" Lungo i sentieri della follia" |
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Vincent Van
Gogh
(1853 - 1890)[1]
Trenta marzo 1853. Nel
presbiterio di Groot Zundert c’è attesa e tanta agitazione, qualcuno prega. Anna Cornelia Carbentus,
moglie del pastore Theodorus Van Gogh, sta per partorire. Un anno prima, quasi
nello stesso giorno, aveva messo al mondo un bimbo nato morto, Vincent Willem.
Gli stessi nomi vengono dati al neonato: Vincent Willem Van Gogh. Vivendo nell’infanzia
quasi all’ombra del fratello, Vincent, taciturno e solitario, fa grandi
camminate in campagna; nella scuola pubblica di Groot Zundert impara a leggere,
a scrivere e a far di conto; studia francese, inglese e tedesco senza grandi
risultati. La situazione economica
precaria del padre lo costringe a terminare a soli quindici anni gli studi e così
il 30 luglio 1869 viene assunto come venditore di riproduzioni dalla ditta
Goupil & C., dove anche il fratello Theo verrà assunto all’inizio del
1873. Come impiegato Vincent è zelante, puntuale, efficiente, un modello che
merita soltanto elogi. La sua vita è regolare, austera, studiosa, legge e
visita musei; il suo rapporto con il fratello diventa sempre più intenso, come
è testimoniato dalla fitta corrispondenza epistolare instauratasi fra i due,
dalla quale oggi si possono evincere pensieri, emozioni e spostamenti di
Vincent. Nel marzo del 1873 il
giovane viene mandato a Londra dalla compagnia per la quale lavora e vi
soggiorna non senza problemi economici; qui ha modo di scoprire, conoscere e
apprezzare la pittura inglese. Si innamora di Ursula, la
diciannovenne figlia della padrona di casa, e poco prima di ripartire per
l’Olanda le chiede di sposarlo; lei rifiuta, Vincent è respinto, deluso,
disorientato, sperduto. Durante il secondo soggiorno
a Londra, nell’inverno 1874 – 1875, attraversa lunghe settimane di
depressione: più nulla lo interessa (“La voglia di disegnare che mi era
venuta qui in Inghilterra è di nuovo scomparsa”), soltanto Dio è importante
e ogni occasione è un pretesto per invocare la Bibbia. Dopo aver lasciato per due
mesi senza una giustificazione la ditta, viene licenziato e, ossessionato dal
misticismo, attratto da Dio, lascia tutto per cercare in Inghilterra un impiego
che gli permetta di stare a contatto con la gente e con la religione. Egli vuole
diffondere le parole della Bibbia fra i poveri e gli operai e la morte comincia
a diventare per lui un’ossessione. Dopo numerose ricerche, trova lavoro presso
il reverendo Jones e pronuncia i suoi primi sermoni (“Sono uno straniero sulla
terra…sul pulpito mi sembra di emergere da un sotterraneo oscuro verso la luce
amica del giorno”). Il suo misticismo giunge al
limite, al fratello Theo racconta in una lettera che il Signore gli è apparso;
spaventata per queste sue ossessioni, la famiglia lo convince a rimanere a Etten
dopo le vacanze di Natale del 1876; qui, impiegato in una libreria, non smette
mai di leggere la Bibbia e il suo “intimo desiderio, la sua preghiera è che
lo spirito di suo padre e quello di suo nonno rinascano in lui, che gli sia
concesso di essere un servitore di Cristo”. La sua fede ha vinto;
Vincent sarà pastore come il padre, come il nonno; prima però deve superare
l’esame di ammissione alla facoltà di teologia di Amsterdam, studi lunghi e
difficili che la dedizione del padre non può garantire. Gli zii lo accolgono
nella grande città, lo consigliano, lo aiutano; lui si impegna accanitamente,
ma i dubbi improvvisi sulle sue capacità provocano in lui una disperazione che
lo spaventa. Per punirsi dell’insufficienza del suo lavoro si fustiga, si
mortifica, arriva persino a riempirsi la schiena di lividi a colpi di bastone e
a imporsi di dormire all’aperto durante le notti più fredde. E in questo periodo si
rafforza il suo rapporto con il mondo della pittura; nelle lettere al fratello,
per descrivere i paesaggi o i visi che ha visto, i suoi riferimenti sono
esclusivamente pittorici e continua a citare le opere più note. Vincent
comincia a disegnare. La notizia della morte di
due pittori famosi lo affligge
perché “l’opera di quegli uomini ci tocca più profondamente di quanto noi
stessi potremmo mai pensare. Deve essere molto bello, morendo, essere coscienti
di aver fatto delle cose veramente buone, sapere che per questo è possibile
continuare a vivere almeno nella memoria di qualcuno, sapere di lasciare un buon
esempio a quelli che ci seguono”. Per il momento Vincent non
lascia esempio a nessuno, tutt’altro. Ha fallito. I risultati degli esami
preparati per quindici mesi sono negativi. Si reca quindi a Bruxelles
per frequentare la scuola fiamminga di evangelizzazione, dove gli studi sono
meno costosi e durano solo tre anni invece di sei. Ma “non sapeva cosa fosse
la sottomissione”, ricorda un novizio del suo corso. La sua indipendenza, la
sua incapacità di sottostare alle regole, le sue collere improvvise sono per i
suoi superiori ragioni sufficienti per escluderlo dalla scuola. Vincent parte per il
Borinage per predicare a tutti quelli che ne hanno bisogno; visita i malati e
commenta la Bibbia ai minatori. In questo periodo Vincent
disegna degli schizzi sulle frequenti lettere che invia al fratello: dal
carboncino escono opere che ritraggono categorie inedite, minatori di carbone,
tessitori e contadini; questa fase non è dominata dal ritratto, bensì da
quelle che lui chiama “ figure”, uomini e donne che non posano per i loro
tratti, ma per un gesto, un’attitudine, spesso quella del lavoro. La sua
energia è tutta tesa ad afferrare il reale e a conquistare la padronanza
tecnica . Non vuole il sensazionale, l’originale, bensì il naturale, il
necessario, la chiarezza. OPERA 1: "I portatori del fardello" In questo “I portatori del
fardello” (Borinage, aprile 1881), la miseria disarmante che Vincent disegna
non è un "tema soggetto": è quella che egli vive quotidianamente in
nome del Vangelo; la religione è sempre presente, simbolo dell’importanza
attribuitale da Vincent. Respinto dalla Chiesa, si
stabilisce nell’agosto 1879 presso un pastore evangelista a Cuesmes per
continuare comunque l’evangelizzazione: è solo e disprezzato, perché nessuno
comprende la sua ostinazione cocciuta e feroce che se ne infischia delle
convenzioni. Theo tenta continuamente di
convincere il fratello della necessità di imparare un mestiere, ma è tutto
inutile nonostante il sospetto del fratello ferisca Vincent, che intuisce
l’accusa silenziosa di voler vivere sulle spalle della famiglia (“…
sentendomi intruso e proscritto tanto da capire che la mia morte sarebbe una
liberazione per tutti”). Presto Vincent si accorge
della passione per la pittura; Theo da Parigi gli invia molte stampe che il
fratello copia, corsi di disegno, libri sull’anatomia e sulla prospettiva, che
egli studia con la stessa foga con cui ha letto, tradotto e commentato la
Bibbia. Nell’ottobre 1880 Vincent
si reca a Bruxelles dove vorrebbe lavorare con un artista e accanto a lui
apprendere le leggi della proporzione, della luce, delle ombre, poiché non
crede nell’insegnamento tradizionale dell’Accademia. Frequenta quindi un giovane
pittore, Anton Van Rappard, un cavaliere ricco che studia a Bruxelles, il quale
lo inizia alla pittura. Dopo anni di dubbi, abbandoni, fallimenti, Vincent
comincia a riconoscersi. Nell’agosto 1881, l’amore folle per la cugina Kate ispira una forza completamente nuova al suo lavoro. Ma un nuovo rifiuto umiliante manda in collera Vincent, che per dispetto posa la mano sopra la fiamma di una lampada a petrolio. La sua impulsività si manifesta così preannunciando il folle gesto di nove anni dopo. OPERA
2: "Alle porte dell'eternità" (1882) Questo dipinto è una delle
“figure” di Van Gogh, in cui le persone rappresentano un’attitudine:
questo non è un ritratto, o forse è il ritratto della disperazione, sentimento
che già il giovane cominciava a provare viste le delusioni, la solitudine, le
incomprensioni. Vincent dipingerà anche nel
1890 il soggetto del vecchio seduto in lacrime; nell’angoscia e
nell’abbandono rappresentati in quest’ultima opera si deve riconoscere
l’apice della delusione del pittore, quella che lo porterà al suicidio,
oppure la sua abitudine a riprendere sempre i soggetti che lo ossessionano. La pittura è l’ultima
risorsa che gli resta e a L’Aia si tuffa in questo mondo, sostenuto dai
consigli e dall’aiuto economico del pittore Mauve e dalla presenza di una
donna, la sua amante, una prostituta incinta, alcolizzata, sifilitica, detta
Sien . In questo periodo i rapporti
di Van Gogh con chi gli sta attorno si guastano:
non ammette la minima riserva nei confronti del suo lavoro; una
restrizione è un’ingiuria; una critica, una condanna. Così si susseguono le
discussioni, le amarezze, le rotture. Lo sconforto è costante
nelle sue lettere: “So già che dovrò soffrire molto e precisamente a causa
di alcuni tratti caratteristici della mia indole che non posso proprio
cambiare”. Le esigenze interiori distruggono così i suoi rapporti sociali.
Decide all’improvviso di sposare Sien e la famiglia prende provvedimenti per
metterlo sotto tutela: lo fa dichiarare pazzo. Reietto, miserabile,
sfinito, il 7 giugno 1882 Vincent entra nell’ospedale comunale dell’Aia in
quarta classe; vi rimane ventitré giorni e in seguito lascia Sien. Si trasferisce nel Drenthe,
una terra piatta con torbiere, campi, brughiere, canali; tutti i giorni esce per
disegnare, ma la depressione, il rimorso, la tristezza lo abbattono: si
rimprovera di essere incapace di avere rapporti normali con qualcuno. A Nuenen, nel presbiterio
familiare, si consuma una nuova rottura con i genitori e con il fratello dal
quale non sopporta di essere criticato: lo fa sentire come “ un cane irsuto
con le zampe bagnata che tutti esitano a far entrare in casa”. Nella sua terra si concentra
sullo studio dei contadini e nasce la sua prima composizione (”I mangiatori di
patate”), mentre a Parigi si parla della scandalosa pittura degli
impressionisti. Nel febbraio 1886 si reca
dal fratello a Parigi, dove entra a contatto con questo gruppo, all’epoca
contrastato; Vincent si concentra sullo studio del colore e la sua pittura, da
oscura come ai tempi di Nuenen, cambia: il colore irrompe sulla tela.
Poco a poco Vincent riprende a suo modo i temi cari agli impressionisti,
utilizzando anche la tecnica del puntinismo. Dipinge fiori sgargianti, vedute di
paesi, giardini in festa, mulini, ritrovi, cabaret e ritratti, dai quali il
pittore vuole che si evinca il carattere del personaggio. I due anni di Parigi sono
per Van Gogh un periodo felice. E’ ormai un grande pittore e forse lo sa, ma
negli ultimi tempi tutte le sue passate frequentazioni lo disgustano. Un amico
ricorda le sue collere improvvise: “Si toglieva gli abiti, si buttava in
ginocchio nella furia della discussione e niente poteva calmarlo”. Il 20 febbraio 1888 Van Gogh
lascia bruscamente Parigi per Arles. Qui la solitudine e la luce della Provenza
gli ridanno la serenità, ma lui prova intensamente l’amarezza dell’esilio
perché non riceve né stima né affetto. Ora la sua tavolozza è decisamente
colorata e per Vincent gli interni e gli esterni della Provenza hanno di notte
tinte e significati particolari, trasformandosi in paesaggi notturni
indimenticabili come la famosa "Notte stellata", in cui prevale il
giallo, colore dal quale il pittore è ossessionato. In questo periodo aumenta il
dinamismo nel tratto. La tensione rimane sotto controllo e i manierismi, come il
movimento concitato dei cipressi o i tronchi tortuosi degli olivi, aumentano.
L’oggetto particolare, i dettagli, si ritirano sempre di più davanti
al movimento delle sole linee. Dipinta nel giugno 1889,
questa "Notte stellata" è un’opera straordinaria che esprime una
drammatica vitalità e una notevole capacità visionaria. Il segno è concitato,
violento, quasi rabbioso: le pennellate si muovono con un’irradiazione
circolare di colore. I cipressi sembrano agitati da una forza interiore che li
fa vibrare come lingue di fuoco. “(Il cipresso) è la
macchia nera in un paesaggio assolato, ma è una delle note nere più
interessanti, la più difficile da dipingere che io possa immaginare. Ora,
bisogna vederli qui contro il blu, nel blu per dir meglio. I cipressi mi
preoccupano sempre”. Le stelle ruotano
vorticosamente su se stesse come meteore impazzite. In questo quadro Vincent ha
dipinto la potenza della luce e la rappresentazione di un sogno. Un anno prima
scriveva al fratello: “La vista delle stelle mi fa sempre sognare, come pure
mi fanno pensare i puntini neri che rappresentano sulle carte città e villaggi.
Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, allo stesso modo
possiamo prendere la morte per andare su una stella”. Questa tela ben rappresenta
la tecnica che dall’inizio del 1888 s’impone fino a prevalere: la
dissoluzione della superficie pittorica in pennellate di forma geometrica
regolare, ma di immensa varietà come linee e semicerchi, spirali, figure
tortuose, forme che ricordano il tre o il sei. Problemi gravi di salute
impediscono spesso al pittore di lavorare, ma la convivenza iniziata
nell’ottobre 1889 con Gauguin lo rende felice: una forma di esaltazione
creativa riesce per ora a sopprimere la malattia mentale che presto lo colpirà. Tuttavia è proprio
l’incontro con l’amico più caro, che considera un maestro, a provocare la
prima seria crisi nella salute mentale di Van Gogh . I due abitano insieme e
dalla intensa, reciproca frequentazione, Van Gogh prende coscienza della loro
diversità. Dopo un solo mese dal suo arrivo, Gauguin si rende conto che il suo
rapporto con Vincent è già incrinato. A seguito di una lite violenta, mentre
Gauguin se ne va a Parigi, Vincent si stacca un orecchio con il rasoio. Lui
stesso poi documenterà questo momento della sua vita con “L’autoritratto
con l’orecchio tagliato”. Ma la crisi morale e
psichica è difficile da superare. Theo sta per sposarsi e Van Gogh vive questo
fatto come un abbandono. Dopo una crisi, Vincent viene trasferito in una clinica
per alienati mentali a Saint-Remy-de-Provence, dove rimane un mese. Si chiude così la fase di
Arles: è durata un solo anno, ma ha prodotto circa duecento tele e un centinaio
di disegni. Il 7 gennaio 1889 torna ad
Arles, ansioso di ricominciare a dipingere; la pittura lo aiuta, ma per le
continue crisi, il 7 febbraio è di nuovo internato all’ospedale. Qui il suo unico pensiero è
dipingere, ma la sua arte si modifica: il colore non è più così importante,
ora Vincent è tutto preso dalle forme, ondulate e sconvolgenti. Sulle sue tele
si trovano cipressi quasi come fiamme, cieli vorticosi, tronchi di ulivi
scortecciati che mettono a nudo un’anima.. Soffre di allucinazioni,
tenta di suicidarsi bevendo essenza di trementina e le sue crisi spaventano i
vicini; con una petizione del quartiere viene isolato in una cella e in maggio
entra nella clinica psichiatrica Saint-Paul-de-Mausole. Opera 4 “L’ospedale Saint-Paul-de-Mausole"(fotografia) Opera 5 “L’ospedale Saint-Paul-de-Mausole" Vincent dipinge
ininterrottamente anche all’ospedale, quando la salute glielo permette:
l’arte è lo sfogo della depressione e la via d’uscita dal tunnel della
paura della morte. La pittura, egli spera, potrà
risparmiargli delle nuove crisi che lo spaventano molto. Durante le crisi
infatti, allucinazioni visive e auditive intollerabili provocano in lui
“l’orrore della vita”. Eppure anche la pittura è
causa di un rimpianto che lo tormenta continuamente: “Provo sempre un
rimpianto enorme quando penso al mio lavoro così poco in armonia con quello che
avrei desiderato fare”. Ma nel luglio un'altra crisi tremenda lo colpisce, ha
una ricaduta, poi si riprende: “Il lavoro mi distrae infinitamente più di
ogni altra cosa e se potessi davvero tuffarmi nel lavoro con tutta la mia
energia sarebbe certo il miglior rimedio”. Improvvisamente il 24
dicembre lo colpisce un attacco violento, terribile, che dura una settimana; poi
tenta di avvelenarsi succhiando i tubi dei colori. Nel maggio 1890, lo
sconforto: “Ancora una volta mi lascio andare a inseguire le stelle troppo
grandi e – nuovo fallimento – ne ho abbastanza”. Nonostante gli articoli
entusiasti su di lui per i quadri esposti ad una mostra parigina, lui è
infastidito dalla pubblicità, è assalito dalla depressione unipolare. Il soggiorno a Saint-Remy
non serve quindi a ridare la salute a Vincent. Theo lo rivuole a Parigi e lui vi
rimane quattro giorni. Poi si trasferisce ad Auvers-sur-Oise e qui incontra il
dottore Gachet, che ritiene che la miglior terapia per Vincent sia dipingere. Dal pennello di Vincent
nascono nuove tele, dove i gialli e i colori brillanti sono scomparsi; sono
subentrati colori caldi, ma più contenuti. Theo viene a trovarlo con
moglie e figlio e l’incontro provoca una grande gioia a Vincent. Ma anche Theo
vive un periodo difficile; i
puntuali versamenti economici al fratello subiscono qualche ritardo e Vincent si
sente abbandonato. E’ a questa fase che appartiene il drammatico “Campo di
grano con volo di corvi”. A Vincent tutto sembra crollare intorno. A Theo, in
una lettera del 23 luglio, parla dell’inutilità della vita. Il 27 luglio è
domenica e Vincent si dirige verso i campi di grano come mille altre volte. Ma
non ha con sé i pennelli e il cavalletto, porta solo una rivoltella per sparare
ai corvi: la userà contro di sé in un momento di acuta disperazione. Ferito,
riesce a ritornare fino al Cafè Ravoux, dove vive a pensione. Viene mandato a chiamare il
suo amico dottor Gachet, che riscontra l’impossibilità di estrargli la
pallottola. Quando Theo arriva la mattina dopo, trova il fratello tranquillo:
seduto sul letto, sta fumando la pipa. Chiacchierano insieme tutto il giorno in
olandese, con l’armonia dei vecchi tempi. Vincent muore così, con Theo
vicino, all’una e mezzo del mattino del 28 luglio 1890. In una lettera scritta
poco prima al fratello diceva, riferendosi agli ultimi quadri, “ non
ho avuto difficoltà nel cercare di esprimere la tristezza, la solitudine spinta
all’eccesso”. E in un altro scritto invece: “sai a che cosa penso spesso,
a quel che dicevo un tempo.. credevo che, anche se non fossi riuscito, quello a
cui avevo lavorato sarebbe tuttavia continuato”. Un
diverso, un genio, un folle? Alla luce della sua
autobiografia, è innegabile che Van Gogh ben rappresenti uno degli emblemi del
mito genio-sregolatezza e genio-follia. Infatti possiamo ritrovare
molti elementi che, secondo recenti studi su questo argomento, lo riconducono ad
un tipico "caso patologico" come ad esempio: §
alto quoziente intellettivo; §
alto quoziente emozionale: rapporti tesi con la famiglia, sentimento di
alter-ego nei confronti del fratello maggiore nato morto, delusioni amorose
frequenti, sconforto per il fallimento nello studio, sentimento di abbandono
(nei confronti del fratello e degli amici). La sua vita è segnata da
anticonformismo e ribellioni: vive l'esperienza scolastica come un attentato
alla sua libertà e quindi non consegue grandi risultati. Non crede nella
validità del tradizionale insegnamento accademico. E' in preda ad una vera e
propria ossessione per la religione e prova avidità morbosa per la conoscenza
della Bibbia. E' incapace di
stabilire rapporti duraturi e stabili con altre persone; litiga spesso con amici
e conoscenti. E' narcisista e i numerosi
ritratti lo testimoniano. E' masochista, vive ripetute
crisi e tenta più volte il suicidio; alterna però momenti di intensa attività
artistica che placano la paura della morte, perché crede che i dipinti
garantiscano l'immortalità. Nella sua vita si susseguono
fasi di entusiasmo e di abbattimento, tipiche della depressione bipolare, fino a
giungere allo stadio ultimo, quello della volontà di morire,
dell'insoddisfazione per la sua vita e per il suo lavoro, attività che lo ha
sostenuto ma lo ha divorato. Questo grande artista non è
nato da una psicopatia, ma è stata la sua mente diversa a portarlo alla follia;
infatti, alla sua anima geniale i dipinti apparivano imperfetti e incapaci di
esprimere la sua disperazione, i suoi sentimenti; quindi si sentiva impotente di
fronte al suo grande genio. Forse il successo lo avrebbe
salvato, forse l'approvazione del pubblico lo avrebbe convinto dell'inestimabile
valore delle sue opere… ma nella storia le ipotesi non sono concesse. “Ahimè! Egli non ha dipinto a lungo…
Un’inquietudine mortale, per nulla metafisica, ma professionale, era in
lui…. Lo diceva, lo devastava poco a poco…. Poco a poco, pezzo a pezzo, egli
le dava in pasto tutta la sua sostanza. Non era mai soddisfatto della sua
opera… Sognava sempre al di là di quello che realizzava.. Sognava
l’impossibile.. In preda a
collere selvagge, egli si infuriava contro la sua mano, quella mano fiacca e
debole, incapace di eseguire sulla tela quello che la sua mente concepiva
perfetto e geniale … Egli è morto di questo, un giorno!”
(Octave
Mirabeau).
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