1. Considerazioni generali:
 

Lo studio delle chiese dei frati mendicanti in Italia è sinonimo di studio dell’architettura gotica nella penisola. Alla semplice e
possente costruzione di Assisi seguì in rapida successione l’edificazione di chiese analoghe in quasi tutte le città, grandi e
piccole, del paese. Dappertutto venivano fondate nuove sedi, inizialmente popolate da un piccolo numero di frati che si stabilivano in piccoli centri secondari, sperduti in mezzo ai grandi e ricchi luoghi di culto e ai palazzi svettanti dei nobili: ma presto, in una misura che non ebbe eguali nella storia dell’umanità, il numero dei poveri frati che rivendicavano di casa in casa aumentò al punto che le miserevoli celle non furono più sufficienti ad accoglierli tutti. I primi insediamenti improvvisati si trasformarono in conventi, le piccole cappelle in chiese, che a loro volta per poter contenere la grande massa dei fedeli, furono costrette ad assumere dimensioni ragguardevoli, rivaleggiando con le cattedrali e le chiese metropolitane. Invano i veri successori di San Francesco, rimasti fedeli all’antico ideale della semplicità, lottarono contro il crescente timore del lusso: la potenza e l’importanza dell’ordine esigevano necessariamente una tale manifestazione esteriore. Già Francesco aveva dovuto combattere contro il desiderio di benessere e di esteriorità, contro la tendenza a costruire ricchi conventi sontuosi: un giorno, a Bologna, avendo sentito di una grande “casa dei frati” eretta dai suoi discepoli, se ne irritò moltissimo e ordinò che anche i malati la abbandonassero; un’altra volta dichiarò di non voler mai più rientrare nella cella che uno dei frati aveva chiamato la cella di Francesco, perché quel nome già indicava una certa idea di possesso. “E’ dunque questa – aveva gridato a Bologna - la dimora dei poveri che seguono il Vangelo? Sono questi i grandi e fieri palazzi dei piccoli frati? Io non riconosco questa casa come la nostra, né la ritengo tale che i miei frati vi possano abitare. Perciò ordino che tutti coloro che vogliono conservare il no-me di frati minori escano subito da questa casa e la lascino ai ricchi del mondo”. Ma un tale divieto era destinato a rimanere senza effetto, come avvenne anche per il rifiuto dell’erudizione. Singoli individui potevano ben concepire come un bisogno del cuore quello di rimanere poveri nello spirito, rinunciando altresì a ogni bene esteriore; ma per una comunità intera, un ideale del genere non era possibile. Nei confronti degli altri uomini, la comunità francescana aveva dei doveri che esigevano non solo una formazione spirituale all’altezza della situazione e un notevole acume intellettuale, ma anche un apparato esteriore imponente, capace di ispirare rispetto. E così vediamo ben presto i francescani eruditi scendere in campo e ingaggiare battaglia nelle grandi università, mentre i francescani predicatori adempiono ai propri compiti in chiese grandi e imponenti, dove migliaia di fedeli si affollano, abbandonando gli antichi luoghi di culto.
L’architettura italiana del XIII secolo può ben essere definita brevemente come l’architettura dei francescani e dei domenicani: è nelle chiese di questi due ordini che nasce e si sviluppa il nuovo stile gotico. Si potrebbero aggiungere ai due ordini menzionati anche i carmelitani e i serviti; ma la loro importanza è molto limitata. Nel secolo precedente erano stati i frati cistercensi a dare un impulso decisivo all’architettura, ma questo impulso, pur essendo importante, fu infinitamente inferiore ai risultati architettonici ottenuti dalle costruzioni dei frati mendicanti. E questo si spiega col fatto che gli ordini mendicanti sono stati i primi ad insediarsi veramente nel cuore delle città, ad abbandonare l’isolamento della vita monacale, ad entrare in rapporto costante e molteplice con il popolo, che si sentì inevitabilmente spinto dal deside-rio di fornire ai suoi amici spirituali delle sedi degne della loro azione. Anche se l’ordine mendicante, avendo rinunciato a tutti i beni, non aveva certo il denaro per poter erigere grandi conventi e grandi chiese, ogni fedele si considerava felice di poter dare il suo piccolo contributo in tal senso. Sia il ricco sia il povero nutrivano una venerazione senza riserve per questi frati, che a loro volta si prodigavano in consigli affettuosi tanto agli uni che agli altri. Perciò troviamo le chiese dei domenicani e dei francescani nelle piccole borgate come nelle più grandi città, in una varietà infinita di forme e di dimensioni. La modesta chiesa a navata unica delle cittadine di provincia, col suo soffitto in legno, le sue pareti senza ornamenti, la sua facciata spoglia, è comprensibile esattamente come le enormi chiese a più navate delle ricche città mercantili, con le loro volte ornate e un grande numero di cappelle. La grandezza e la ricchezza di decorazioni delle chiese era sempre in stretta relazione con la grandezza e la ricchezza della città, Si potrebbe anche affermare che la prosperità e l’importanza commerciale delle città ita-liane del XIII secolo si misura oggi in base al lusso delle chiese francescane e domenicane che si sono conservate fino a noi. Come vedremo, la maggior parte degli edifici francescani ha determinate caratteristiche comuni, che consentono anche di suddividerli in gruppi ben definiti; ma, a prescindere da questo, ciascuno possiede poi delle individualità proprie. Per di più è impossibile separare lo studio degli edifici francescani da quello degli edifici domenicani, perché i due ordini, così diversi per idee e attività, seguono invece lo stesso ideale nella costruzione delle loro chiese. Quindi è difficile dire a quale dei due ordini spetti l’onore di aver introdotto nell’architettura certi modelli fondamentali, come per esempio quello umbro-toscano; e la cosa del resto non ha la minima importanza. Il primo impulso proviene però da Assisi, e dall’Umbria in genere e questo farebbe supporre che l’ordine francescano abbia avuto un efficacia maggiore rispetto all’ordine domenicano.
Se prendiamo in esame la maggior parte delle chiese dell’ordine mendicante in Italia, si nota subito che hanno in comune una certa struttura della parte orientata a levante. L’allineamento delle cappelle a fianco dell’altare maggiore, disposizione che era già presente nelle chiese cistercensi. Perciò non c’è alcun dubbio che l’architettura cister-cense abbia fornito il modello non solo per la pianta delle chiese dell’ordine mendicante, ma anche per la costruzione delle singole par-ti. Ad eccezione di un piccolo numero di chiese che hanno la forma tradizionale della basilica romanica, tutte le costruzioni dei francescani e dei domenicani, sia quelle a volta dell’Italia del Nord, sia le costru-zioni più semplici, con copertura lignea, delle chiese umbro-toscane, si richiamano alle forme essenziali dello stile cistercense. Come vedremo, lo studio dei singoli edifici non può che confermare che il gotico italiano deve i suoi caratteri fondamentali al gotico cistercense, che, seppur modificato in vario modo, sarà determinante per tutta l’architettura italiana del XIII e XIV secolo; e all’ordine francescano spetta, sotto questo profilo, il ruolo di mediatore tra la Francia e l’Italia.

L’ordine francescano, essendo continuatore ed erede dell’ordine cistercense, si è sforzato di adottare tra le altre cose, anche lo stile architettonico delle chiese dei suoi predecessori; e, d’altra parte, essendo i due ordini, quello francescano e quello domenicano, le guide spirituali del popolo e i rappresentanti della civiltà in Italia per ben due secoli, è naturale che il loro stile architettonico, derivante da quello cistercense, sia divenuto lo stile architettonico dell’Italia intera. Tutto ciò è facilmente comprensibile, se si esaminano i legami esistenti fra l’ordine di Bernardo di Chiaravalle e quello di Francesco d’Assisi. I cistercensi assumono in effetti una posizione intermedia fra la comunità aristocratica dell’antico ordine benedettino - così come si mostra, all’apice del suo sviluppo, nei monaci di Cluny - e la comunità tutta democratica dell’ordine mendicante. Mentre i cistercensi cercano ancora la loro salvezza in una vita ritirata dal mondo, dedita al lavoro, alla preghiera e alla contemplazione, già si manifesta nella loro organizzazione un principio nuovo, decisa-mente democratico; al posto del governo di un unico abate, i cistercensi affidano la loro guida a un capitolo generale, al quale prendono parte, con diritti uguali, i rappresentanti dei diversi conventi. In questo senso, l’organizzazione dei francescani non è che la continuazione della regola cistercense. E non è tutto. i principi particolari della povertà, dell’obbedienza e dell’ascesi sono sviluppati. nell’ordine cistercense in un modo che ricorda molto da vicino gli insegnamenti di Francesco; e certo anche la profonda concezione religiosa di un San Bernardo differiva molto poco da quella di San Francesco. Con tutto ciò i due ordini rimangono separati da un abisso, considerando che Francesco, come abbiamo visto, non ha preso spunto dalle concezioni degli ordini precedenti, ma dallo studio diretto del Vangelo, in uno spirito d’opposizione alla gerarchia ecclesiastica che forse era ispirato dalle sette eretiche della Francia del Sud. Dal punto di vista intellettuale e squisitamente religioso, l’ordine francescano persegue un ideale completamente diverso da quello dell’ordine di Cîteaux; ma nell’organizzazione pratica della sua vita si riallaccia all’ordine dei cistercensi, il cui rigore e la cui purezza cristiana sono vicinissimi al nuovo ideale francescano.
Come Francesco, anche i capi dell’ordine cistercense esigevano che la costruzione delle loro chiese fosse conforme al principio della povertà esteriore. Volevano che l’edificio fosse semplice, senza alcun ornamento, senza finestre dipinte, senza affreschi alle pareti, senza arredi preziosi, senza campanili. Inoltre bisogna ricordare le parole di Bernardo contro la tendenza a ornare troppo riccamente le chiese e conosciamo anche numerosi edifici in cui il principio della semplicità cristiana sembra realizzato. Nel primo decennio di vita dell’ordine francescano non è assolutamente probabile che siano stati formalmente espressi precetti dello stesso genere, perché si constata una grande varietà nello stile delle costruzioni. Tuttavia, almeno nelle più antiche chiese francescane dell’Umbria e della Toscana, si manifesta una netta tendenza verso la semplicità. Ma proprio nello stesso periodo sorgono nell’Italia del Nord delle chiese decisamente sontuose; e la cosa non ha nulla di sorprendente, considerato lo sviluppo assai rapido della devozione francescana nelle grandi città di queste ricche regioni Le prime parole precise per la costruzione delle chiese le dà Bonaventura nel 1260 nel suo Statuta capituli generalis Narbonensis; ma si tratta in gran parte di una ripetizione dei precetti cistercensi.
 

Ne riportiamo qualche paragrafo:

8. Le chiese non devono avere volte se non sopra l’altare maggiore, e ciò solamente con l’autorizzazione del ministro generale.

15. Poiché una decorazione troppo ricca e abbondante contraddice il principio di povertà, ordiniamo che si eviti di trasformare le chiese in edifici di curiosità pubblica servendosi di pitture e lavori ornamentali, di vetrate dipinte e di colonne, e anche di dimensioni esagerate.

16. Non si dovranno costruire campanili a forma di torri separati dalla chiesa.

17. Non si dovranno mai fare delle vetrate istoriate e ornate di figure, eccetto la vetrata principale dietro l’altare maggiore che potrà contenere le immagini del Cristo crocifisso, della Vergine, di S. Francesco e di Sant’Antonio.

18. Né sopra l’altare, né in alcun altro posto dovranno esser collocate tavole preziose o degne di attenzione. E se tavole o vetrate del genere sono già state fatte, i visitatori provinciali dovranno farle togliere. Chi trasgredirà queste norme verrà severamente punito, e i capi che avranno disobbedito dovranno essere allontanati per sempre dalla posizione che occupano, a meno che non siano richiamati dal ministro generale.

21. Del pari, dovranno essere tolti dalle chiese turiboli, crocifissi, ampolle e altri utensili o immagini in oro o argento ad eccezione dei crocifissi o degli altri oggetti predetti in cui si trovino reliquie venerabili, o del calice destinato ad accogliere il corpo di Cristo: e anche quei calici dovranno essere di una lavorazione molto semplice e non superare il peso il peso di 2,5 marchi.

22. Inoltre il numero delle pissidi non dovrà essere superiore a quello degli altari, ad eccezione di una pisside per il convento; e i cu-stodi e i guardiani dovranno vegliarla in nome dell’obbedienza.

Ma il risultato pratico di queste prescrizioni, che in Germania sem-bravano essere molto ascoltate, in Italia fu limitato. Tant’è vero che alla fine del XIII secolo e all’inizio del XIV; la basilica di Assisi era piena di artisti che ne ornavano le vetrate, le pareti e gli altari. E non si creda che la chiesa principale dell’ordine sia stata l’unica eccezione alla regola; per citare due soli esempi, basti dire che l’antico campanile della chiesa di San Francesco a Bologna risale al 1261 e che la costruzione della chiesa a volta di Piacenza ha inizio nel 1278. Del resto, che cosa poteva fare l’autorità dello stesso Bonaventura contro il movimento universale e possente che spingeva il popolo a ornare le chiese di pitture e di oggetti preziosi, contro l’impulso irresistibile della giovane arte nuova, che aveva ricevuto proprio dai francescani lo stimolo maggiore? Perciò i precetti cistercensi hanno esercitato soltanto una debole e passeggera influenza, per quanto riguarda l’ornamentazione delle chiese; invece la pianta tradizionale degli edifici cistercensi è stata un modello imitato quasi universalmente. Si tratta, come già visto, della parte est della chiesa in cui l’altare maggiore è chiuso, per così dire, fra le cappelle disposte alla sua destra e alla sua sinistra; questa conformazione, praticata forse per la prima volta a Cîteaux, perfettamente realizzata a Fontenay, si ritrova costantemente nelle chiese cistercensi, e anche nelle chiese degli ordini mendicanti in Italia, sia al Nord che al Sud. La differenza fra le chiese settentrionali e quelle della regione umbro-toscana consiste semplicemente nel fatto che le chiese del Nord conservano la ripartizione a tre navate e il sistema a volta, mentre le chiese umbro-toscane hanno una sola navata molto semplice, con soffitto in legno. Ma anche la linearità di questo secondo tipo rivela un principio architettonico nuovo, che non ha nulla a che fare con lo stile gotico, e che deve essere piuttosto considerato come un principio essenziale dell’arte rinascimentale. Questo nuovo elemento si oppone allo stile prettamente gotico dell’Italia del Nord.
Già la costruzione immediatamente posteriore alla basilica di Assisi, la chiesa di San Francesco a Cortona, fondata nel 1230, trasforma in un modello nuovo quello tipico dell’ordine cistercense, che invece si conserva ancora a lungo nel Nord. E sempre al Nord viene ripresa un’altra struttura cistercense; la disposizione della cattedrale francese, che appare per la prima volta a Pontigny, e che consiste in un insieme di cappelle aperte a raggiera intorno al coro. E tutta una serie di edifici bolognesi, raggruppati intorno alla chiesa di San Francesco a Bologna, ci mostreranno come è stata diversa e feconda l’influenza dello stile architettonico cistercense su quello francescano.

Dopo queste considerazioni generali di orientamento, passeremo in rassegna le chiese francescane d’Italia; non tutte naturalmente, ma solo le principali, cioè quelle che riassumono le diverse tenden-ze e mettono in evidenza le fasi dello sviluppo architettonico. Fra tutte le fonti più antiche in merito è bene nominare subito accanto agli Annales di Wadding, l’opera di frate Francesco Gonzaga, De origine seraphicae religionis Franciscanae (Venezia 1603) anche se l’autore si occupa meno degli edifici in sé e per sé che dell’insediamento delle prime comunità. Quanto ai moderni storici dell’architettura, Ricci, Lùbke e Schnaase danno un contributo prezioso, e soprattutto Mothes, col suo Baukunst des Mittelalters in Italien (Architettura del Medioevo in Italia).

E’ interessante sottolineare che molte chiese dell’Italia settentrionale sono servite all’epoca di Napoleone per altri scopi e ancora oggi molti degli antichi luoghi di preghiera delle più pacifiche fra le corporazioni medievali servono all’esercito italiano come magazzini o depositi di armi. E proprio armi, nonché equipaggiamenti di ogni tipo, riempiono una delle più belle chiese di Bologna e una chiesa di Mantova, a Parma e a Bergamo i detenuti scontano la loro pena nei luoghi dove per secoli i fedeli sono venuti a chiedere perdono dei propri peccati. Invece la chiesa francescana di Cremona è oggi adibita ad ospedale, per cui nelle sue sale perfettamente aerate si allineano i letti degli ammalati - e certo si tratta di un impiego contro il quale lo stesso Francesco non avrebbe avuto nulla da obiettare. Infine, in parecchie altre città, come Milano, Genova e Torino, non è rimasta alcuna traccia delle antiche chiese francescane, spesso neppure una descrizione che ci consenta di ricostruirle almeno nel pensiero. Miglior sorte incontra lo studioso di architettura francescana nell’Italia centrale, dove le chiese dell’ordine sono rimaste in piedi quasi dappertutto, anche nelle città più piccole; spesso si sono conservate integre e ancora oggi, con poche eccezioni, servono da luoghi di culto, come a Pisa e a Lucca.
Prima esaminaremo i conventi più antichi, fondati e abitati da Francesco stesso, e gli edifici collegati alla basilica principale dell’ordine, e poi le chiese a volta dell’Italia del Nord.
 

2. Le prime sedi:

Tre chiese hanno avuto un ruolo importante nella conversione del giovane mercante di Assisi: San Damiano, San Pietro e Santa Maria in Porziuncola. Il racconto della vita di Francesco ha già mostrato l’importanza storica degli sforzi del giovane, attestati da tutte le fonti antiche, per restaurare questi vecchi edifici. semidistrutti dal tempo; e abbiamo visto come le generazioni seguenti abbiano fatto del triplice re-stauro il simbolo della fusione dei tre ordini. Ma ancora una volta ci troviamo di fronte a un elemento misterioso. Come si spiega, per esempio, che proprio queste tre chiese mostrino dei particolari architettonici che, senza alcun rapporto con l’arte italiana precedente, si riallacciano direttamente allo stile francese? Come si spiega che queste tre chiese hanno la forma a volte ogivali, che all’epoca apparteneva quasi esclusivamente alla Francia del Sud? Non solo; come si spiega che anche l’antica cappella che Francesco costruì con le sue stesse mani sul monte della Verna ci offre la stessa forma tutta francese, e che ancora questa forma ritorna, anche se meno accentuata, in una delle pic-cole celle del suo luogo di soggiorno preferito, le Carceri? E un fatto singolare, al quale è difficile dare una spiegazione: rivela soltanto che Francesco era debitore alla Francia del Sud anche della conoscenza di un tipo particolare di costruzione e della capacità di realizzarlo.
 

Si farebbe un’idea completamente sbagliata di San Damiano chi se la immaginasse come nell’affresco del Pianto delle clarisse, dipinto da Giotto nella chiesa superiore di Assisi. Non c’è differenza più radicale di quella esistente fra il vero aspetto della facciata della chiesa e la facciata rappresentata da Giotto, che invece ricorda quelle del duomo di Orvieto e di Siena. San Damiano è una piccola cappella oblunga, coi volta a sezione ogivale nella parte anteriore e a tutto sesto nella parte di fondo. L’abside è rotonda; spazi quadrangolari, con volta a botte; si aprono a destra del coro, mentre il centro del muro di destra si apre una cappella con volta a sezione ogivale. A destra della chiesa, su un piccolo portico, si apre la cappella di San Girolamo, consacrata nel 1516 da Galeotto de’ Bistocchi e decorata con affreschi di Tiberio d’Assisi: una Madonna con santi, del 1517, e San Rocco e San Sebastiano, del 1522. La semplice facciata della chiesa, con fastigio a cuspide, abbraccia oggi anche questa cappella, ma in origine era destinata alla chiesa vera e propria, come mostrano il portale quadrangolare e la finestra tonda da cui e sormontato. A sinistra della chiesi si trovi il pic-colo chiostro terminante con il convento, un tempo adibito di Chiara e dalle sue sorelle, che è stato quasi interamente rinnovato nel XVIII e XIX secolo. Il dormitorio con coro si trova sopra la chiesa stessa; il refettorio, con sovrastante infermeria occupa il lato est del chiostro. Sarebbe interessante poter stabilire che cosa sia rimasto dell’antica cappella, menzionata per la prima volta nel 1030 nella quale San Francesco ha compiuto i suoi lavori di restauro. Il Cristofani nella sua dettagliata storia e descrizione della chiesa sostiene che la parte più antica è quella di fondo dell’abside sino all’attuale altare maggiore, mentre la parte con volta a sezione ogivale sarebbe stata aggiunta in seguito; lo stesso autore afferma che Francesco si è limitato a restaurare la cappella primitiva senza procedere ad una nuova costruzione. Dando ragione al Cristofani sulla prima parte delle sue affermazioni - perché la differenza di livello del suolo e la diffe-renza d’altezza delle volte attestano evidentemente due periodi diversi nella costruzione - il confronto fra San Damiano e gli altri edifici di cui parleremo porta ad ammettere che proprio la parte a volta ogi-vale costituisca l’opera di
Francesco nella riedificazione della chiesa.

 

 
«Restaurata la predetta chiesa - dice Tommaso da Celano - il servo di Dio si portò in un altro luogo vicino alla città di Assisi e si mise a riparare una seconda chiesa in rovina, quasi distrutta, non interrompendo la sua buona opera finché non l’ebbe condotta completamente a termine». Bonaventura ci dice anche il nome della chiesa: “Francesco passò a riparare, in un luogo un po’ più distante dalla città, la chiesa dedicata a San Pietro, spinto dalla devozione speciale che nutriva, insieme con la fede pura e sincera, verso il Principe degli Apostoli”. Esiste veramente, vicino alla porta sud di Assisi, una chiesa di San Pietro, la cui architettura rimanda a quel periodo, ma la sua posizione non corrisponde alle parole di Bonaventura, che la indica come “longius a civitate distans”. Comunque deve essere proprio questa la chiesa di cui parlano gli antichi biografi, perché non ne esistono altre nei dintorni di Assisi che siano consacrate a San Pietro. San Pietro è un edificio a tre navate, con un transetto non sporgente; la crociera e sormontata da una cupola; l’abside e semicircolare e attigua a un coro oblungo. Le navate laterali si prolungano, parallelamente a quella centrale, oltre il transetto. Sei pilastri molto semplici, rettangolari, coronati da capitelli anch’essi molto semplici, sostengono degli archi ogivali tanto arrotondati, che a un primo colpo d’occhio si sarebbe tentati di considerarli a tutto sesto- La navata centrale è coperta da una volta a sezione leggermente ogivale, suddivisa da otto sottarchi; le navate laterali hanno ciascuna tre volte a botte con sezione a sesto ribassato, separate longitudinalmente da ampi sottarchi. La cupola in mattoni, costruita su pennacchi, poggia su quattro archi, due dei quali, quelli che si aprono sul transetto, sono ad ogiva molto ampia, mentre gli altri due sono a tutto sesto. Nel coro e nei transetti le volte sono a botte semicilindrica; quelle dei transetti sono una diretta conti-nuazione delle volte delle navate laterali. Nel transetto di sinistra è stata costruita, più tardi, una cappella rettangolare gotica, che nei dettagli, soprattutto i pilastri dai capitelli arcaici che sorreggono la volta a crociera, ricorda molto le cappelle laterali della chiesa inferiore di San Francesco, che viene collocato verso il 1300, e probabilmente è opera dello stesso architetto. La navata centrale riceve luce soprattutto dalle finestre tonde della facciata e dalle piccole finestre a tutto sesto dei muri laterali; il coro è rischiarato da una bifora a tutto sesto.
La facciata, di cui un’iscrizione ci rivela che è stata fatta nel 1268, ai tempi dell’abate Rusticus, è conforme al modello che era diventato tradizionale ad Assisi dopo che era servito per il duomo. Su due piani, ognuno dei quali terminante con un fregio continuo ad archetti a lutto sesto, la facciata forma, in alto, una linea retta, ed è divisa in tre parti da lesene. Dei tre portali a tutto sesto, quello centrale, il più grande, è incorniciato da due colonnine, i cui capitelli sono rispettivamente ornati da quattro volatili e da due leoni in bassorilievo; il portale, come gli architravi, è incorniciato da un’ornamentazione a viticci. Tre rosoni, di una lavorazione molto ricca e bella, animano il piano superiore. Le facciate laterali sono molto semplici; l’abside è suddivisa da due lesene ornate da un fregio continuo ad archetti. Un campanile quadrangolare si erge all’estremità della navata destra.
Si ignora la data di costruzione di questa chiesa, che un tempo apparteneva a un convento dei benedettini. Laspeyres, che la descrive nel suo prezioso studio sui monumenti dell’Umbria, nota che essa è menzionata per la prima volta nel 1029. I monaci da cui la chiesa dipendeva presero la regola cistercense verso la meta del XIII secolo e nel 1577 furono costretti da Gregorio XIII a lasciare il convento. Impossibile precisare in che anno la chiesa antica abbia ricevuto la forma con cui noi oggi la vediamo, perché la data dell’iscrizione si riferisce soltanto alla facciata In ogni caso, fu prima del 1253, anno in cui Innocenzo IV in occasione di una sua visita ad Assisi, consacro la chiesa. Potrebbe sembrare un po’ strano trovare al suo interno le volte a botte, in un periodo in cui la chiesa di San Francesco e quella di Santa Chiara avevano reso comune la volta a crociera; d’altra parte, se volessimo dar credito alla leggenda secondo la quale Francesco avrebbe preso parte alla ricostruzione di San Pietro, ci troveremmo nella condizione di dover spiegare in che modo il santo senza essere un architetto, fosse in grado di superare le difficoltà tecniche create dall’architettura gotica della Francia meridionale.
Comunque sia, una cosa è certa: San Pietro, per quanto concerne la conformazione delle sue volte costituisce in Italia un fenomeno praticamente unico. Difficile supprre un collegamento con le chiese pugliesi, come Santa Maria Immacolata a Trani, Santa Maria Assunta ad Altamura, San Giuseppe a Gaeta, in cui di preferenza è stata usata la volta a botte semicilindrica. Soltanto certe chiese normanne dell’Italia del Sud presentano delle volte a botte a sezione ogivale, come la cattedrale di Siponto, la chiesa di Sant’Agostino a Ravello, terminata nel 1066, la piccola chiesa di San Nicola presso Girgenti, la chiesa di San Niccolò e Cataldo a Lecce, e poi ancora la cattedrale di San Leone, nel ducato di Urbino, ricostruita nel 1173. Che quest’ultima antica basilica, ricostruita probabilmente sotto influenze francesi e modificata in una chiesa con volte a botte a sezione ogivale nella navata centrale e nel transetto, sia servita da modello per San Pietro ad Assisi, sembrerebbe un’ipotesi plausibile; tuttavia è da escludere, perché la cattedrale in questione, con i suoi pilastri dalla ricca lavorazione e le sue arcate dall’ogiva accentuata, è di un gotico più avanzato di quello di San Pietro, in cui il nuovo stile si presenta ancora titubante. Al contrario, la stessa esitazione fra l’arco ogivale e quello a tutto sesto, la stessa semplice conformazione quadrangolare dei pilastri, la stessa tendenza a mantenere rotondi i costoloni delle volte ogivali, tutto ciò si ritrova spesso nelle chiese provenzali del XIII secolo. E così si deve concludere che sia arrivata proprio dalla Francia l’influenza principale che ha agito sull’architettura di Assisi.

La terza chiesa ricostruita da Francesco è quella in cui, ascoltate le parole del Vangelo, egli si votò per sempre alla povertà, ed è quella che diventò la vera patria sua e dei suoi discepoli: la Porziuncola, che ancora oggi è rimasta piccola e poco appariscente, al centro della possente basilica di Santa Maria degli Angeli. Un tempo apparteneva ai monaci benedettini del monte Subasio. “Eretta in tempi antichi - racconta Tommaso da Celano - era ormai abbandonata e negletta. Vedendola in quel misero stato, mosso da compassione, anche perché aveva grande devozione per la Madre di ogni bontà, il santo vi stabilì la sua dimora e terminò di ripararla nel terzo anno della sua conversione”. La Porziuncola è una piccola chiesa oblunga con volta a botte a sezione ogivale, abside semicircolare, tetto a punta, una semplice porta a tutto sesto sulla facciata e un’altra uguale in uno dei muri laterali. Divenne il punto centrale del primo convento fondato da Francesco per sé e per i suoi discepoli: in altri termini, fu la culla di tutto l’ordine. Anche il convento doveva essere molto semplice; occupava il luogo dove ora si erge la vasta chiesa, al centro di una fertile valle. Non è rimasta alcuna raffigurazione antica delle piccole capanne prive di ogni ornamento in cui vivevano i frati, ciascuno separato dall’altro per poter essere liberi di dedicarsi alla preghiera e alla mortificazione; e del resto, anche se ne avessimo qualche raffigurazione, ben poco ci sarebbe da dire. Una di esse, in cui, secondo la tradizione, il santo sarebbe morto, è stata trasformata in cappella ed è inglobata nella grande basilica; un’altra si trova al di sotto della cappella del Roseto.
È difficile al giorno d’oggi ritornare col pensiero a quei tempi, osservando le vaste costruzioni che nel corso dei secoli sono sorte in questo luogo di pellegrinaggio e che gli hanno conferito un aspetto imponente. Anche se la validità storica dell’indulgenza della Porziuncola lascia il tempo che trova, la fama della chiesa è cresciuta anno dopo anno, tanto che i suoi immensi spazi sono appena sufficienti ad accogliere le migliaia di pellegrini clic vengono a visitarla. Secondo un’antica tradizione, menzionata da Salvatore Vitali nel suo Paradisus Seraphicus, quattro eremiti, inviati in Italia da San Cirillo con un frammento della tomba della Vergine, avendo ricevuto da papa Liberio l’incarico di costruire nella valle spoletana una cappella che contenesse la reliquia, vi eressero un santuario della Vergine ornato di un’immagine dell’Assunzione; e questo santuario ha ricevuto più tardi il nome di Santa Maria degli Angeli, dopo che San Benedetto, nel 576, ebbe ottenuto l’autorizzazione di prenderne possesso per il suo ordine5. Non era propriamente un convento, ma piuttosto una semplice portiuncola terreni. Successivamente passò ai monaci cluniacensi, poi ai cistercensi, finché, nel 1075, i monaci che l’abitavano si ritirarono nell’abbazia del monte Subasio, abbandonando la piccola chiesa, che cadde in rovina. Secondo la leggenda, madonna Pica aveva l’abitudine di recarvisi a pre-gare, e fu lì che ebbe la certezza di aspettare un figlio. Questo figlio, dopo aver restaurato la piccola chiesa e averla ottenuta dai benedettini, ne fece la sua vera patria. Tommaso da Celano racconta che Pietro Cattaneo fu il primo a tentare di ingrandire la chiesa, tentativo che fu disapprovato da Francesco, il quale distrusse ogni traccia di ampliamento. Dopo la morte del santo ebbe luogo un nuovo tentativo; si tratta senza dubbio della costruzione di una chiesa che inglobava la Porziuncola, e che nel 1288, in seguito a un breve di Niccolò IV pubblicato dal Wadding è stata allargata e arricchita di decorazioni. Quel che dice il Cristofani nella sua Guida circa la forma a croce della chiesa, non ha alcun fondamento storico. Sappiamo soltanto della presenza di una loggia a cui anche Pio II allude in un breve dell’11 luglio 1460. Si parla poi di diversi altari e di un’immagine dell’Assunzione sopra l’altare maggiore. Nel XV secolo si registra la presenza di un coro, che probabilmente fu il primo ingrandimento considerevole: venne eretto nel muro di fondo della chiesa, e il Perugino lo adornò con una Crocifissione, in parte danneggiata a causa della successiva distruzione del coro stesso e poi malde-stramente restaurata. Il coro, demolito nel 1700, si può ancora vedere in un disegno del Providoni all’interno del Collis Paradisi. Infine, nel 1569, Jacopo Barozzi da Vignola cominciò la grande costruzione attuale, proseguita e ultimata dopo la sua morte, avvenuta il 7 luglio 1573, da Galeazzo Alessi e poi da Giulio Dantiti.

La magnifica chiesa di Santa Maria degli Angeli è formata da tre navate, con cinque cappelle da ciascun lato e archi a tutto sesto sorretti da pilastri. Al centro del transetto, non sporgente, si eleva una grandiosa cupola. Il coro, molto profondo, affiancato sulla sini-stra da uno più piccolo, da cui lo separa un muro, termina con un’abside semicircolare. A destra si trova la sagrestia; a est della sagrestia c’è il giardino e proprio lì accanto si trova la cappella del Roseto, nella quale è inglobata la pic-cola cella che fu teatro della tentazione di Francesco. E’ stato Bonaventura a far costruire al di sopra di questa cella un piccolo oratorio, che nel 1435 venne ingrandito da Bernardino da Siena e poi decorato di affreschi da Tiberio d’Assisi. A sud della chiesa si erge il convento, ingrandito nel 1288 e poi ricostruito nel 1527, nel 1559 e nel 1606. Nei 1437, Bernardino da Siena aveva impiegato la somma di duecento fiorini, lasciata da un certo “ser Mariotto”  per terminare un dormitorio. Fra il 1615 e il 1620, e poi nel 1640, sono stati costruiti altri spazi per poter dare ricovero agli ospiti stranieri. Fra gli artisti che hanno lavorato al convento ci sarebbe, secondo il Vasari, anche Michelozzo, che nel 1486 avrebbe costruito un acquedotto. Ma è tempo di ritornare a Francesco e ai primi edifici costruiti sotto la sua guida.
Se vogliamo farci un’immagine esatta della vita del santo nei primi tempi dopo la sua conversione, dobbiamo metterci in cammino per il ripido sentiero che sul fianco del monte Subasio conduce da Assisi alle Carceri, il santuario nascosto in una ripidissima gola fra il verde più rigoglioso. È un luogo che si direbbe creato apposta per la contemplazione e l’oblio del mondo: incassato fra le montagne, che sbarrano la vista sulle città di Assisi e di Spello, lascia scorgere soltanto le profondità di una verde vallata. Come per la Porziuncola anche qui Francesco ricevette dai benedettini il permesso di servirsi del luogo, dove creò per sé e peri suoi discepoli una sede che permettesse loro di dedicarsi senza intralci alla preghiera e alla penitenza Bartolomeo da Pisa racconta che qui le celle dei frati erano costruite con rami d’albero trovati per terra. Del primitivo insediamento non è rimasto altro che qualche piccola costruzione una delle quali e ricoperta da una piccola volta a botte a sezione ogivale e ha al suo interno la pietra che serviva da giaciglio al santo. Le altre costruzioni, di scarso interesse, che circondano un piccolo chiostro, provengono per la maggior parte dagli ampliamenti ordinati dopo il 1376 da P. Paolo Trinci, che fece costruire un dormitorio con otto stanze. Secondo un’antica tradizione Bernardino da Siena fece costruire un secondo piccolo dormitorio ed eresse la chiesetta dalla volta a botte che altre fonti fanno risalire a Francesco stesso, ma che in ogni caso non può essere posteriore al XIV secolo

Un altro dei luoghi preferiti di Francesco, dove dimorò a lungo con i suoi discepoli prima di stabilirsi alla Porziuncola, e dove si riunirono tutti i discepoli che vennero: dopo il Santuario di Rivotorto. Ora sopra il piccolo oratorio del santo vediamo ergersi una chiesa che ha preso il posto di un’altra ultimata nel 1640, consacrata nel 1643 e distrutta nel 1853 da un terremoto, una chiesa di cui troviamo due riproduzioni nell’opera del Bini, con una facciata molto semplice e l’interno a tre navate cori volta a botte

E’ da menzionare poi il cosiddetto Speco o Eremo di San Francesco, a circa dodici chilometri da Narni dove il santo dimorò di quando in quando. È una grotta, nelle vicinanze della quale si trova una piccola cappella ornata di affreschi del XIV secolo. Sono ricavate nella roccia anche le poche stanze che servirono da dimora a Francesco nel Convento di Greccio, noto col nome di Monte di San Francesco; si tratta del dormitorio, dell’oratorio e del refettorio.

Esistono perciò moltissimi luoghi che sono stati consacrati a Francesco in ricordo della sua presenza, ma molti di questi, pur avendo un grande interesse religioso, non hanno alcun valore per la storia dell’arte. Tuttavia uno di questi, agli occhi dei cattolici, supera in importanza quasi tutti gli altri santuari di San Francesco: il convento sul Monte della Verna, costruito nel luogo dove Francesco ha avuto la visione del Serafino che ha segnato sulla sua carne le piaghe di Cristo. Entrati nella parte anteriore del convento, ci si trova di fronte alla piccola chiesa degli Angeli che, secondo la tradizione, sarebbe stata costruita dal conte Orlando su disegno di Francesco, o forse con l’assistenza di Francesco stesso, e che in ogni caso è la parte più antica di tutto il convento. È ricoperta con volta a botte a sezione ogivale, e quindi mostra di nuovo uno stile che sembra essere quello particolare di Francesco. Nel 1252, secondo Wadding, papa Innocenzo la fece ampliare. Il suo principale orna-mento artistico è costituito da diverse opere tarde della scuola dei della Robbia: una Natività, una rappresentazione del Cristo nel sepolcro, sorretto da Maria e Giovanni e una Madonna della Cintola eseguita da Andrea stesso. Dell’antica disposizione del convento, a destra della chiesa, non si riconosce più nulla della presente struttura, costituita da due complessi di edifici intorno a due chiostri. Sappiamo soltanto che papa Alessandro IV, in una bolla del 10 Aprile 1255, ha preso il monte della Verna sotto la sua speciale protezione e ha ordinato che dei frati vi abitassero costantemente. Il 20 Agosto 1260, alla presenza di Bonaventura e di sette vescovi, ha avuto luogo la consacrazione della chiesa col nome di «Santa Maria degli Angeli e di San Francesco». Nel 1264, Simone, conte di Battifolle e di Poppi, fece erigere nel luogo dove Francesco aveva ricevuto le stimmate la Chiesa delle Stimmate», coperta di due volte a crociera, che molto più tardi è stata unita alla chiesa degli Angeli per mezzo di un lungo corridoio ornato di affreschi moderni. Al centro di questa chiesa si trova il luogo della stimmatizzazione, indicato da un rilievo avente per soggetto il miracolo; si tratta chiaramente di un’opera fiorentina della seconda metà del XV secolo. Sulla parete dell’altare si vede una grande e magnifica opera di Andrea della Robbia: il Cristo in croce, con la Vergine e i santi Givanni, Francesco e Girolamo.

La terza chiesa, che attualmente costituisce il centro di questo insieme irregolare di costruzioni, venne iniziata nel 1348 da Tarlato, conte di Chiusi e Pietramala, e da sua moglie Giovanna, contessa di Santa Fiora, ma fu ultimata soltanto nel XV secolo dalla Signoria di Firenze, a cui Eugenio IV aveva attribuito il protettorato del convento. Secondo le affermazioni del Wadding, da accogliersi con la dovuta caute-la, il coro di questa chiesa venne costruito nel 1465, il corpo della chiesa nel 1486 e il campanile nel 1490 (secondo Chavin nel 1489): chiesa e campanile sarebbero opera di Domenico Bartoli. È una chiesa a navata unica, formata da quattro campate, due piccole cappelle a sinistra, una a destra e un piccolo coro rettangolare. Un portico, con volta a crociera poggiante su semplici pilastri quadrangolari, è collocato davanti alla facciata e davanti alla parete laterale destra.
Gli altari sono ornati di numerose opere dei Della Robbia, soprattutto le incantevoli rappresentazioni dell’Annunciazione e della Natività, opere dello stesso Andrea che si trovano in due graziose cappelle rinascimentali, fondate, secondo un iscrizione nel 1479  da un certo “Jacobus Britii de plebe Sancti Stephani”.  E ancora sempre di Andrea una grande Ascensione, una Madonna col Bambino e i Santi Onorio, Antonio abate, Francesco e Maddalena che artisticamente non ha una grande rilevanza, e le due statue di Francesco ed  Antonio da Padova A Giovanni della Robbia è stata attribuita la Pietà che si trova nella cappella terminale del portico. Diverse piccole cappelle isolate completano la struttura pittoresca del convento, ripartito su un terreno diseguale.

Dopo il soggiorno sul monte della Verna e le intime esperienze struggenti vissute su quella cima a Francesco non rimaneva più molto da vivere. Giacque malato a Siena dove frati gli avevano chiesto consiglio per la costruzione di un convento. La risposta riportata dal Wadding merita di essere menzionata perché lo spirito che la impronta è sicuramente conforme al vero spirito di San Francesco: “i frati - è la risposta del santo - devono andare a fare un grande fosso per delimitare il pezzo di terreno che hanno ottenuto e sul quale vogliono erigere il loro convento; e poi invece di circondarlo con delle mura, devono recintarlo con una bella siepe, in segno di po-vertà e umiltà. Poi devono farvi costruire delle povere capanne di le-gno e argilla, nelle quali potranno pregare e lavorare, al fine di vivere onorevolmente ed evitare l’ozio. Le chiese, del pari, devono costruirle piccole; né il pensiero delle predicazioni né altro motivo alcuno dovrà indurli a costruire templi di grandi dimensioni e ricchi di ornamenti”. È il modello semplice e umile della Porziuncola; e a quel modo devono essere state costruite le prime sedi francescane nelle varie città d’Italia; senza contare che le troviamo quasi sempre fuori dalla città, come nel caso della Porziuncola. Ma presto il numero dei frati divenne così grande, l’impulso del popolo così pressante e i doni di terreni all’ordine mendicante così abbondanti, che cominciarono a sorgere, anche all’interno delle mura cittadine, chiese di dimensioni sempre più grandi, che nulla avevano in comune con le costruzioni primitive, neppure quella particolarità architettonica della volta, che, come abbiamo visto, era stata ispirata dal gusto personale di Francesco.
 

3. Gli edifici a volta dell’Italia settentrionale:

Le chiese francescane dell’Italia del Nord non mostrano un modello definito, di cui poter seguire lo sviluppo sino al punto di massimo fulgore. È come se qui la lontananza da Assisi avesse anche attenuato il nuovo ideale della povertà, insieme agli altri precetti lasciati da Francesco in materia di architettura religiosa. Già poco tempo dopo la morte del santo si assiste, nell’Italia setten-trionale, al sorgere di templi ricchi e possenti in onore della sua memoria, che creano un contrasto singolare con le semplici costruzioni dell’Italia centrale. La stessa Bologna, che andava fiera di essere diventata la vera patria del grande contemporaneo di Francesco, Domenico, assistette, dal 1230, alla costruzione in onore del santo di Assisi di un edificio che trapiantò in Italia lo stile della cattedrale francese. Questa costruzione fu proprio il risultato della rivalità fra i due ordini mendicanti, e del desiderio, da parte dei francescani, di manifestare nella monumentalità degli edifici l’importanza del loro ordine. Più o. meno nello stesso periodo sorse a Padova la grande chiesa di Sant’Antonio. La metà del XIII secolo vide i francescani e i domenicani impegnati a costruire i loro templi a Venezia; e, a Milano, è ancora una volta la chiesa di San Francesco a sovrastare tutte le altre chiese della città. La differenza di atteggiamento fra il Nord e il Centro è molto semplice da spiegare. Le cittadine montuose dell’Umbria, in effetti, non assomigliano per niente ai grandi e ricchi centri commerciali e politici dell’Italia del Nord; per Firenze, così come per Siena, l’ora del grande riscatto non era ancora scoccata; solo Pisa poteva reggere il confronto con le grandi città lombarde. Così l’entusiasmo che a Milano, a Parma, a Bologna, a Venezia e un po’ dappertutto aveva portato le folle ad abbracciare i principi così semplici di Francesco, eppure così ricchi di consolazione in un periodo di lotta di tutti contro tutti, non poteva che esprimersi qui nel Nord, dove non erano certo i mezzi a mancare, in costruzioni grandiose, la cui ricchezza e la cui potenza onoravano, a loro modo, l’ideale della santa povertà. Senza contare che i primi insediamenti dei frati mendicanti nell’Italia del Nord si verificano in un periodo in cui regna un’attività architettonica notevole, sempre alla ricerca di forme nuove. Da circa un secolo la Lombardia è impegnata nell’impresa di risolvere il problema delle volte. I cistercensi avevano portato con sé delle forme e delle idee nuove; nel 1221 era sorta la loro chiesa di Chiaravalle, vicino a Milano, la cui influenza era stata enorme in tutta la Lombardia. Questa regione non aspettava altro che l’occasione di mettere in pratica le numerose esperienze fatte nel corso degli anni; e il culto francescano le offrì proprio questa preziosa occasione. Il popolo esigeva grandi chiese e a tal fine dispensava denaro in abbondanza; gli architetti facevano del loro meglio perché le chiese fossero ricche, complesse e belle il più possibile; e certo la cosa andava a genio ai frati mendicanti. È tutto un fre-mere di vita e di attività. Si fanno i tentativi più vari, in questi nuovi edifici; dappertutto ci si sforza di rielaborare e di sviluppare lo stile gotico; ed è nell’Italia del Nord che questo stile sviluppa le sue caratteristiche peculiari, che conserverà nella costruzione delle chiese francescane e domenicane di tutta la penisola.
Per uno studio approfondito delle chiese mendicanti dell’Italia settentrionale, possiamo distinguere due grandi categorie. La prima comprende gli edifici che, nella loro pianta, si rifanno ancora all’antica for-ma della basilica; la seconda comprende gli edifici che imitano le chiese cistercensi; e questa seconda categoria si divide a sua volta in due, perché alcune chiese presero dai cistercensi il modello della cattedrale, mentre altre imitarono lo stile più semplice, quello con le cappelle intorno al coro. Le chiese della prima categoria sono, in un certo senso, delle opere di transizione, mentre quelle della seconda categoria introducono e sviluppano lo stile nuovo dell’architettura gotica italiana. La conclusione che si ricava dallo studio degli edifici presi in esame è che, nell’insieme, il gotico italiano prende a prestito le sue caratteristiche fondamentali dall’architettura cistercense; i cistercensi ci misero le idee, i frati mendicanti le svilupparono. La sola proprietà veramente nuova che l’arte gotica ha acquisito in Italia è l’unione del sistema della cupola, sempre amata nei paesi del Sud sin dai tempi Classici, con la pianta tipica dello stile cistercense.

- Il modello della basilica

La prima chiesa da citare qui, e forse anche la prima grande costru-zione dei francescani nell’Italia del Nord, è San Francesco del Prato, a Parma. Sulla storia della sua costruzione non abbiamo notizie molto precise; sappiamo soltanto che subito dopo la morte del santo, nel 1226, venne eretto a Parma un convento francescano con oratorio e ospedale, concluso, secondo il Malaspina, nel 1250. Secondo un’antica cronaca parmense, la costruzione ebbe inizio nel 1230 e si concluse al più tardi nel 1298, anno in cui viene menzionata la “ecclesiam novam Fratrum Minorum”. Perciò possiamo concludere che la costruzione di cui parla Flaminio di Parma e che egli colloca, in base a fonti antiche, nell’anno 1380, non poteva essere una nuova costruzio-ne, ma un semplice ampliamento. Nel 1398 le mura perimetrali erano ultimate. Nel 1443, un documento riferisce che «incepti sunt pilones de quadredo in Ecclesia Minorum S. Francisci de Parma». Nel 1460 il tagliapietre Alberto da Verona fornì il materiale per il rosone. Nel 1806 la chiesa venne trasformata in caserma; pochi anni dopo in “casa di forza”. Non c’è alcun dubbio che l’impostazione principale e la ripartizione es-senziale risalgano al XIII secolo, forse addirittura alla prima metà di quel secolo. Lo provano soprattutto le piccole finestre a tutto sesto della navata centrale, che sono ancora tutte romaniche. Alla ricostruzione del XIV secolo do-vrebbero risalire le cappelle annesse alla navata laterale destra e anche la struttura poligonale dell’abside, forse anche gli archi di separazione, con la loro forma ogivale.
Sotto Napoleone I, per guadagnare spazio, la chiesa è stata scissa in tre unità distinte, con conseguente chiusura delle arcate della navata centrale. È una basilica a tre navate, con capriate a vista, cinque archi ogivali molto alti poggianti su ampi pilastri rotondi; l’abside è pentagonale, con una volta divisa in otto settori e due file di finestre a sesto acuto. Da ciascun lato dell’abside si apre una cappella più piccola a terminazione quadrangolare; la volta divisa in sette settori è rimasta soltanto nella cappella di destra. La prima delle cinque arcate sul lato d’ingresso è larga la metà delle altre. La navata laterale di destra è accompagnata da quattro grandi cappelle quadrate e da cinque cappelle oblunghe, poco profonde, nelle quali solo in parte sono rimaste le antiche volte a crociera con costoloni rotondi. Accanto all’abside laterale di destra si erge il campanile. La facciata, tutta rimodernata, presenta parecchie finestre; ha un fatigio a cuspide, quattro contrafforti, in ognuno dei quali si trova una nicchia gotica, un grande portale centrale a tutto sesto, suddiviso da tre colonne rotonde con capitello gotico, e, a destra, un portale più piccolo, recentemente restaurato in maniera accurata. In alto, sopra il portale, il grande rosone, la cosiddetta «ruota della fortuna».
Questa chiesa, molto antica, mostra ancora una spiccata tendenza alla semplicità; ma già la chiesa di San Francesco a Modena, pur così vicina alla precedente, è di un’arte sensibilmente più ricca. Pur avendo ricevuto la sua forma attuale solo nel XIV secolo, conserva la stessa disposizione fondamentale di una basilica a tre navate, con abside a terminazione triangolare e due absidi laterali simili a quella centrale; il sistema delle volte è già molto ricco. Le nove campate della navata centrale, undici incluso il coro, sono insolitamente strette e oblunghe; i sostegni sono costituiti da semplici pilastri quadrangolari. La facciata, moderna, ha un portale a ogiva e una finestra circolare.
Si riallaccia alle due chiese precedenti la chiesa di San Francesco a Mantova, trasformata in arsenale dall’inizio del XIX secolo, anche se della costruzione antica non è rimasta che la parte esterna. L’imponente facciata, divisa in tre sezioni da bei contrafforti, ha un ammirevole portale gotico in pietra, due alte finestre gotiche, molto semplici, uno splendido rosone, un fregio con archetti a tutto sesto e una terminazione a cuspide con pinnacoli ottagonali. A destra, il muro della prima delle grandi cappelle prolunga la facciata. Il lato destro della chiesa è vivacizzato dai semicerchi sporgenti delle altre cinque cappelle; a guisa di transetto, sempre su questo lato, sporge una cappella un po’ più grande, con una facciata fiancheggiata da possenti pilastri d’angolo sormontati da pinnacoli e ornati di un fregio trilobato; sempre su di essa si aprono alte finestre trilobate e un rosone. Per la sua ornamentazione, questa facciata sembra risalire allo stesso periodo della facciata principale. Anche il campanile è antico. Ma se si entra all’interno della chiesa sperando di ritrovare l’impressione d’insieme suscitata dalle strutture esterne, la delusione è grande, tanto è stata radicale la trasformazione della disposizione primitiva a seguito dell’aggiunta di un secondo piano sorretto da pilastri collocati al centro della chiesa. E questo rifacimento, realizzato nel XIX secolo, dev’essere stato preceduto da un altro, che agli antichi sostegni ha addossato dei pilastri corinzi, ha cambiato la struttura del coro e infine ha modificato le volte a crociera della navata di destra in volte a cupola. Tutto quel che si può dire con certezza è che la chiesa primitiva era una grande chiesa a pilastri, con tre navate a otto campate, una grande abside centrale e due laterali quadrangolari. I pilastri di separazione avevano, come si deduce da qualche resto, delle mezze colonnine con capitelli smussati agli angoli. La tribuna principale è oggi sormontata da una cu-pola e termina in una conca absidale. Tranne due, gli archi di separazione sono a tutto sesto, forse dai tempi della ricostruzione; i sottoarchi sono ogivali. Le volte della navata centrale sono oblunghe, quelle delle navate laterali sono quasi quadrate. A destra si vede una seconda navata laterale, sulla quale si aprono una grande cappella oblunga, poi cinque semicircolari più piccole e infine una grande cappella a guisa di transetto, alla quale corrisponde, sul lato sinistro, la sagrestia. Questa struttura irregolare è dovuta probabilmente a un’ulteriore ricostruzione; ma l’esterno della chiesa mostra già un gotico piuttosto avanzato. Della storia della chiesa non si conosce niente, tranne che, nel 1304, un certo Germano terminò la costruzione.

Il coro della chiesa di San Francesco a Brescia avrebbe avuto forse qualcosa da insegnarci sulla forma primitiva del coro della chiesa di Mantova, se un vecchio documento non riferisse che è anch’esso una costruzione gotica del XV secolo. Qui l’interno a tre navate, co-stituite da sette campate, è stato interamente trasformato nel XVIII secolo con l’inserimento di archi a tutto sesto poggianti su colonne doriche e con l’impiego di volte ribassate; di antico c’è rimasta solo la tribuna principale, fiancheggiata da due absidi quadrate più piccole, esattamente come a Mantova. Ora la tribuna è formata da una volta quadrata, una oblunga e stretta e da una semicupola pentagonale. Ma come era in origine? Certamente meno profonda; ma sarà stata quadrangolare o poligonale? Sulla navata laterale di sinistra si aprono sei cappelle, di cui la quarta è gotica, mentre la quinta e la sesta hanno un grazioso rivestimento rinascimentale a pilastri. Il campanile antico si è conservato, e così anche gli elementi essenziali della facciata. Quest’ultima è divisa in tre settori, con un bel portale a tutto sesto ornato di capitelli a calice, che proseguono come una cornice sino ai contrafforti; sono presenti anche un grande rosone, un fregio incrociato con archetti a tutto sesto e due moderne finestre quadrangolari. Secondo la cronaca del Malvezzi, la chiesa è stata terminata nel 1256, e nel 1470 il coro è stato ricostruito da Antonio Zurlengo.

Bisogna citare infine la chiesa di San Francesco a Gubbio, che al pari di altri edifici della stessa città mostra una parentela manifesta con lo stile dell’Italia del Nord. Interamente restaurata in stile barocco all’interno, la chiesa ha comunque conservato la sua antica divisione in tre navate, con tre absidi pentagonali; i pilastri ottagonali, che come a Modena sono a distanza piuttosto ravvicinata (metà della navata centrale; solo i primi due hanno una distanza maggiore), dovrebbero essere antichi, ma attualmente sono sormontati da arcate a tutto sesto. Le volte delle navate laterali raggiungono quasi la stessa altezza di quella centrale. La facciata, a tre settori, ha un portale a tutto sesto, un fregio orizzontale ad archetti ogivali e un rosone, oggi murato. Le pareti laterali e le absidi sono ornate di lesene con un fregio a tutto sesto e hanno delle alte finestre gotiche molto slanciate. Sul lato nord si apre un doppio portale. Il campanile, molto originale, che si erge al di sopra dell’abside sud, è oblungo e ottagonale. Un breve di Niccolò IV riferisce che la chiesa e il convento erano stati ultimati nel 1292.

Molte altre chiese hanno conservato il modello antico della basilica romanica e mostrano una rassomiglianza con quelle che abbiamo appena descritto; ma la loro parentela è troppo superficiale e rivelano an-cora troppi elementi dello stile anteriore, sia nella disposizione delle volte che nell’ordine dei dettagli, per poter essere inserite nella nostra trattazione.
 

- Il modello della cattedrale

Con questa definizione indicheremo un gruppo di chiese la cui caratteristica comune è quella di avere il coro circondato da una serie di cappelle. È praticamente certo che questo modello si presenta per la prima volta, nell’Italia settentrionale, nella chiesa di San Francesco a Bologna, costruita fra il 1236 e il 1245. Questa chiesa ha influenzato in modo determinante l’intero sviluppo dello stile gotico a Bologna, e la sua influenza si è fatta sentire anche sull’elaborazione del progetto generale per la chiesa di San Petronio. Purtroppo il ruolo fondamentale della costruzione bolognese finora non ha potuto essere sufficientemente apprezzato, perché la chiesa, trasformata in deposito militare, è difficilmente accessibile al pubblico.
Sulla storia dell’edificio si hanno poche notizie. Tutte le guide antiche indicano come data della fondazione il 1236 o il 1240; una guida del 1755 indica come architetto Marco Bresciani. Nel 1845 la chiesa è stata restaurata e rivestita di pitture policrome. Benché i documenti ci informino che l’architetto della chiesa è stato un italiano, l’edificio mostra uno stile tutto francese. In Italia ci sono mo-numenti per i quali si può dubitare della presenza di un influsso straniero; ma qui non è ammissibile alcun dubbio. Il sistema del coro a cap-pelle radiali, in questo primo periodo del gotico, è assolutamente tipico dello stile francese; e quando le troviamo in Germania - dove del resto non appare che più tardi, nel XIV secolo, salvo pochissime eccezioni, come le cattedrali di Magdeburgo e di Colonia - si tratta sempre di un prestito dalla Francia, dove si è sviluppato normalmente in edifici di forma ancora sostanzialmente romanica. Uno studio più dettagliato della chiesa di San Francesco a Bologna ci permette di scoprire a quale modello particolare si è ispirato il suo architetto.
È una chiesa a pilastri, formata da tre navate a sette campate, un transetto non sporgente e un coro semicircolare, attorniato da nove basse cappelle quadrangolari. I bracci sporgenti del transetto sono stati aggiunti nel XVII secolo, così come i sei spazi annessi alla navata late-rale sinistra, ad eccezione della piccola cappella pentagonale di San Bernardino  la seconda partendo dall’ingresso - che appartiene anco-ra al tardo stile gotico. La navata centrale, partendo dall’ingresso, ha una volta oblunga, poi tre volte quadrate a sei sezioni, cui corrisponde un numero doppio di volte quadrate nelle navate laterali. Le sette arcate, piuttosto basse, poggiano su pilastri ottagonali con ornamenti modanati, sopra i quali si alza-no delle lesene triangolari con capitelli a foglie di stile gotico, su cui poggiano le volte. L’arco trasversale mediano delle volte a sei settori poggia su pilastri molto semplici e meno for-ti. Altri pilastri si trovano nelle navate laterali. È mol-to difficile, in questo caso, dire quale parte sia da attri-buire al successivo restau-ro. Nella navata centrale ci sono delle semplici finestre a ogiva. La volta della cro-ciera poggia su pilastri: quelli che fanno parte della navata (restaurata) si ac-compagnano a pilastri co-ronati da capitelli con foglie d’acanto, mentre quelli del coro conservano l’antica decorazione a cinque tondini. I capitelli di questi ul-timi pilastri presentano, a destra, un fogliame gotico, a sinistra, degli uccelli sin-golari a forma di sirena. Il coro, con la sua volta a dieci settori, ha an-cora gli antichi pilastri con quattro tondini più grandi alternati a quattro più piccoli. Sui capitelli si trova un semplice fogliame gotico dei gigli, o delle foglie a gemma e addirittura due draghi con la testa di bue che si mordono l’un l’altro Gli archi sono alti a lancetta, le finestre semplicemente ogivali, nella parte alta ci sono delle piccole finestre tonde; il deambutatorio e più basso delle navate laterali. Le cappelle disposte intorno al coro, di cui una - quella di fondo - è stata successiva-mente modificata, sono basse. Le volte del deambulatorio poggiano su pilastri di varie forme, alcuni a cinque lati, altri formati da fasci di co-lonnine rotonde. A volte al posto dei pilastri si trovano delle mensole, la maggior parte delle quali sono moderne.
L’esterno della chiesa mostra delle lesene e un fregio ogivale, non-ché dei contrafforti sopra le navate laterali; il coro, al di sopra delle cappelle, è sostenuto da un sistema ad archi rampanti, tutto settentrio-nale. Delle due torri, la più piccola e la più antica, costruita nel 1261, con delle finestre molto semplici, si erge sulla parte est del transetto destro; l’altra, con delle finestre più ricche a due o tre luci, costruita nel 1393 dal capomastro Bonino e dal suo aiutante, Niccolò, è collocata un po’ più lontano sulla destra.
La facciata, che si eleva in modo disorganico al di sopra della navata ed è troppo alta rispetto alla sua larghezza, ha una terminazione cuspidata, dei contrafforti e, al centro, una porta ogivale con cuspide, al di so-pra della quale si vedono due finestre strette e alte, a ogiva, e, ai lati, altre finestre più piccole, ma in tutto simili a quelle. Nella parte alta ci sono tre rosette, di cui quella al centro è sormontata da due piccole bifore con arco a tutto sesto. Come separazione, un fregio gotico corre al di sopra di piccoli medaglioni rotondi in marmo. Evidentemente la parte princi-pale di questa facciata là si deve a un restauro voluto dalla famiglia Gua-stavillani, come riferisce Pietro Lamo, e risalente alla fine del XIV secolo, perché si tratta della stessa famiglia che nel 1388 ha commissionato ai fratelli dalle Masegne il ricco altare della chiesa. E allora, quando la Guida del 1792 dice che la chiesa è stata ricostruita nel 1383, forse quest’af-fermazione si riferisce alla ricostruzione della facciata.
All’interno della chiesa l’impressione d’insieme è molto armoniosa, ma al tempo stesso così gotica e settentrionale come nessun’altra chiesa italiana che io conosca. Le proporzioni sono slanciate, la tensione verso l’alto è nettamente accentuata, la navata centrale supera di molto quelle laterali, e tutto quest’insieme corrisponde chiaramente alle prime chiese gotiche francesi. Non soltanto la disposizione delle cappelle intorno al coro, ma anche la divisione delle volte in sei settori, la strut-tura dei pilastri, il sistema degli archi rampanti, i capitelli, ricordano molto nettamente lo stile delle chiese francesi. Direi di più: sono chiese cistercensi come quella di Clairvaux e di Pontigny a essere servite da modello a quella di Bologna. Queste due chiese ci offrono quel parti-colare molto raro del coro semicircolare con nove cappelle radiali, il cui insieme costituisce all’esterno un muro continuo a semicerchio. La presenza di questa particolarità in San Francesco a Bologna prova senza ombra di dubbio che in questo caso si è trattato di un’imitazione diretta delle due chiese appena citate; il che offre un esempio partico-larmente tipico e interessante di quanto annunciato in precedenza: che i frati mendicanti, nella loro architettura, sono stati i veri continuatori dei cistercensi.

Ma a questo proposito potrebbe sorgere un’altra questione, introdotta dallo storico Thode: i fran-cescani hanno preso a prestito direttamente dalla Francia, oppure la lo-ro chiesa ha semplicemente imitato il modello dell’antica chiesa di San Domenico a Bologna? Egli ritiene che la seconda ipotesi sia assolutamente da scartare; perché, se San Domenico fosse stata così ricca e perfetta da servire da modello alla chiesa rivale, perché mai avrebbe dovuto essere modificata così radicalmente, nel 1730, da Francesco Dotti? E quel che resta della costruzione antica di San Domenico; il deambulatorio, che secondo me mostra una grandissima somiglianza con quello della chiesa di San Francesco, è incontestabilmente molto più tardo, non anteriore al XV secolo. In quel periodo, con ogni pro-babilità, i frati predicatori hanno pensato di ricostruire l’antica chiesa e di ingrandirla; e hanno preso a modello, per il coro, la chiesa dei frati minori. Il coro sembra essere stato creato volutamente con nove lati, deambulatorio e nove cappelle radiali, delle quali tre sul lato nord sono ancora conservate esternamente e una quarta è stata inglobata nella nuova costruzione. Il transetto sporgente doveva avere una termina-zione poligonale, come prova la chiusura ottagonale del transetto nord, che mostra, come in San Francesco, dei possenti contrafforti uniti da archi a tutto sesto. La cornice che li corona è decisamente un’imitazione dello stile antico e risale alla seconda metà del Quattrocen-to. Da tutto ciò risulta senza ombra di dubbio che la priorità spetta alla chiesa di San Francesco.

Pochi anni prima che iniziasse la costruzione di San Francesco a Bologna, venne posta a Padova la prima pietra della chiesa di Sant’Antonio, il grande continuatore di San Francesco, morto nel 1231 e canonizzato l’anno seguente. L’opera prose-guì sotto la direzione di diversi architetti. Il 27 settembre 1267 iniziarono i lavori al deambulatorio; nel 1310 il corpo del santo venne trasportato nella chiesa; nel 1350 la costruzione venne ultimata. Nel 1377 maestro Andriolo da Venezia comincia la cappella di San Felice; nel 1424 viene costruita la settima cupola; nel 1434 il chiostro di Cristoforo di Bolzano. Nel 1448 viene restaurata la facciata. Fra il 1481 e il 1490 viene costruito il chiostro del noviziato. Nel 1470 Bartolomeo da Ponte costruisce la cappella di Sant’Antonio, i cui lavori vengono proseguiti, nel 1498, da Agostino da Bergamo, secondo il progetto di Pier Antonio da Modena; la cappella viene ornata nel 1500 e nel 1532. Nel 1519 Giovanni Minello e Francesco di Cola erigono il chiostro grande; nel 1651 il coro viene trasformato e nel 1745 viene ultimata la cappella delle reliquie, dietro il coro. Infine, nell’862, tutta la chiesa viene restaurata da Valentin Schmidt.
L’unione della grandiosa cupola bizantina con il sistema francese del coro è da ricondurre allo stile gotico del Nord ed è ispirato in particolare al modello di quelle chiese dell’ordine mendi-cante che sulla scia di San Francesco a Bologna proseguono lo stile dei cistercensi francesi.
 
Si può fare un confronto con la chiesa di San Francesco a Padova, che lascia ancora scorgere la struttura generale della sua forma antica, malgrado la ricostruzione completa cui fu sottoposta nel 1420 a spese di Baldo Bonfario Piombi-no di Urbino e di sua moglie Sibilla. Ignoriamo la data della prima costruzione; ma le parti che restano, le facciate laterali, il chiostro e il campanile, indicano chiaramente la prima metà del XIII secolo. Si può anche affermare che la chiesa aveva con ogni probabilità la forma a croce e che all’interno era praticato il sistema delle volte. Esattamente come oggi, anche in passato la navata centrale doveva consistere in due campate quadrate, il cui numero raddoppiava in quelle laterali. Le cappelle sono state aggiunte soltanto nel 1420. La parte centrale e i bracci del transetto sono a pianta quadrata; tutti e tre gli spazi sono oggi rico-perti da volte a vela; ma il coro, molto profondo, non conserva più niente del suo aspetto antico. Nella navata, le volte sono sorrette da pi-lastri alternati a colonnine gotiche poste su piedistalli elevati, che secon-do il Rossetti furono dono di Bartolomeo Campolongo. La facciata la-terale, al pari dello stretto campanile a cima ottagonale, è ornata di lesene e di un fregio con archetti a tutto sesto; il chiostro è formato da archi a tutto sesto su colonne gotiche a capitelli bassi con foglie agli angoli. La pianta primitiva, come possiamo ricostruirla oggi, mostra una spic-cata analogia con l’antica pianta di Sant’Antonio Però rimane sempre il problema di sapere quale fosse l’antica disposizione del coro.

Ma se cerchiamo nelle chiese dell’Italia settentrionale una disposizione analoga in tutto il resto ne troviamo soltanto una anteriore a San Francesco a Padova, che presenta i suoi stessi dettagli strutturali. E’ la chiesa cistercense di Chiaravalle, vicino a Milano, di cui verrà data descrizione più avanti. Essa sola mostra la stessa disposizione della navata e del transetto sporgente formato da tre campate quadrate, una particolarità che costituisce l’elemento essenziale delle costruzioni di Padova. Però a Chiaravalle il coro forma una campata quadrata. Ma la caratteristica di questa chiesa cistercense non consiste forse nelle sei cappelle che fiancheggiano il coro, e che non sono certo presenti nella chiesa francescana di Padova? Chiaravalle non aveva in origine quelle cappelle; come ve-dremo meglio in seguito, si tratta di aggiunte posteriori - cosa che finora era passata inosservata.
La cosa essenziale è che Sant’Antonio, come la maggior parte delle chiese primitive dell’ordine francescano, segue la disposizione cistercense più semplice; solo in se-guito il coro riceve una forma più ricca, presa a prestito - come abbiamo già detto - da San Francesco a Bologna. Questo nuovo coro è for-mato da sette o, più spesso, da nove lati, ha un deambulatorio e la stessa disposizione, non proprio felice, delle nove cappelle quadrate che gli si aprono intorno a raggiera. I pilastri hanno delle mezze colonnine ad-dossate, ma non sono disposti in modo ordinato come a San Francesco. La volta del coro, a vela, è divisa in quindici settori. L’esterno di queste chiese mostra un compromesso poco felice fra diversi elementi stilistici, quindi non è il caso di occuparcene. Rivolgiamo piuttosto la nostra attenzione agli edifici che imitano la forma di San Francesco a Bologna, anche se non sono mai appartenuti all’ordine dei frati mendicanti.

Lo Schnaase ha osservato che le chiese dei serviti, di San Marti-no Maggiore e di San Giacomo Maggiore presentano una disposizione analoga a quella di San Francesco. La più antica delle tre chiese è San Giacomo Maggiore a Bologna, cominciata nel 1267, inaugurata nel 1315, modificata nel 1483 da Gaspare Nadi, e oggi modernizzata. In origine, a giudicare dalla facciata divisa in tre, doveva avere tre navate, un transetto non sporgente e un coro a nove lati, con un deambulatorio e delle cappelle quadrate, come a San Francesco. Il deambulatorio del coro e le cappelle, all’esterno, sono riccamente ornati di fastigi cuspidati. La chiesa dei Servi, cominciata nel 1383 da frate Andrea Manfredi proprio partendo dal coro, si allontana già un po’ di più dal modello antico. Il deambulatorio del coro ha nove campate, su cui si aprono nove cappelle; di queste, solo le tre sul fondo sono delle vere cappelle rettangolari, le altre sono piuttosto delle nicchie ricavate nel muro. La navata, con le sue nove volte e le sue colonne, non ha più niente in comune con San Francesco.

Ma la cosa più interessante è che la chiesa francescana di Bologna ha avuto di nuovo un grande ruolo quando, nel 1388, fu decisa la co-struzione della chiesa di San Petronio e nel 1390 Andrea Manfredi e Antonio di Vincenzo ne disegnarono il progetto, in base al quale, sem-pre nello stesso anno, ebbero inizio i lavori. Il gigantesco progetto pri-mitivo, che non ha potuto essere interamente realizzato, prevedeva una triplice navata accompagnata da cappelle laterali, un transetto e delle possenti cupole. L’edificio così progettato avrebbe dovuto supe-rare in dimensioni e in ricchezza tutto quel che era stato fatto sino a quel momento in Italia. Ma la disposizione del coro mostra un ritorno molto deciso al modello di San Francesco; e questo prova come sia sta-ta importante nel progetto di San Petronio la parte sostenuta da questo Manfredi, che abbiamo già visto ispirarsi allo stesso sistema anche nel-la chiesa dei Servi. Ad ogni modo non si tratta di un’imitazione pedis-sequa: le nove cappelle di San Francesco sono sostituite da dodici e la loro disposizione è leggermente differente. Pero la forma quadrangolare delle cappelle e il muro rotondo continuo che le chiude all’esterno sono gli stessi elementi essenziali della vecchia chiesa francescana. E’ così, in un modo assai sorprendente vediamo che il sistema dei cistercensi francesi, per intermediazione dei francescani, ha acquistato una vita nuova nell’opera forse più importante dello stile gotico italiano: una vita più teorica che reale, perché ancora oggi la chiesa di San Petronio aspetta di essere ultimata. Anche l’arte soggiace dunque alle leggi eterne dello sviluppo organico, a quelle leggi, alla cui essenza possiamo giungere sempre più vicini contando sul risultato di stimolanti parago-ni e confronti fra i singoli fatti, ma la cui origine e il cui vero contenuto continueranno a rimanere sempre un mistero per l’uomo.

Un legame certo, ma molto più sfumato, unisce la chiesa di San Francesco a Piacenza alla chiesa di San Francesco a Bologna. La somiglianza consiste soprattutto nella ripartizione degli spazi, in parti-colare l’altezza notevole della navata centrale e la disposizione delle finestre del coro. Ma qui l’architetto non conserva che l’idea generale del deambulatorio con le cappelle e si sforza di darle una realizzazione tutta nuova, che purtroppo non gli riesce molto bene. Per considerazioni di spazio o perché l’intento era quello di permettere la vista delle cappelle dalla navata della chiesa, l’architetto dispone praticamente in li-nea retta quattro cappelle - esternamente a terminazione quadrango-lare e internamente sormontate da volte divise in sette settori - met-tendole l’una accanto all’altra dietro il coro, anch’esso a terminazione quadrangolare. Da ciò risulta, per il deambulatorio a sei settori, una grande irregolarità nelle volte. Partendo dal transetto, incontriamo an-zitutto due volte quasi quadrate, poi altre due a cinque settori, infine altre due ancora a quattro scomparti. Poi si arriva dietro il coro, al cen-tro, dove sorgono un pilastro e la parete che divide le due cappelle centrali. I pilastri del coro sono rotondi, eccetto i primi due, e hanno un capitello semplice a guisa di cornice, su cui poggiano direttamente le volte. Gli archi sorretti dai pilastri ricordano quelli a lancetta di Bologna. Davanti ai pilastri delle cappelle ci sono tre mezze colonnine con capitelli bassi e smussati agli angoli, le cui foglie sono per lo più a for-ma di gemma o di spirale. Anche le mezze colonnine delle cappelle hanno dei capitelli ornati di foglie. Al di sopra delle quattro finestre semplici, sormontate da archi a tutto sesto assai originali, vediamo, co-me a Bologna, delle finestre circolari. La navata centrale ha quattro grandi campate quadrate; quattro volte oblunghe ricoprono le navate laterali. Il transetto non è sporgente, ma la sua altezza è uguale a quella della navata centrale. Gli archi ogivali, molto ampi, poggiano su pila-stri rotondi - cosa che ricorda la vicina chiesa dei francescani a Parma - e la volta è sorretta da lesene, che sono accompagnate da due rinforzi rotondi. I sottarchi sono tanto tesi da sembrare a tutto sesto; i costolo-ni hanno il profilo ornato di foglie lanceolate. Sul muro di ciascuna campata, in alto, si vedono due finestre ornate di trafori e pentalobate, ma con gli archetti terminali tanto ampi da farle sembrare quadrango-lari; sotto ciascuna finestra c’è una piccola nicchia ogivale, sopra cui si apre un rosone. La navata centrale è alta e indipendente; nelle navate laterali, le volte oblunghe producono un effetto fastidioso come nel duomo di Firenze; ma l’insieme dà almeno un’impressione grandiosa e monumentale. La facciata, divisa in tre parti da lesene sormontate da graziosi pinnacoli, si eleva con le sue tre finestre tonde, come a Bolo-gna, molto al di sopra delle navate. Il portale a tutto sesto, di un’orna-mentazione particolarmente ricca, è antico e mostra nella raffinatezza dei dettagli una perfezione che si incontra raramente. I putti che giocano con gli animali tra le foglie dei capitelli sono di una grazia e di una bellezza incomparabili. Questi putti e la lunetta con la Stimmatizza-zione di San Francesco indicano che il portale risale al XV secolo. Due finestre ogivali ai lati mostrano di nuovo il singolare traforo merlato, in cui si nota, come nelle finestre della facciata laterale, una tendenza all’arco carenato. La facciata laterale ha un sistema di archi rampanti molto pronunciato.
L’insieme dell’edificio è una mescolanza singolare di elementi di-versi. Mentre il coro ricorda le chiese di Bologna, la disposizione delle volte e il dettaglio delle finestre rivelano apertamente l’influenza dello stile veneziano.

Evidentemente influenzata da San Francesco è un’altra chiesa di Piacenza, quella di Santa Maria del Carmine, con quattro volte quadrate nella navata centrale e quattro volte oblunghe in quelle laterali. Il transetto non è sporgente. Il coro qui è semplicemente quadra-to. Sulla navata di sinistra sono state aggiunte due cappelle pentagonali piuttosto grandi.

Infine incontriamo nell’Italia del Sud un edificio francescano, che, senza essere stato influenzato dalle chiese di Bologna, presenta una di-sposizione del coro molto simile, qui presa direttamente dalla Francia: San Lorenzo Maggiore a Napoli.
Questa chiesa esisteva già prima del 1234, anno in cui è stata ceduta ai frati minori; distrutta da un terremoto nel 1232, è stata restaurata in-sieme alla facciata da Fra Tommaso da Terracina. Il Vasari afferma che Carlo I ne affidò la ricostruzione, decisa nel 1265, a Maglione di Pisa; ma il lavoro cominciò soltanto nel 1280, e la chiesa, consacrata nel 1300, venne conclusa nel 1324. Nel 1580 un muro dritto venne eretto davanti al coro, e nel XVIII secolo la facciata è stata restaurata. È una chiesa dalla pianta a croce, a copertura piana nella navata e nel transet-to, la cui forma semplice ricorda le costruzioni umbro-toscane. È pos-sibile che Maglione, su modello delle grandi chiese degli ordini mendi-canti della sua patria, abbia voluto fornire al coro quadrangolare delle cappelle laterali; ma probabilmente nel 1280 il suo progetto è stato modificato nella direzione dello stile francese, forse sotto l’azione di un architetto francese. Il coro ha un deambulatorio con nove cappelle pentagonali, che all’esterno sporgono solo con tre lati. Le volte sono sorrette da possenti mezze colonnine, addossate ai pilastri e ornate di ca-pitelli con due file di foglie. Le cappelle poligonali ricordano qui diretta-mente le cattedrali francesi, cosa che non ha nulla di sorprendente, visto che fu un Angiò a ordinare la costruzione dell’edificio; e poi l’influenza francese si fa sentire praticamente in tutti gli edifici gotici di Napoli. Del resto, come hanno notato lo Schnaase e il Mothes, il sistema del deam-bulatorio con le cappelle era già apparso nella cattedrale di Acerenza, nella chiesa della Trinità a Venosa e ad Aversa, anche se nella sua forma più semplice, in stile romanico, con tre sole cappelle, forma che trovia-mo nel XI e nel XII secolo nelle chiese dell’Alvernia e della Borgogna.
 

- Il modello semplice cistercense

Il gruppo di chiese che stiamo per esaminare ha preso a modello, come le precedenti, le chiese dell’ordine cistercense; una caratteristica che già Schnaase e Burckhardt hanno evidenziato in linea generale. Queste chiese conservano la disposizione semplice che, come abbiamo visto, già balenava davanti agli occhi degli architetti umbri quando progettarono le prime chiese dell’ordine mendicante. Comunque in Umbria questa disposizione è ulteriormente semplificata, mentre nel Nord si mantiene intatta, anzi, a volte viene addirittura arricchita e sviluppata. In aggiunta al modello cistercense compare talvolta un elemento nuovo: al di sopra della crociera viene costruita la cupola, per la quale l’arte italiana ha sempre avuto una predilezione particolare; altre volte la triplice navata viene ornata con una serie di cappelle. E questa forma ben precisa non rimane limitata all’Italia del Nord, ma si estende anche a Firenze, a Roma, arrivando addirittura fino a Napoli. La diffusione si spiega col fatto che questa forma rispondeva particolar-mente ai bisogni dei frati mendicanti e nel contempo, con il suo doppio carattere di imponenza e di abbondanza di spazio, era perfettamente confacente alle grandi città, alle quali del resto era destinata, in opposizione al modello umbro-toscano che invece era riservato alle piccole cittadine. Diamo quindi un’occhiata alle costruzioni cister-censi in Italia, che hanno avuto un ruolo così importante sullo sviluppo dell’architettura gotica.

Il più importante edificio cistercense è quello di Chiaravalle, nell’omonimo sobborgo milanese. Il convento è stato fondato da Bernardo di Chiaravalle, che ha soggiornato a Milano nel 1134, fino ai primi mesi dell’anno seguente. La chiesa, secondo un iscrizione che ancora esiste, è stata consacrata nel 1221. Non sappiamo però se sia stata costruita nel XII o nel XIII secolo. Presenta la forma usuale a croce, costituita da una navata centrale a quattro campate quadrate, otto volte a pianta quadrata in ciascuna delle navate laterali, basse la metà di quella centrale, e una cupola fiancheggiata da una torre sopra la crociera i bracci del transetto, sporgenti, hanno un campanile a volta. Il coro è quadrato e ha sulla destra e sulla sinistra tre cappelle egualmente quadrate. Al braccio destro del transetto si aggiunge la sagrestia oblunga, con tre volte e un’abside pentagonale; con la navata laterale sud confina il chiostro, che si e solo parzialmente conservato. Bisogna distinguere la costruzione primitiva da un restauro effettuato nel XIII secolo, che ha introdotto nella disposizione romanica originaria degli elementi gotici. Si tratta delle prime arcate della navata, a sinistra e a destra, degli archi della crociera e degli ingressi ogivali a forma di porta che dal transetto conducono alle navate laterali. Impossibile sapere se le cappelle laterali del coro, con le loro grandi finestre prettamente gotiche, e la sagrestia, che appartiene manifestamente alla stessa data delle cappelle, provengano da questo primo restauro o da uno più recente. Ma è molto probabile che tutti i cambiamenti siano contemporanei all’edificazione dell’interessante lanterna, che sicuramente indica un secondo periodo nella costruzione. E anche possibile che la crociera avesse in origine una volta a sesto acuto, come nelle chiese cistercensi del Nord, oppure, secondo il gusto italiano, una semplice cupola, come gli edifici cistercensi della regione romana. Le cappelle vicine al coro, che nel 1613 sono state interamente cambiate all’interno, appartengono chiaramente non al pri-mo periodo gotico, ma al secondo, come si arguisce subito guardando dall’esterno, dove queste cappelle si appoggiano al transetto con i loro tetti spioventi. Sono di un’altezza fuori dal comune e attualmente sono divise in modo singolare in due piani, di cui quello superiore conserva l’antica volta a crociera. Il soffitto centrale è stato applicato solo più tardi, forse nel 161327. Le volte poggiano su massicci sostegni rotondi, sormontati da pilastri formati da tre mezze colonnine ornate di capitelli a forma di dado tagliato di sbieco. Nelle navate laterali le volte a crociera, prive di modanature, poggiano direttamente sui pilastri dei muri, a ciascuno dei quali è addossata una mezza colonnina. Le piccole finestre in alto sono semplici; le tre finestre del coro sono alte, slanciate e a tutto sesto; quelle delle cappelle sono state per lo più modernizzate. Al di sopra delle basse navate laterali si innalzano dei contrafforti molto compatti. La facciata del transetto ha delle finestre circolari. Sulla facciata principale, interamente rimodernata, solo il portale è antico. Il chiostro, di cui resta ancora qualche arcata a ogiva, proviene molto probabilmente dalla seconda ricostruzione, così come l’enorme refettorio a cinque campate che oggi serve da falegnameria. L’edificio, nel suo complesso, può essere definito al meglio come la traduzione italiana di un’opera francese. E da nessuna parte l’elemento francese si manifesta più esplicitamente di quanto non faccia nelle piccole cappelle funebri, completamente indipendenti dallo stile italiano, che si trovano nelle vicinanze del transetto nord. Ma per quanto riguarda il sistema delle volte e la loro disposizione, così come la forma originale, un po’ troppo pressata degli archi a tutto sesto, la chiesa di Chiaravalle ricorda moltissimo Sant’Ambrogio a Milano, quindi si è tentati di mettere le due chiese in relazione. Dire quale delle due abbia influenzato l’altra è difficile, vista la mancanza di notizie più precise su Chiaravalle. Sant’Ambrogio è stata costruita fra il 1130 e il 1160. La sua cupola è stata rimodernata verso il 1200, e senza dubbio nello stesso periodo hanno avuto inizio i lavori alle volte delle navate laterali, forse anche alle volte della navata centrale. Prima del 1184, anno della consacrazione di Sant’Ambrogio, era stata portata a termine la ricostruzione del duomo di Modena, le cui volte assomigliano un po’ a quelle delle due chiese suddette.

Vediamo ora brevemente la seconda chiesa di Chiaravalle, situata tra Ancona e Senigallia. Questa chiesa fondata nel 1172, mostra uno stile ogivale perfettamente espresso che qui, come sostiene il Mothes, risale a modelli tedeschi piuttosto che francesi. La navata ha sei volte oblunghe a crociera, alle quali corrisponde un numero uguale di volte quadrate nelle navate laterali la crociera ha una volta a pianta quadrata; il transetto sinistro ha tre volte oblunghe, il transetto destro due, anch’esse oblunghe. Accanto al coro quadrangolare, tre cappelle quadrate si aprono sul transetto nord. Ai pilastri sono addossate quattro mezze colonnine.
Altre chiese cistercensi presentano caratteristiche particolari: nelle chiese di Fossanuova presso Anagni, di Casamari presso Veroli e di Santa Maria in Ferentino, al di sopra della crociera è collocata una cupola e accanto al coro ci sono due o tre cappelle. La chiesa di San Vincenzo ed Anastasia a Roma, consacrata nel 1221, ha ricevuto alla fine del XII secolo un coro di tipo cistercense con quattro cappelle.