del mare, più facilmente persone non acclimatate che raggiungono i 3.800-4.000 m. facendo uso di mezzi di trasporto e che poi proseguono a piedi verso quote più elevate. La sintomatologia che lo precede è spesso subdola, tanto da essere sottovalutata dal paziente. Il primo caso di edema polmonare fu descritto da Angelo Mosso verso la fine del secolo scorso e riguarda un medico di Chamonix deceduto alla capanna Vallot dopo la scalata del Monte Bianco. Casi analoghi sono stati riconosciuti e descritti spesso anche in seguito, specie nelle Ande, anche se talora la diagnosi posta è stata quella di polmonite. L’eziologia della malattia resta tuttora dubbia. Le cause dell’edema polmonare sono complesse e non sostanzialmente diverse da quelle del mal di montagna acuto.

La sintomatologia dell’edema polmonare consiste in una graduale perdita delle forze, seguita da una dispnea relativamente più intensa di quella imputabile all’altitudine, da tosse stizzosa con espettorato sanguigno, sensazione di gorgogliamento nel torace, percepibile dal paziente o dalle persone vicine. Il respiro diventa difficoltoso, aumenta l’espettorato schiumoso, mentre si verifica un aumento della temperatura corporea e della frequenza cardiaca. Frequenti sono pure cianosi e febbre di lieve entità con rantoli a piccole e grosse bolle. Questi reperti possono portare ad una diagnosi erronea di polmonite. Un RX torace presenta linee di Kerley ed una distribuzione dell’edema a chiazze ben diversa da quella che si osserva nell’insufficienza cardiaca congestizia. La pressione atriale è normale, ma quella dell’arteria polmonare è superiore anche a quella che si riscontra nei soggetti normali durante l’ipossia Il paziente diventa rapidamente incosciente ed entra in coma. La morte interviene rapidamente. Nei soggetti sottoposti a trattamento adeguato, il quadro clinico può essere molto attenuato. Le statistiche indicano una prognosi infausta solo per il 5-10% dei casi.

La terapia più efficiente dell’edema polmonare da alta quota è il trasporto rapido del paziente a quote inferiori. L’ossigeno-terapia è evidentemente di grande ausilio. Il trattamento farmacologico suggerito (Houston, 1972) si basa sull’impiego di un potente diuretico, la Furosemide (Lasix, in dosi da 40 a 120 mg, possibilmente per via endovenosa). Questo deve essere associato, anche se ciò può apparire paradossale, ad una reintegrazione idrica per evitare che una perdita massiva di liquidi, causata dal farmaco, possa condurre il paziente, già disidratato, ad uno stato di shock ipovolemico.

Sebbene la morfina possa risultare efficace, la depressione respiratoria che essa provoca vanifica ampiamente la sua utilità. Scarso valore hanno digitale, flebotomia e lacci emostatici, perché non si tratta di un’insufficienza cardiaca. Soggetti visibilmente edematosi (al volto, alle caviglie), e talora gli stessi pazienti in preda all’edema polmonare, appaiono gravemente disidratati. Pertanto, tra le norme preventive dell’edema polmonare non vi è quella di limitare l’apporto di liquidi che risulta invece necessario per contrastare la disidratazione e per favorire l’eliminazione dei bicarbonati per via renale, che si verifica nei periodi iniziali dell’acclimatazione all’alta quota. Per la prevenzione del mal di montagna, particolarmente dell’edema polmonare, è stato raccomandato l’uso dell’acetazolamide (Diamox), più che per la sua qualità di diuretico per quella di inibitore dell’anidrasi carbonica. L’acetazolamide inibisce la produzione dell’anidrasi carbonica; consentendo quindi una respirazione più profonda e più veloce senza una perdita eccessiva di anidride carbonica; questo farmaco blocca anche l’azione degli ormoni antidiuretici e il respiro periodico, presente in quasi tutti durante il sonno, impedendo così brusche cadute del livello di O2 ematico. La somministrazione di 2 compresse (500 mg) di Diamox durante i 2 giorni precedenti una rapida ascesa oltre i 3.500 m., seguita per altri 3 o 4 giorni da un’ulteriore somministrazione giornaliera della stessa dose, sembra ridurre in maniera apprezzabile l’insorgenza del mal di montagna senza aumentare la diuresi. Il Diamox deve essere associato, come indicato precedentemente, ad un’adeguata somministrazione di liquidi. La Furosemide (Lasix) è invece assolutamente controindicata come preventivo. L’Aspirina può alleviare la cefalea e forse ridurre il rischio dell’edema polmonare prevenendo la formazione di emboli piastrinici.

Al di sopra dei 3.000 m. anche l’occhio subisce alterazioni fisiologiche. Dato che l’abbondante apporto di ossigeno richiesto dai bastoncelli non è più disponibile, la capacità visiva in luce scarsa diminuisce fino al 50%. Inoltre al di sopra dei 4.000 m. possono verificarsi microemorragie nella parte posteriore dell’occhio, che di solito passano inosservate. Non si è ancora riusciti a stabilire se queste emorragie abbiano valore prognostico o diagnostico. Alcuni autori ritengono che esse segnalino il verificarsi di emorragie anche in altri punti dell’organismo. Coloro che sostengono che un’esposizione ripetuta o prolungata ad accentuate condizioni di ipossia possa provocare danni cerebrali permanenti notano che tali emorragie potrebbero avvenire anche nel cervello.

Fegato, reni e cuore sono normali e non presentano segni di stasi. Il ruolo del fattore natriuretico atriale, dell’aldosterone e del sistema renina-angiotensina non sono stati ancora chiariti.

La fisiopatologia del mal di montagna deve ancora essere spiegata nei dettagli; anche se sono noti molti dei cambiamenti a cui l’organismo si assoggetta nella sua risposta all’ipossia, rimangono ancora molti enigmi, soprattutto a livello cellulare.

Secondo una delle teorie proposte, l’ipossia provoca una interruzione reversibile del funzionamento della pompa del sodio, la quale richiede un notevole apporto di energia; tale sistema è necessario al mantenimento dei livelli normali di ioni sodio e potassio all’interno di ogni cellula. Poiché la pompa del sodio consuma anche il 20% di ossigeno assunto in totale dall’organismo non sorprende che essa possa venir meno quando l’ossigeno è scarso. Secondo questa teoria il blocco del sistema fa si che il sodio si accumuli nella cellula e il potassio ne fuoriesca, perturbando così il potenziale di membrana e l’equilibrio idrosalino, causando edema. Le cellule in cui il blocco della pompa ha effetti più imponenti sono quelle più colpite dall’ipossia il che a sua volta determina quale fra le varie forme del mal di montagna si sviluppa.

Studi recenti indicano che anche i canali del calcio sono perturbati dall’ipossia ed è possibile che il blocco di ulteriori sistemi di pompa possa contribuire al mal di montagna.

Per ragioni ancora poco chiare l’ipossia sembra anche aumentare la contrattilità delle arteriole polmonari. La maggiore resistenza provoca un aumento della pressione arteriosa polmonare; come conseguenza i vasi si dilatano mettendo in tensione il rivestimento endoteliale; ciò induce la liberazione di sostanze biologicamente attive chiamate eicosanoidi o chinine. Alcuni eicosanoidi aumentano la porosità vascolare e favoriscono l’aggregazione delle piastrine, mentre altri inibiscono questi effetti. L’intensità della risposta determina l’eventuale insorgenza di edema polmonare. Si ritiene che l’ipertensione delle arterie polmonari possa allungare e persino rompere le giunzioni fra cellule endoteliali. Insieme con l’azione degli eicosanoidi, l’allargamento delle giunzioni permette la fuoriuscita di plasma e globuli rossi negli spazi interstiziali e alveolari. Questa serie di eventi potrebbe spiegare perché l’edema polmonare da alta quota sia così diverso da quello dovuto a sostanze tossiche, infarto miocardico: in questi casi vi è un danno alle membrane dei capillari e degli alveoli, ma la pressione arteriosa polmonare non aumenta.

Contrariamente alle alterazioni cellulari che accompagnano l’edema polmonare da alta quota, i meccanismi che stanno alla base dell’edema cerebrale sono poco chiari. Le tomografie cerebrali indicano che il rigonfiamento può essere sia generalizzato sia locale, ma queste osservazioni non hanno permesso di correlare gli eventi patologici ai sintomi. Nelle autopsie sono stati rinvenuti edema generalizzato, piccole emorragie sparse e grossi trombi.

Il modo più sicuro per prevenire il mal di montagna, soprattutto nelle sue manifestazioni più gravi (edema cerebrale, edema polmonare), è quello di compiere ascensioni lente e progressive. E’ consigliato non superare dislivelli di non più di 650 m. al giorno quando si è a quote superiori ai 2.000 m. s.l.m. Qualora si manifestino segni di malessere conviene sostare per qualche giorno o scendere anche solo di qualche centinaio di metri. E’ utile, per i primi giorni, evitare sforzi eccessivi, come anche bere più acqua che a livello del mare, per facilitare i meccanismi di acclimatazione e per compensare la perdita di liquido che si ha con la respirazione; è sconsigliato assumere più sale della norma che causerebbe ritenzione idrica la quale può scatenare il mal di montagna. L’uso di agenti farmacologici quali preventivi, può essere indubbiamente utile ma non è ancora stato oggetto di sufficiente indagine. Fra questi oltre l’Acetazolamide, già citata, è stata proposta la Nifedipina. Questa funge da bloccante dei canali del calcio e da vasodilatatore generale, abbassa inoltre la pressione arteriosa polmonare. Nella sua forma ad azione prolungata può proteggere gli scalatori che sono particolarmente suscettibili all’edema polmonare da alta quota. Attualmente il Desametasone non è più consigliato come farmaco preventivo per i suoi gravi effetti collaterali, fra cui episodi psicotici. Se si sospetta una forma grave di mal di montagna come l’edema polmonare o cerebrale la discesa a quote più basse è a tutt’oggi il rimedio migliore e più importante insieme alla somministrazione di ossigeno. Un trattamento di recente invenzione consiste nel porre il paziente in una sacca che può essere gonfiata fino a una pressione equivalente a quella di una quota più bassa, simulando così l’effetto della discesa, quando questa diventa impossibile a causa di condizioni meteorologiche avverse; è stato dimostrato che tale trattamento è efficace quanto la somministrazione di ossigeno.

Una più approfondita conoscenza del mal di montagna contribuirà a migliorare le condizioni di salute delle popolazioni che vivono ad alta quota ed a rendere l’alpinismo più sicuro e piacevole; maggiori ricerche sulle conseguenze della carenza di O2 potranno trovare applicazione anche nel trattamento di patologie non correlate all’alta quota come l’enfisema polmonare, l’asma e la polmonite.

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